I’m
hearing what you’re saying but I just can’t
make it sounds.
Corsi giù per le
scale. Non c’era nient’altro al di fuori
del fuggire.
Attraversai il grande atrio
senza curarmi di tutti quegli
sguardi superiori e curiosi.
Correvo, fuggivo e le
lacrime mi bruciavano sul viso.
Fuggivo da cosa, poi?
Da un pericolo, un dolore,
un’illusione?
Non lo sapevo.
Appena sentii la brezza
fredda fuori dall’edificio mi
accorsi di aver dimenticato dentro la giacca. Cavolo! Non potevo
assolutamente
tronare dentro…
Tutto ciò
bastò però a riportarmi alla realtà.
Freddo. Tardi. Casa. Dovevo
tornare a casa!
Controllai il cellulare, ed
erano le 21 e 48.
Imprecai. Le avrei
addirittura sentite dai miei. Ma che
importava a questo punto?
Ripresi la mia corsa, che
almeno questa volta aveva uno
scopo. Scesi di fretta gli scalini della metro e strisciai la tessera.
Presi in tempo il vagone
giusto e mi buttai su un sedile.
Solo allora mi accorsi di quanto ero devastata. Avevo corso per almeno
un
chilometro, le lacrime che mi prosciugavano. Cosa avevo fatto il
pomeriggio per
stancarmi così tanto?
Socchiusi gli occhi di
scatto, alla fitta di ricordo.
No. No, l’avrei
eliminato. Non potevo permettermi di
conservare quella serata. Se si crea un problema, la cosa migliore era
eliminarne la causa.
La causa era quella. E
avrei fatto il possibile per far
finta che nulla fosse mai successo.
Presi un respiro profondo.
Asciugandomi le lacrime,
seppi che la decisione era presa.
Scesi dal vagone e
m’incamminai verso casa. Senza fretta,
perché avevo bisogno di trovare una scusa.
Quando varcai la soglia,
però, trovai i miei genitori
seduti al tavolo della cucina, intenti a leggere qualcosa sul PC. Mio
papà era
un uomo sulla cinquantina, la barba grigia lasciata crescere qualche
millimetro, gli occhi blu severi, ma che ogni tanto sorprendevo a
brillare,
quando parlava della sua passione, il viaggio. Con la nascita di mia
sorella,
il lavoro che richiedeva molto tempo, la mia scuola, la casa e la
famiglia in
generale, ormai non si può più permettere
nient’altro che pochi giorni
all’anno. Lo so che soffre, so che è un sacrificio
davvero grande. Però quando
sfoga questa sua rabbia repressa su di noi, sto male anch’io.
E questo capita
sempre più spesso.
Mia madre era invece una
donna piuttosto ordinaria. O
almeno, io la vedevo così. Dicevano che le somigliavo molto:
capelli e grandi
occhi castani, viso dai lineamenti un po’ appuntiti e liscia
pelle olivastra,
che d’estate s’imbruniva sempre molto.
Caratterialmente,
però, non potevo sentirmi più diversa.
Lei si accontentava, io volevo sempre più; lei era semplice,
io avevo milioni
di sfaccettature; lei era stabile, io ero sempre in bilico. Insomma, la
vedevo
una figura affidabile, molto attenta alle regole, ma niente di
più.
<< Ah, ciao.
>> mi disse in modo calmo alzando
lo sguardo dallo schermo
<< Ciao!
>> risposi fingendo entusiasmo.
<< Vi siete
fermate a cena vedo. >> osservò lei
senza alcuna traccia di severità. Era calma e per nulla
arrabbiata. Bene. Potrà
lasciarmi in pace.
<< Si. Sono
davvero stanca… Vado a dormire! >>
<< Va bene,
buonanotte tesoro. >>
Così mi rifugiai
in camera mia.
Cavolo, l’avevo
scampata grossa! Non avevano neanche notato
che non avevo il cappotto che mi avevano appena comprato…
Però lo
noteranno.
Ma ora non ci voglio
pensare.
Mi misi il pigiama cercando
di non fare troppo rumore,
anche se sapevo che Katy non dormiva. Fortunatamente non condividevamo
la
camera, ma eravamo comunque adiacenti.
Mi gettai sul letto,
esausta.
Il giorno dopo sarei dovuta
andare a scuola… Avrei dovuto
affrontare tutti. Anna, Jess. Davis.
