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Autore: missohara    01/07/2013    1 recensioni
Elisa fino a poco tempo fa contava le calorie di ogni pasto e quando doveva mangiare vomitava.
Elisa saliva sulla bilancia decine di volte al giorno, e ogni etto perso era un sospiro di sollievo e ogni etto acquistato una sconfitta personale.
Ora no: ora Elisa ha realizzato di voler bene alla vita e ci prova con tutta se stessa, a uscire dal tunnel dell'anoressia.
Ci prova e non sempre ci riesce, e a mille problemi che le martellano in testa.
Francesco è cieco, invece. Francesco non sa muoversi senza un bastone, legge con le mani e troppo spesso è lasciato in disparte perché non ci vede, e troppo spesso si fa delle paranoie inutili per questo.
Francesco ed Elisa. Stesso liceo, stessa classe, tre anni passati a ignorarsi, o quasi.
Lui non la può vedere, lei non vuole che il suo corpo sia visto...
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Tre

Tre

Umnyye devochki ne plachut

 

Le ragazze intelligenti non piangono

 

Lei ha gli occhi del colore dell'asfalto
e non conosce il verbo rallentare.
Lei è una carreggiata senza più guard rail
capace a costruirsi un ponte sopra il mare.

(...)

Lei come una strada che attraversa praterie
che
mentre viaggia taglia il vento e poi ci prende nelle vie,
lei insieme alla sua spada ci rimane sempre accanto
con un piede sulla luna e una mano sopra il mondo
lei indossa una bandiera che si è strappata ora
che forse per qualcuno può sventolare... ancora.

(Non è una favola, Cristiano de André)

 

 

Arianna non era quel che si soleva definire una ragazza comune. Forse per la sedia a rotelle sulla quale era costretta da anni, ma non era solo quello.

Era il suo viso, fatto di lineamenti di per sé belli, ma slegati fra loro. Un volto maledettamente imperfetto circondato da una massa di capelli bruni e nel quale risplendevano due occhi troppo verdi.

Il suo corpo era esile, fondamentalmente. Non faceva nessun tipo di sport, nonostante le sue condizioni le permettessero di praticare qualcosa, perché non le andava giù di fare qualcosa di fisico costretta su quella sedia. Lei che aveva nuotato fino ai suoi undici anni, tagliando l’acqua con energici fendenti di braccia e gambe, non se la sentiva proprio di mettersi ad allenare la parte funzionante del suo corpo.

Aveva preferito contare sul suo cervello piuttosto che su un corpo che l’aveva già tradita una volta.

Così era rimasta una ragazza esile perché non mangiava granché. Gracile, la si sarebbe potuta definire, quasi debole. Ma la debolezza di Arianna era causata solo da un corpo troppo fragile ed era compensata da una mente vivace.

Arianna era un fiume in piena. Lo era sempre stata, anche prima dell’incidente, quando in piscina faceva vasche su vasche fino a non poterne più. Lei era una di quelle bambine che fin dalla più tenera età si era sottoposta all’agonismo sportivo e a differenza di tante delle sue compagne non le era stato imposto da genitori con manie di protagonismo assoluto. Per lei tagliare l’acqua con le mani e arrivare prima a una gara era una sfida. Una sfida contro se stessa, contro le proprie debolezze e contro l’acqua.

L’acqua che la circondava e che scalciava fino a non poterne più, l’acqua che le entrava negli occhi e nelle orecchie, l’acqua che strizzava via dai lunghi capelli scuri che d’estate lasciava asciugare al sole.

Era caduta nell’acqua, il giorno dell’incidente, nonostante quell’acqua formasse solo una pozzanghera per strada. E quando si era risvegliata aveva scoperto di non essere più libera e leggera perché le sue gambe erano morte. Quello era stato il giorno più brutto della sua vita. Non il giorno dell’incidente, ma il giorno in cui le avevano rivelato che la sua vita non avrebbe più avuto nulla di normale.

Che poi non era vero, ma lei come poteva saperlo? Aveva trascorso la sua estate fra la prima e la seconda media da sola, accanto a una finestra. Le sue amiche non la cercavano per uscire, come avrebbe potuto farlo? E lei dal canto suo era troppo apatica, troppo demoralizzata e troppo tutto  per provarci davvero, a condurre una vita normale.

