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Autore: __Sayuri__    16/07/2013    5 recensioni
[Post The Avengers] [tiene conto marginalmente di Thor:TDW]
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Una battaglia è stata vinta, ma l'equilibrio dei mondi è ormai appeso ad un filo. Persino la lungimiranza di Odino fatica ad intravedere l'ordito di un Fato sempre più intessuto di ombre e minacce. Chi sono i nemici di Asgard? I mostri di un passato quasi dimenticato, o i suoi stessi figli?
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[Per una migliore comprensione delle dinamiche narrate in questa storia si consiglia la lettura del prequel "Rinascita"]
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AGGIORNAMENTI LENTI
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jane Foster, Loki, Sigyn, Thor
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 1 - La caduta di un dio

Capitolo 8 – L'ora dei segreti





Palazzo di Sessrùmnir, Asgard




Ci sono poche cose in grado di turbare l'animo di un guerriero, e Tyr ha imparato a riconoscerle sin da ragazzo, quando ha scelto per amante una spada e per amico il braccio che la regge.

Una è il silenzio, perché ricorda l'istante incerto che precede il fragore della battaglia, quando si è tutti uguali, tutti deboli, tutti perdenti; come pure la fine dei combattimenti, dopo l'urlo di vittoria, quando la polvere si posa su un terreno che gronda e si contano i morti.
Per questo indossa sempre la sua tintinnante corazza, anche ora, mentre siede - solo - sui quieti gradini esterni di Sessrùmnir, e tende le orecchie inseguendo anche il più lieve rumore.

Un'altra è l'immobilità, perché il riposo delle membra è l'anticamera del trapasso: illude la vista, abbassa le difese, nutre i pensieri più nefasti e libera le paure.
Quindi anche adesso affila la sua spada, in un movimento ritmico e istintivo che gli è naturale quasi quanto il respirare, pietra contro ferro, scintille stridenti e odore di bruciato. Una, dieci, cento volte.

Tyr non abbassa mai la guardia, nemmeno ora che Asgard dorme, avvolta da un sudario vischioso e quasi nauseante nella sua perfezione, perché quella che Odino chiama pace - ma lo è davvero? - è l'unica cosa che il dio della Guerra teme. Ha accecato gli occhi di tutti, col tempo, e ora Asgard e il suo Re sono ridicolmente deboli, costretti ad elemosinare aiuto dalla più degradante e fallace delle alleate.

Freya è ormai incontrollabile, una belva affamata e vendicativa. Un capriccio di gioventù dell'Allfather si è dimostrato un ennesimo, vergognoso errore. Quando era solo una fanciulla dalla bellezza perfetta e intatta, ha pagato il prezzo della tregua con Vanaheim con la sua stessa pelle; il suo reame l'ha usata senza remore come merce di scambio e Odino l'ha sedotta con l'illusione di un trono che non aveva alcuna reale intenzione di condividere col lei. Ha scaldato il suo letto per qualche notte, per poi votarla ad un proposito deviato e abietto, a cui non avrebbe mai sottoposto nemmeno la più umile delle serve di nascita asgardiana. Uno stratagemma scaltro e degno di un tiranno, che ha permesso di vincere una guerra e di ottenere un vantaggio che ancora oggi possono sfruttare; ma Freya, la più bella dei Nove Regni, non ha mai perdonato, e giorno dopo giorno ha soffocato onore e buon senso nel rancore e nell'indecenza più immorale. Eppure è scaltra, non lascia prove, e sa approfittare perfettamente della tolleranza di Odino, tanto che nessuno osa palesare un tradimento che è da secoli sotto gli occhi di tutti. Da quando Asgard si è corrotta a tal punto?

Un cavallo nitrisce, interrompendo il filo amaro dei pensieri del dio, e quando lo scalpiccio di zoccoli si fa più vicino Tyr smette di affilare la sua lama e alza lo sguardo, abbozzando l'ombra di un sorriso.

Da un destriero immacolato scende con naturalezza un uomo – un dio –; i capelli color della neve e lo sguardo limpido. Accarezza un istante il manto bianco dello stallone, poi si volta nella sua direzione e sorride, il passo sicuro e cadenzato.

Tyr si alza e ripone con un gesto secco la spada nel fodero, e allunga un braccio in direzione del nuovo arrivato.

“Balder.”

“Fratello...” risponde il più amato tra gli Æsir, ricambiando prontamente la stretta, “...immaginavo di trovarti già qui.”

“Sono passati secoli dall'ultimo incontro della nostro Triplice Patto, ma io ne rispetto sempre gli antichi fondamenti. Prima, deve giungere la Guerra. Poi, la Pace. Infine...”

“...Infine, viene la Giustizia.”