Dovevo farmi coraggio e
raccontare tutto. Era la cosa
giusta, no?
Tornava a farsi spazio
quella dolorosa voragine. Sembrava sempre
peggio.
Era
come se
quel ragazzo fosse arrivato da me, si fosse intrufolato nei miei
circuiti,
avesse fuso ogni singolo componente e poi se ne fosse andato.
Lasciandomi con i
pezzi che ancora colavano, sola, a cercare invano di ricomporli.
Nonostante
tutto riuscii ad addormentarmi.
<<
Alice! Alice svegliati o farai tardi! >>
Sentii
mia
mamma riportarmi alla realtà.
<<
Si
mamma. >> mugugnai debolmente, stropicciandomi un occhio.
A
passi
lenti mi avviai in cucina e presi posto a tavola.
<<
Penso di aver fatto un sogno strano stanotte…
>> cercai di ricordare.
C’era
un
ragazzo, si. Un ragazzo che… Oh no. No, non era affatto un
sogno.
<<
Cosa hai sognato…? >> domandò mia
madre.
<<
Oh
no niente, non me lo ricordo… >> mi salvai.
All’improvviso
persi l’appetito. Così andai subito a vestirmi:
avevo bisogno di pensare.
<<
Non
finisci i cereali? >>
<<
N-non ho fame. >>
Quindi
era
reale. Mi ero
scontrata con una pop
star, che mi ha invitato a bere una cioccolata calda e lì mi
ha baciato. Poi
siamo andati nella sua camera d’albergo (che era
più un attico), mi ha baciata
di nuovo, ma lì ho scoperto che non ero assolutamente
nessuno. “Assurdo”,
continuavo a bisbigliare.
“Eppure,
è
così, accettalo. Vai avanti.” mi dicevo.
Ovvio,
era
la cosa più logica!
Ma
non
volevo, non potevo… Stavo male.
Quel
ragazzo… Lo odio! E sarei tornata alla vita reale in un
baleno, se non avessi
dimenticato lì il giubbotto. I miei non se ne potevano
permettere un altro.
Mi
preparai
in fretta, scesi di corsa senza dare il tempo alla mamma di
rimproverare il mio
abbigliamento e afferrai la bici.
Subito
sentii l’aria muovermi i capelli. Sapevo che era aria sporca,
aria impura, ma
era aria. Che sapeva di libertà.
In
sei
minuti e mezzo, come al solito, fui davanti al cancello della scuola.
<<
Alice! >> mi corse in contro Anna.
<<
Ehi! >> risposi imitando l’entusiasmo.
Entrammo
in
classe per la prima lezione, che passo tranquillamente.
All’intervallo
si avvicinò Davis.
<<
Ehi.
>> e mi baciò sulla guancia.
A
mio
malgrado, il contatto mi diede quasi fastidio…
<<
Ciao. >>
<<
Come stai bella? >>
<<
Bene, tu? >>
<<
Bene ma… davvero, non ti vedo molto convinta.
>>
“A
quanto
pare, mi conosce più del previsto.”
<<
Solo… Solo una nottataccia. >>
Mi
abbracciò.
E io mi lasciai cullare dalle sue braccia, come se potessero guidarmi
verso una
soluzione.
Poi
però mi
ricordai che non sapeva nulla di ciò che era successo la
sera prima.
<<
Che
c’è? >> chiede dolcemente lui, al
mio staccarmi bruscamente.
Scossi
la
testa.
<<
Questo pomeriggio ti passo a prendere alle 3, ok? Non me ne frega se
devi
studiare o cosa, tu hai bisogno di un gelato. >>
esclamò lui.
“Davis,
no.
Non vedi che sono un mostro? Vattene. Per favore. “
<<
Va
bene. >> sorrisi.
E mi avviai a lezione, con gli occhi che bruciavano.
Ciao
fantasmini! Questo capitolo è stato assolutamente
inutile e vuotissimo, scusate! E’ che tra esami, fratelli
ecc. non riuscivo a
scrivere.
Ora andrò avanti di filato, miei cari
lettori inesistenti.
E’ così bello che
nessuno mi segua. Sapete,
ci si sente proprio motivati!
In ogni caso, se qualcuno capitasse per caso
da queste parti, una recensione sarebbe molto gradita :)
So che sto parlando da sola, comunque, ora
vado :)
Un bacio!
Jenn<3