Guardava l’estate spegnersi e consumarsi con indifferenza, troppo svogliata e incattivita persino per leggere o guardare la televisione.

Poi a settembre qualcosa dentro di lei si era mosso. Era stato l’inizio della scuola, a riportarla in maniera troppo brusca e repentina per poterla ignorare del tutto. E si era trasformata. La rabbia che da sempre l’animava si era trasformata in qualcosa di più costruttivo, perché lei stessa era consapevole che quel sentimento l’avrebbe logorata, prima o poi. E così era diventata quella ragazza tenace, forse anche troppo poco fragile per i suoi dodici anni. Aveva provato a compensare quel corpo troppo poco forte con qualcos’altro, e ci era riuscita. Aveva finito le medie con voti vertiginosi e si era iscritta al liceo classico, e per lei quella scuola era una contraddizione. Odiava le regole, lo studio quotidiano e riteneva i professori antiquati. Eppure lei quella scuola l’amava. Amava riempirsi gli occhi di latino e di greco, di cose scritte anni e anni prima e di trovarci un senso, malgrado tutto.

E poi aveva deciso di studiare giurisprudenza perché doveva diventare un avvocato, lei. E difendere quei mille piccoli diritti quotidiani negati a chi come lei era immobilizzata su una sedia a rotelle. E lei il carattere dell’avvocato ce l’aveva davvero.

Aveva spirito polemico e grinta da vendere. E poi era animata da quei suoi mille ideali che la rendevano così diversa eppure sempre pronta a mettersi in gioco per gli altri.

 

Lei e Francesco si erano conosciuti in una colonia per ragazzi disabili. Erano gli unici senza problemi neurologici di nessun tipo, altrimenti nessuno dei due si sarebbe avvicinato all’altro.

Lei se ne stava sempre col suo libro. Erano per lo più libri di poesia, in quel periodo era in fissa con i poeti maledetti perché esprimevano quel lato oscuro che c’era in lei. Quel lato buio che nonostante tutto era nato perché la facciata agguerrita e spavalda di Arianna era, appunto, solo una facciata.

Francesco era semplicemente timido. Troppo silenzioso ed introverso per mettersi a chiacchierare con chicchessia, e Arianna l’aveva osservato a lungo da dietro il suo libro di poesie, benevolmente incuriosita da quel ragazzo della sua età che non abbandonava mai il lettore mp3 o l’audiolibro, perché aveva semplicemente timore di dover parlare.

L’aveva osservato, Arianna, e aveva capito che in quei suoi grandi occhi chiari, incapaci di vedere, ma perfettamente in grado di esprimere sentimenti, c’erano tante cose da dire.

E così gli si era avvicinata e con la schiettezza che le era propria gli aveva chiesto se gli andasse di fare amicizia, e così era stato. Avevano passato tante giornate seduti lei sulla sedia a rotelle lui su un muretto a parlare. A parlare del loro sentirsi diversi, dell’inadeguatezza di Francesco e dei grandi ideali della ragazza. E si erano capiti, in qualche modo. Lui che le spingeva la sedia a rotelle e lei che lo guidava, e quante persone li guardavano con gli occhi  strabuzzati, e quanti passanti che avevano urtato, e quante zelanti signore avevano detto che quel modo di viaggiare era, come dire, un po’ pericoloso per entrambi.

E Arianna alzava le spalle e sorrideva noncurante perché a lei in fondo non importava. Avrebbe preferito rischiantarsi per strada piuttosto che rinunciare a quelle scorribande a quattro ruote, due gambe, due occhi funzionanti e un bastone bianco.

E Arianna e Francesco erano rimasti amici. Un po’ per sempre un po’ per cinque minuti, perché con Arianna l’idea di un’amicizia tranquilla era impossibile, lei che gli dava del cretino per telefono di fronte alle sue paranoie, ma che l’aveva sempre ascoltato e gli aveva dato sempre i migliori consigli del mondo.