Tyr e Balder si voltano di scatto, per poi portarsi simultaneamente una mano al petto, in un gesto di rispetto e obbedienza. Odino è arrivato senza fare rumore, sebbene a condurlo sia stato Sleipnir, il suo colossale destriero a otto zampe. Indossa la sua armatura più scura, solo lievemente bordata d'oro, e ha nello sguardo una nube ancora più tetra. Si avvicina con decisione, e poggia una mano su ciascuna spalla dei due Æsir, i suoi consiglieri più fidati, fratelli e figli allo stesso tempo. Con loro, dai tempi del Grande Inizio, ha risolto le più grandi controversie di Asgard, ne ha giudicato i nemici con saggezza e, come adesso, ne ha protetto i segreti.

“Fratelli, mai avrei auspicato un giorno come questo. Mai.”

Li guarda negli occhi con tale intensità da far loro dimenticare che abbiano una sola iride in cui specchiarsi, poi comincia a salire i gradini con grave lentezza.

“Eppure, è giunto. Non possiamo rimandare oltre, per il bene di Asgard. Seguitemi.”

Il portone si apre con un fragore di metallo, ma all'interno del salone buio non trovano nessuno ad accoglierli. È chiaro che non sono i benvenuti.

A differenza della notte di Asgard, le stanze di Sessrùmnir non tacciono mai, e tra le pareti e gli arazzi si rincorrono risate smorzate, sospiri, canti e ritmici richiami. Uniche testimoni di tanta lascivia: decine di candele tremolanti.

Odino è una maschera di pietra, ed avanza imperioso, mentre Balder lancia occhiate di puro sconcerto alla volta di Tyr che, sempre più disgustato, scuote la testa ad ogni passo. Asgard non gli è mai sembrata così bassa come lo è ora.
Si fermano davanti alla scalinata di marmo grigio che conduce alle fondamenta di quel palazzo immondo, all'enorme segreto sepolto sotto strati di terra, roccia, oscurità.

Un'ancella con una maschera dorata sugli occhi si avvicina reggendo una torcia di legno secco, e la lamella di fuoco scoppietta e danza, disegnando riflessi dorati sulle pareti.

“Benvenuti, Signori di Asgard. Freya vi permette di scendere alla cella sotterranea. Io vi farò da guida.”

“Grazie...”, Balder riesce appena ad accennare un sorriso, prima che la rabbia di Tyr diventi voce di tuono.

“Non abbiamo certo bisogno del permesso della tua indegna padrona. Fatti da parte, conosciamo la strada.”

Dietro la maschera, l'ancella sembra sostenere lo sguardo del dio senza scomporsi, nemmeno quando lui la allontana con una spinta decisa; poi rivolge lo sguardo verso Odino, chinando leggermente il capo.

“La cortesia di Freya merita un compenso, non credete, Allfather?”

“Taci!”, tuona Tyr, la mano già corsa all'elsa della spada, “O preferisci che ti tagli la lingua io stesso?”

Balder gli frena prontamente il braccio, sussurrando:

“Non oggi, fratello. Non siamo qui per spargere sangue.”

“Siamo qui per farci insultare, allora? Da troppo tempo la mia lama non saggia la carne, e da ancor più tempo ci crogioliamo nella molle tolleranza, nella sterile diplomazia. Dov'è finita la nostra forza?”

“Basta.”

L'autorità risiede nelle poche parole di chi non può essere smentito, e il Padre degli dei le ha sempre sapute scegliere, né mai si è mai trattenuto dal pronunciarle, anche quando erano lame e umiliazioni.

“Ci sarei riuscito, Padre!
…per te! Per tutti noi...”

“No, Loki.”

“La nostra forza, oggi, è la saggezza dell'esperienza. I nemici che affrontiamo sono il lascito dei nostri errori passati, e non possiamo permetterci di commetterli di nuovo. Non ne abbiamo il tempo.”

Odino serra le labbra, e finalmente Tyr e Balder riescono a scorgere l'immane preoccupazione che gli attraversa lo sguardo. Senza proferire altra parola lo seguono con rapida concentrazione, seguiti a breve distanza e in silenzio dall'ancella, scendendo sempre più in basso, circondati dal buio freddo che sale dalle viscere di Asgard.
Poi, d'improvviso, quando l'ultimo gradino è lasciato alle spalle, un cono di luce bianca filtra dall'alto, generato da un intricato meccanismo di specchi e fessure nella roccia, e indica la via attraverso le ante spalancate di un colossale portone di metallo intarsiato.

Balder si volta indietro mentre lo attraversano, e socchiude gli occhi. Nessuno li segue più, l'ancella pare sparita.