E poi Arianna si era innamorata davvero. Di Vittorio Emanuele, lo studente di medicina dal nome pretenzioso. Era stato lui ad innamorarsi di quella ragazza così tenace eppure così fragile, che risvegliava in lui ammirazione e un certo istinto protettivo nei suoi confronti.

Lui era davvero il principe azzurro in camice bianco, con gli occhi gentili e il carattere più buono del mondo.

E Arianna lo maltrattava quotidianamente, questo si sapeva.

Perché lei non era buona, morbida, gentile. Non era nel suo carattere ed a volte era tanto spinosa da scoraggiare chiunque. Ma Vittorio Emanuele no, lui vuoi per masochismo vuoi per amore sincero con Arianna voleva stare e le rimaneva accanto sempre e comunque.

E lei con lui si sentiva intera, naturale, autentica. La faceva sentire una donna vera malgrado le gambe atrofizzate e la sedia a rotelle. I suoi occhi che la seguivano sempre e quello sguardo innamorato le facevano piacere perché si sentiva ancora piuttosto desiderabile e tutto questo era maledettamente bello, per una come lei.

 

 

Lei nel frattempo aveva diciassette anni. Diciassette anni di ideali, sogni spezzati e ricuciti alla meglio. Era una storia sbagliata, la sua. Non sarebbe dovuta andare così e lei lo sapeva, ma se lo faceva andar bene.

Nonostante la vita con lei fosse stata ingiusta, Arianna si era fatta andar bene tutto questo. Un po’ cercava di cambiare il mondo un po’ rideva sopra ai suoi ideali, un po’ cinica un po’ rivoluzionaria com’era.

C’erano i libri e la musica. C’era il suo essere femminista convinta e il suo ascoltare quasi esclusivamente cantanti donne. C’erano Aretha Franklin e Janis Joplin, i suoi due miti di sempre, perché erano donne con le palle. E quando aveva scoperto che Janis Joplin era morta di droga si era convinta che lei la sua stessa fine non l’avrebbe mai fatta, perché  non voleva essere così fragile. E a diciassette anni lei aveva bisogno degli altri, era arrivata a capirlo. Ne aveva bisogno come chiunque e forse di più, nonostante lei non volesse accettarlo, anche se in cuor suo l’aveva capito.

E lei viveva così, fra sogni femministi, corse in sedia a rotelle condotta da un ragazzo cieco e batticuore per uno studente di medicina semplicemente troppo buono.

 

When my soul was in the lost and found

You came along to claim it

I didn't know just what was wrong with me

Till your kiss helped me name it

Now I'm no longer doubtful

Of what I'm livin for

And if I make you happy

I don't need to do more

quando la mia anima era persa

sei venuto a rivendicarla

non sapevo cosa c'era di sbagliato in me

fintanto che il tuo bacio mi ha aiutato a scoprirlo

ora non sar? per molto incerta

sul motivo per il quale io vivo

e se ti rendo felice

non ho bisogno di fare altro

(you make me feel like a natural woman, Aretha Franklin)

 

Parte II - Waiting for a star to fall

Mi sento solo in mezzo alla gente
Osservo tutto ma non tocco niente

Mi sento strano e poco importante
Quasi fossi trasparente e poi
Resto fermo e non muovo niente

Ma no, non voglio essere solo
Non voglio essere solo
Non voglio essere solo mai

(Le ragazze di Osaka, Eugenio Finardi)

 

Giacomo non capiva il mondo e non capiva la gente. Giacomo capiva la musica.

La capiva e l’adorava, ma non bastava.

Era un ragazzino che parlava poco, fin da piccolo. Taciturno, forse strano, con la tendenza ad isolarsi.

A scuola era diligente e scrupoloso, eppure le maestre erano stranamente intimorite da quel bambino che le guardava sempre con occhi tranquilli e seri, ed era fin troppo calmo. Ai colloqui le insegnanti dicevano ai genitori di Giacomo che nonostante il suo rendimento fosse impeccabile, il bambino riscontrava molte difficoltà nel socializzare. Non aveva amici e a scuola passava gli intervalli sulla panchina solo e sembrava immerso in chissà quali riflessioni.

Semplicemente, Giacomo non aveva niente da dire agli altri bambini. E se ne stava così, in silenzio, ad osservarli giocare a pallone mentre il tempo passava e tutti crescevano.

Da adolescente era stata la stessa cosa.

Un ragazzo riservato, studioso, con voti alti, ma una timidezza assoluta.

Era stato a tredici anni che aveva            incontrato la musica. L’aveva incontrata per davvero  un giorno qualunque di marzo, quando il suo professore di musica, un professore  anziano dagli  occhi buoni, aveva suonato la Sonata al chiaro di luna. I suoi compagni se ne stavano lì, con l’aria annoiata e svagata delle ultime ore del venerdì. Ma per lui quel brano era semplicemente troppo. Troppo forte, troppo bello, troppo vero.

Era la quintessenza dell’amore e lui che di amore sapeva così poco l’aveva capito. Erano note immortali nonostante tutto,  nonostante i secoli e nonostante la distanza che divideva il compositore viennese da quel ragazzino curvo sui libri.

Eranox note limpide e potenti, note che a quel ragazzino dall’aria scontrosa avevano lasciato il segno. E quella Sonata al chiaro di luna, quello stesso pezzo scritto in Austria per una ragazzina dal nome italiano  che si esercitava al pianoforte da uno dei compositori più eclettici e geniali del mondo aveva regalato a Giacomo la gioia più bella: la musica.

Non erano stati i pezzi classici a rubargli il cuore, nonostante tutto.  Erano stati i dischi dei Beatles trovati in casa sua, antichi testimoni di una passione fugace per il rock da parte del padre di Giacomo.

Erano stati i suoi eroi. John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr. In una parola, i Beatles.

Quei quattro con la pettinatura da cretini che dai bassifondi di una città industriale dell’Inghilterra erano diventati le stelle.

E dopo i Beatles c’erano stati altri gruppi, altre voci, altri sogni.

E c’era stata la sua prima chitarra poco prima d’iniziare il liceo, e gli accordi di “Angie”, dei Rolling Stones, ch’era la prima canzone che aveva imparato perché avrebbe voluto dedicarla ad una donna, chissà quale, poi.

C’era stato il liceo sociopsicopedagogico al quale s’era iscritto perché voleva capire la gente. Eppure non l’aveva capita. Non aveva capito perché fra i suoi genitori le cose andavano male in maniera sconcertante eppure tutti facevano finta di niente, perché per i suoi compagni lui era solo un’ombra taciturna e invisibile,  perché quando ascoltava la musica raggiungeva una dimensione segreta, lontana da tutto e bellissima.

La musica era l’unica cosa grazie alla quale viveva. O forse non era vero, si era solo autoconvinto che fosse così.

Poi c’era stato Francesco. L’amicizia più timida e strana del mondo nata fra i banchi di scuola. Due ragazzi estremamente riservati, eppure entrambi si piacevano, più o meno. Era una simpatia reciproca che, per quanto timidamente, era nata e non era possibile sciogliere quella muta complicità che si era venuta a creare fra di loro. Era un’amicizia fatta di ore e ore allo stesso banco e di parole abbozzate fra una lezione e l’altra. Non troppe perché erano tutti e due estremamente diligenti e non si perdevano mai troppe spiegazioni. Studiavano insieme e Giacomo aveva fatto sentire all’amico la sua musica.

Ma Giacomo si sentiva solo. Gli mancava il calore di un gruppo di amici, gli mancava una ragazza per la quale avere una cotta, gli mancavano quelle piccole trasgressioni tipiche nei ragazzi della sua età. Eppure lui non riusciva a lasciarsi andare.

Non ci riusciva perché fra lui e gli altri c’era una distanza e lui l’intuiva, e non voleva colmarla.

Perciò se ne rimaneva lì, nel suo mondo fatto di note e di accordi, a sognare un’epoca in cui non era nato e i palcoscenici di Londra, New York, San Francisco, Los Angeles.