Il salone scavato nella pietra che li accoglie è riscaldato da un braciere che arde senza mai spegnersi, il suo crepitare rimbomba ritmico tra le pareti da ere incalcolabili. Dall'alto, nascosta dalla roccia, filtra altra luce, bianchissima, e investe una cella quadrata senza sbarre né porte, ma sigillata da quattro lastre di cristallo trasparente, lamiere inviolabili forgiate in un lontanissimo passato. All'interno di quella gabbia stupefacente, dove tutto è bianco - soffitto, pavimento, pareti – i contorni immobili del prigioniero paiono una ferita nera e profonda. Ritto in piedi, volge loro il fianco e non si sposta, nemmeno quando i padroni del Cielo si portano di fronte alla cella, vicinissimi eppure così fastidiosamente al di fuori della sua portata.

“È un onore rivederti così presto, Allfather...”

La pelle sembra calce sbiancata e si tende appena mentre parla: una voce cupa, arida, la voce di un giovane invecchiato dal tedio e dalla prigionia, nato già in catene ma mai rassegnato all'esilio.

“...non sei solo, questa volta?”

Balder e Tyr si scambiano una veloce occhiata che tradisce una domanda e un dubbio, e Odino, un passo avanti a loro, si affretta a colmarne l'incertezza.

“Allora, l'urgenza era impellente. Thor doveva giungere subito su Midgard, e tu sai raccogliere l'energia oscura necessaria per aprire un varco tra i nostri mondi. Ma oggi ci servi per altri scopi, Malekith.”

“Oh, io so perché siete qui”, ghigna l'elfo, voltando la testa e rivelando l'abominio di un volto candido solo per metà, l'altra è guastata da una pelle che pare corteccia bruna e scaglie d'ossidiana, come quella di tutti gli abitanti di Svartalfheim. “Sapevo che sareste venuti. L'ho capito quando quelle crepe sono apparse, almeno un anno fa...” e mentre lo dice indica una, cinque, dieci fenditure nella roccia, partite come sottili fessure ma ormai divenute spaccature profonde e irregolari, sempre più ampie, “...sono ovunque, non è vero? In ogni sotterraneo della vostra amata Asgard. Nascoste al popolo... ancora per quanto? Cosa dirai quando le torri cominceranno a crollare, le case a franare, l'oro a marcire?”

Balder sussulta, abbandonando le braccia lungo i fianchi, e volge lo sguardo su Odino.

“Cosa? È l'intera città ad essere un pericolo?”

“L'intero regno” ribatte Malekith, inespressivo, “come hai potuto non accorgertene, principe asgardiano? Oppure la tua vista era troppo offuscata da ozio e idromele?”

Balder stringe i pugni e deglutisce, stringendo le palpebre.

“Quando... quando è iniziato?”

“Il Bifröst è linfa e sostegno del nostro mondo” spiega il Padre degli dei, “quando Thor l'ha troncato per salvare Jotunheim ha spezzato un equilibrio vitale che va ripristinato al più presto, prima che le nostre stesse fondamenta ci inghiottano.”

Tyr si lascia sfuggire un verso di disapprovazione, e incrocia le braccia possenti.

“Immaginavo che le azioni impulsive del nostro principe si sarebbero rivelate scellerate – ancora una volta – ma non capisco perché ci serva l'aiuto di questo aborto.”

Malekith ghigna appena, accarezzandosi il mento, proprio dove si incontrano due colori, due pelli, due razze, in un gesto misurato e provocatorio divenuto ormai istintivo.

“Il ponte dell'arcobaleno è l'arteria di Asgard. Quando Mjolnir l'ha reciso ne ha interrotto il percorso, ma non il flusso. Voi non siete in grado di vederla, l'energia, ma io la avverto anche ora, mentre si lancia nel vuoto, prosciugando il vostro mondo, goccia dopo goccia. Occorre ripristinare il Bifröst e ricostruirne il dispositivo di controllo, altrimenti la cancrena vi dilanierà.” E sembra quasi che goda al solo pensiero, l'elfo oscuro, orrore nato per errore, figlio maledetto di Freya, una pedina "sacrificabile" immolata per inganno al re di Svartalfheim e riscattata troppo tardi.

“E tu puoi farlo?”, domanda Tyr, scettico.

“Dimentichi di chi sono figlio.”

“Affatto, lo ricordo bene. Ricordo quando ho scagliato quel disertore di tuo padre nel Limbo, prima del Grande Inizio, quando abbiamo sottomesso il tradimento di Svartalfheim a fil di spada.”

“Tradimento? Il debito di Asgard è incolmabile. Chi vi ha dato il vostro potere? Chi ha forgiato le vostre armi? Ricordi solo ciò che appaga il tuo riflesso, signore della Guerra. Svartalfheim ha modellato Gungnir, Mjolnir, come pure il congegno che regola il Bifröst. E io, in cambio della libertà, posso costruirlo di nuovo.”

Odino frena con un cenno Tyr e avanza di un altro passo verso la cella.