Per Giacomo le uniche persone che contavano veramente, adesso, erano i suoi idoli. John Lennon, che con un pugno di note e di parole ci provava, a cambiare il mondo, e parlava al cuore di Giacomo. Bruce Springsteen e il suo sogno americano ridotto in mille schegge, come un vaso prezioso che con un colpo di vento si sgretola. Che con quella sua musica parlava dell’America, quella meno patinata e più vera, fatta di ragazze rimaste incinte troppo presto e di torri ridotte in cenere.

E c’erano Bob Dylan e Mick Jagger, e tanti altri che con il loro modo di fare riempivano il cuore di Giacomo di speranze, ideali, rabbia. Eppure lui non sentiva di assomigliare a nessuno di loro. Erano tutti troppo sfacciati, troppo impudenti, troppo tutto. Erano cantanti con grinta, personaggi a volte eccentrici a volte troppo fragili, e lui nonostante li adorasse a loro non assomigliava. Erano tutti troppo estrosi, troppo poco timidi.

Poi aveva visto Brian. Brian May, il chitarrista capellone dei Queen. Quello tanto tranquillo, quello con la laurea in fisica e l’aria da bravo ragazzo.

Brian era diventato uno dei suoi idoli, a poco a poco. Era più quieto, meno appariscente e meno eccentrico, eppure per Giacomo rappresentava una certezza.

La certezza che malgrado la timidezza e il carattere riservato, uno poteva farcela. La musica avrebbe vinto le sue reticenze, almeno si illudeva fosse così.

Giacomo  aveva le canzoni in testa, e lo sapeva. Quando si svegliava con le note martellanti di “Born to Run” di Springsteen che gli riempivano la testa di quel ritmo frenetico e la cascata di note iniziali e il fragore della canzone. Un giorno una ragazza con cui correre verso la libertà e l’infinito l’avrebbe trovata, sperava.

Non sapeva dove, ma lui l’amore di una donna lo cercava. Forse per la mamma fredda che aveva, svuotata dalla mancanza dei bambini che non aveva più avuto, lui cercava calore, affetto, protezione da una donna.

Che però era ignota, per ora. Nelle ragazze che vedeva trovava  troppa frivolezza, troppo trucco, troppe chiacchere che non riusciva a capire. Però una ragazza che gli avrebbe riempito gli occhi di una luce singolare, un po’ romantica un po’ appassionata, da qualche parte doveva pur esserci.

Una ragazza alla quale suonare “Oh my love” di John Lennon fino alla nausea, fino a riempirle il cuore di esasperata tenerezza.

Però quella ragazza non c’era e a riempirgli il vuoto c’era la musica. Che un po’ lo ossessionava, un po’ placava quel buco che sentiva dentro.

 C’era “Ruby Tuesday” dei Rolling Stones come suoneria del cellulare, c’era la sveglia di “Born to Run”, c’era “Take it easy” degli Eagles per colazione e “Every breath you take” quando voleva sognare davvero, perché quella canzone lo faceva volare più di altre.

E poi un giorno l’aveva trovata, quella specie di cotta platonica e un po’ ossessionante ed irrimediabilmente sbagliata.

***

 

Parte III - Ogni angelo è tremendo

 

“Sei sicuro che sia una buona idea?”, gli chiese Giulia per l’ennesima volta. Francesco non lo sapeva, se quella era un’idea grandiosa.

Sapeva solo che voleva farlo. Dopotutto, Arianna e Giacomo erano i suoi due migliori amici e  voleva che s’incontrassero.

Giulia, rannicchiata sul letto del fratello in posizione fetale, non sembrava pensarla così. Era una ragazzina di tredici anni e la cecità non era bastata per frenare la sua estroversione. In quel momento indossava una tuta morbida e i capelli erano raccolti in una coda bruna ed approssimativa ed era curiosa di sapere come la faccenda sarebbe evoluta.

“Posso venire anch’io? Sto zitta e buona…”, lo supplicò la ragazzina.

Dopotutto, a lei quella faccenda stava a cuore.

“Non è una buona idea, credimi. Come pensi che farebbero due non vedenti una ragazza in sedia a rotelle e un povero malcapitato a girare per una città? Già quando Arianna ed io andiamo insieme ci sono problemi…”, rispose lui.

Era vero. Quando Arianna e Francesco se andavano in giro destavano non poche preoccupazioni nei pedoni circostanti e, pur essendo buffi, la gente era molto allarmata.

Questa volta però ci sarebbe stato Giacomo.

Giacomo, che non conosceva Arianna. Ed era il sogno di Francesco, farli incontrare. Loro erano i suoi due migliori amici. O meglio, gli unici amici che lui avesse mai avuto.    

“Prego per la sanità mentale di Giacomo… Arianna non lo deve traumatizzare.”, sentenziò saggiamente Giulia. Dall’alto dei suoi nemmeno quattordici anni era più saggia di lui.

Forse perché donna, forse perché a volte gli ricordava un elfo gentile, anche se a volte i suoi sbalzi ormonali da preadolescente incavolata con il mondo erano molto poco da folletto dei boschi. Giulia era volubile come l’acqua. Un momento era una ragazzina spensierata, che nonostante la cecità era convinta di avere il mondo in una mano e dopo poco era tutta un’altra persona, con mille dubbi e mille incertezze. Eppure Giulia ce la faceva. Sempre. Si rialzava da ogni caduta con un sorriso, a volte zoppicante, ma un sorriso.

E Francesco le invidiava quella serenità cristallina che l’animava in ogni momento. Eppure adorava sua sorella.

 

Si riscosse da quella fantasticheria al suono del telefono. Il trillo familiare che segnalava l’arrivo di un sms lo fece trasalire, quasi. Era Giacomo, che gli diceva d’essere sotto casa sua.

Prese il bastone bianco e, dopo aver salutato la mamma e la sorella, si avviò giù, verso la strada. Sapeva benissimo che non gli sarebbe potuto accadere niente, fino a che fosse stato nei luoghi che conosceva. Con il bastone bianco riusciva ad orientarsi abbastanza bene subito fuori casa e dentro al liceo, mentre per i percorsi esterni stava lavorando, ed era una lotta continua contro le sue paure perché una macchina poteva arrivare da un momento all’altro e lui poteva attraversare la strada con troppa distrazione e aveva troppa paura di quel che sarebbe potuto accadere.

Giacomo lo aspettava. Gli prese gentilmente il braccio.

“Allora, dove andiamo?”, chiese intimidito.

“A casa di Arianna… Spero non ti traumatizzi.”, osservò Francesco con tatto.

Giacomo dell’amica in sedia a rotelle di Francesco aveva sentito parlare tanto. Aveva visto la fotografia del profilo facebook della ragazza, scoprendo che nonostante la paralisi era bella, e i tratti delicati e l’espressione di perenne ironia le conferivano un’aria molto particolare. Non era quel tipo di che si metteva in posa per scatti memorabili o provocanti. Era una ragazza comune, a modo suo, ma maledettamente diversa dalle altre.

Continuarono a camminare fino  a quando non ebbero intravisto una graziosa villetta di un celeste pallido.

“Come faremo? A spostarci, voglio dire… Fare un giro in centro può  essere un’operazione un po’ pericolosa, con una ragazza in sedia a rotelle e un ragazzo che non vede, non pensi?”, osservò cauto Giacomo.

“Mah… Arianna in qualche modo se la cava, spingendo la sedia a rotelle o facendosela spingere. E io posso sopravvivere, dai.”, gli rispose il ragazzo con un tono non granché convinto.

Un clangore inaspettato fece voltare i due ragazzi. Eccola, Arianna.

Aveva una figura fragile e su quella sedia a rotelle pareva quasi accartocciata, se non addirittura striminzita.

Il viso era delicato, e in quel momento aveva un sorriso un po’ incerto, come di una che non sapesse bene cosa fare. Però fu brava a celare quel disagio e quando parlò, lo fece con tono molto pratico e veloce, quasi mangiandosi le parole.

“Ciao Francesco! Tu devi essere Giacomo, vero?”, domandò lei tendendogli una mano con fare deciso. Lui gliela strinse, incerto, ancora dubbioso su come affrontare la situazione.

Lei era buffa. Nonostante, a quel che poteva giudicare Giacomo, se glielo avesse detto si sarebbe arrabbiata, il suo essere immobilizzata dalla vita in giù non faceva altro che renderla simile ad uno strano elfo e il cappello di lana che indossava, di un vivace verde menta, non faceva che conferirle una somiglianza strana con un folletto dei boschi benevolo. La sua sedia a rotelle pareva un guscio, o forse un nido, in cui poteva come nascondersi, a volte.

A Giacomo quell’immagine di lei, uno scricciolo seduto su una sedia a rotelle, infuse tenerezza. E si sorprese a guardarla con occhi privi di timidezza o sconcerto. Lei ricambiò il suo sguardo, quasi sperasse lo distogliesse in fretta e così fece. Francesco se ne stava lì, senza poter vedere le occhiate dei due, a chiedersi cosa pensassero l’uno dell’altra.

“Gelato?”, propose intimidito lui.

“D’accordo, dovrebbe esserci una gelateria buona a qualche isolato.. Mettiamoci in marcia.”, disse Arianna sorridendo.

E così si avviarono, ed erano un terzetto piuttosto comico. Francesco procedeva in testa, muovendo il bastone bianco con molta circospezione e Arianna, nel manovrare la sedia a rotelle, gli dava indicazioni su dove andare. Lei si muoveva in mezzo alla gente con un po’ di fatica, e nonostante stesse attenta, a volte tendeva ad urtare i passanti. Quanto a Giacomo, camminava dietro a tutti ed era un po’ incerto su cosa fare.

Osservava Arianna sempre più incuriosito. Ne guardava il profilo delicato, i lunghissimi capelli scuri raccolti in una coda piuttosto pratica, senza ne vezzi né nulla.

Le aveva osservato i monconi, quelli che un tempo dovevano essere stati l’attaccatura delle gambe. E quella sedia a rotelle pareva un trono, una portantina, qualcosa che la rendeva unica. S’invaghì di lei camminando per quella strada un po’ anonima un po’ magica, il ragazzo. Se ne invaghì seguendo una ragazza paralizzata e un ragazzo col bastone bianco, sentendosi diverso perché lui, almeno fisicamente, stava bene. Si sentiva diverso fra quelli che comunemente avrebbero definito tali, e intanto guardava quella ragazza esile che si muoveva maldestramente fra i passanti, lanciando sguardi sarcastici a chi fissava lei e Francesco con occhi di curioso stupore.

Arrivarono alla gelateria e mangiarono parlando di tutto. Giacomo si stupì di se stesso quando raccontò, timidamente, ad Arianna della chitarra e del suo sogno di suonare, un giorno o l’altro.

“Spero tu non diventerai l’idolo di milioni di ragazzine.”, commentò seccamente lei.

Giacomo farfugliò qualcosa imbarazzato. Non era certo il suo scopo nella vita, diventare un animale da palcoscenico, però la cosa aveva un certo fascino, e non poteva negare che forse, nel suo intimo, gli sguardi e le urla di ragazze adoranti avrebbero aiutato la sua autostima, anche se probabilmente quell’affetto effimero non gli sarebbe bastato.

“Io diventerò avvocato. Voglio difendere tutti tutte quelle persone con un problema fisico o mentale, perché… Perché sento che devo fare così. Ci sarebbero mille ragioni per farlo, ma non è il caso di spiegarle.”, disse la ragazza per rompere il silenzio.

“Io non lo so cosa farò, non davvero. Se avessi visto mi sarebbe piaciuto fare il medico, o il fotografo. Prendermi cura degli altri o immortalare istanti sarebbero lavori perfetti, per uno come me.”, sentenziò Francesco.

“Puoi fare entrambe le cose, se ci pensi. Curare gli altri facendo un lavoro come lo psicologo, e immortalare istanti scrivendo o componendo canzoni.”, disse saggiamente Arianna. Giacomo la guardava imbambolato. Quella ragazza non pareva mai smettere di parlare. Aveva un’eloquenza tutta sua e le sue parole schiette e quegli sguardi limpidi che lanciava ogni tanto erano come frecce.

“Già…”, si limitò a dire Francesco, come se parlare della cosa gli desse fastidio.

Lo capirono sia Giacomo sia Arianna, perché si affrettarono a cambiare argomento. Parlarono di libri, di scuola, di musica, di  quei loro sogni che si affacciavano  a volte timidi a volte ardenti nei loro cuori.

Francesco e Arianna si volevano bene. Fra loro c’era un’intesa che Giacomo trovava impressionante.  Forse erano i problemi fisici dei due,  a completarli in un modo assurdo, quasi gli occhi di lei sopperissero alla cecità del ragazzo, e lo stesso valeva per la paralisi di Arianna, compensata in qualche modo dal fatto che Francesco poteva camminare.

Giacomo intuiva che lui non poteva forzare l’amicizia che c’era fra quei due. Si sentiva un po’ un intruso a star con loro, eppure i suoi occhi correvano sempre al viso di Arianna ed al suo corpo fragile intrappolato in quella sedia a rotelle, e non riusciva a capire il perché di quella sensazione strana che lo invadeva quando lei incrociava il suo sguardo.

Non lo capì. Non capì che si trattava di una cotta presa per una ragazza che più che altro l’aveva affascinato con la sua grinta e le sue parole vibranti di forza, perché era troppo impegnato a lottare contro la timidezza che in quei momenti lo bloccava.

Francesco, di solito silenzioso quanto lui, parlava con allegria e spontaneità, e Giacomo si trovò ad invidiarlo. Lui godeva della completa attenzione della ragazza e nonostante lei a volte gli rispondesse in maniera anche fin troppo dura, l’ascoltava sempre.

Quel pomeriggio lo passarono così, seduti su una panchina come tre adolescenti come ce ne potevano esser tanti.

Arrivata l’ora di andare a casa si incamminarono, in qualche modo, tutti e tre insieme. Arianna cantando a labbra chiuse “I say a little prayer” della Franklin, dimostrando di avere una voce intonata, anche se niente di eccezionale.

Francesco la baciò sulla guancia prima di salire in casa e Giacomo si limitò a guardarla con occhi totalmente persi. Il suo sguardo era quel tipo di occhiata di cui una ragazza diversa da Arianna si sarebbe vantata con le amiche, perché negli occhi di Giacomo c’era una luce particolare.

Arianna forse intuì i sentimenti del ragazzo, quel miscuglio di tenerezza, ammirazione e qualcosa d’indefinibile che doveva agitarsi nel suo cuore, ma non disse niente, si limitò a voltar la carrozzina e a destreggiarsi fino a casa, senza pensare più di tanto a quel ragazzo timido.

 

 

Note:

Le ragazze intelligenti non piangono: è una canzone di Valerija, e il titolo originale è in russo. Si ringrazia la mia amica Martina, nonché Betareader mediamente santa, per averla trovata al momento giusto.

 

Ed ecco questo capitolo. Dopo quattro mesi di ritardo.

Mi vergogno come una ladra, sempre che poi i ladri si vergognino. Io a I’ll be your mirror tengo maledettamente, ma vado a rilento. Mi distraggo, m’impigrisco, m’incanto.

Beh… Questo è il capitolo che mi ha convinta di meno, perché è scritto con uno stile un po’ troppo pieno di licienze pseudo poetiche, come le strutture di grammatica ridondanti, che a mio parere servono per rafforzare certe cose, ma non so…

Loro sono Arianna e Giacomo. Ho usato la terza persona perché mi sembrava meglio, la prima la userò solo al “presente” e quadno a narrare saranno Elisa, o Francesco.

Questo capitolo si svolge tutto prima dei precedenti, almeno dal punto di vista cronologico. Né Elisa né Marta sono entrate ancora in scena.

Dal prossimo, penso, si tornerà al presente, anche se ci saranno ancora alcuni flashback, un po’ perché li adoro, un po’ perché sono necessari a spiegare un po’ di cose.

Tenete d’occhio Arianna. Nonostante la cotta che Giacomo ha nei suoi confronti sarà del tutto platonica quanto passeggera, lei non è affatto passeggero come personaggio!

E beh… A risentirci, I hope, non fra mesi!

Baci

Ceci

 

      

 

 

   
 
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