“Se desideri tornare nel buio del tuo mondo morente, ti accontenterò. Prima, però, dimmi come riparare il ponte.”

Malekith inclina appena la testa, e la treccia di capelli bianchi gli dondola lievemente sulla spalla.

“Non ci arrivi, Padre degli dei? Ciò che crea, distrugge.”

“Immaginavo. Il potere del martello non ha eguali: implacabile arma per demolire o impareggiabile strumento per edificare, a seconda dell'intenzione di chi lo impugna. Dovrai dunque solo ricostruire il dispositivo di controllo. Dimmi cosa ti occorre.”

“Solo tre cose: una fucina...”

“Verrà allestita qui, e tu non potrai uscire dalla cella.”

“... Lo sospettavo, grande Padre. Dunque necessito dei migliori fabbri dei Nove Regni, i figli di Ivaldi.”

“La loro razza è estinta, così come lo sarà presto la tua” ringhia a labbra strette Tyr.

L'elfo gli riserva una rapida occhiata gelida, prima di replicare:

“Il tempo ha indebolito la tua memoria, guerriero. Restano Dvalin ed Eitri, a Niflheim. Non li hai condotti all'esilio tu stesso, molti eoni fa?”

Tyr aggrotta la fronte, stringendo le braccia al petto.

“Esilio che ormai li avrà resi polvere, in una terra di nebbia e morte.”

“Non esiste nessuno di più longevo dei nani, soprattutto se della loro stirpe. Non sono carne e sangue, come voi, ma roccia e radici. Ma, se non mi credi, puoi verificare tu stesso.”

Malekith allunga una mano verso la parete della sua cella e appoggia appena un dito su quella superficie traslucida, descrivendo piccolo cerchio. Dall'altra parte della lastra di cristallo si forma una piccola sfera nera, che rimane sospesa qualche istante a mezz'aria, poi rotola a terra rimbalzando più volte, fino a fermarsi ai piedi del dio della Guerra, che si china ad afferrarla, soppesandola tra le dita. E molto più pesante di quel che la sua massa suggerisce e stranamente tiepida, la superficie nero-bluastra in continuo movimento.

“Ho condensato sufficiente energia oscura per un viaggio, ingoia la perla e ricorda il luogo dove hai già condotto i due mastri nani. Lo raggiungerai in un battito di ciglia.”

Tyr stira ironicamente un labbro, fissando l'elfo in tralice.

“Mi credi tanto inetto? È un viaggio di sola andata.”

Malekith lo fissa senza timore, passandosi una mano sul mento. Poi allunga nuovamente la mano e ripete il gesto, formando una nuova sfera.

Tyr la raccoglie e la incastra sotto la corazza, e si porta l'altra alle labbra. Rivolge uno sguardo contrariato verso Odino, prima di inghiottirla.

“Dunque è così che Thor ha potuto manifestarsi su Midgard. Davvero onorevole.”

“Ho fatto ciò che andava fatto per proteggere i Nove Regni, e tu lo sai.”

“Certo...” mormora Tyr, voltandosi. Ispira profondamente e chiude gli occhi. Asgard è cambiata, e non ha intenzione di tradirla, ma di certo non riuscirà mai a mutare con lei. Molto presto avrà di nuovo bisogno della sua spada – ne è certo -  e della sua onesta devozione. Fino ad allora, seguirà il consiglio di Odino e la sua vista acuta, anche se intrisa di un tipo di saggezza tortuosa e a lui incomprensibile. Ingoia la perla e la sente scendere piano lungo l'esofago; in un istante il portale si apre davanti – e dentro -  di lui, e sparisce in lampo dorato.

Balder, rimasto muto e pensieroso da vari minuti, sembra riscuotersi. Cerca per un istante la sagoma del dio guerriero dove ora non c'è più nulla, poi muove in avanti, affiancando il Padre degli dei di fronte alla cella.

“Cos'altro ti serve?”

Malekith segue solo con gli occhi la sua voce, rimanendo immobile.

“Il giusto materiale. Se volete che il dispositivo funzioni correttamente, deve saper imbrigliare ed indirizzare l'energia del Bifröst, altrimenti collasserebbe su se stesso. Esiste un solo metallo in grado di sostenere un tale sforzo: l'uru.”

“La miniere di uru sono estinte da secoli.”

“Certo, ma del metallo che ne venne estratto ne rimane più che a sufficienza, non è vero? L'avete usato per ricoprire, anzi inondare d'oro le vostre mura, i palazzi, le case e perfino utensili e armature.”

Balder si volta di scatto verso Odino, allargando le braccia.

“Dovremmo spogliare Asgard e privarla delle sue vesti e del suo potere? È una pazzia!”

Il volto dell'elfo nero sembra impassibile, ma nasconde un ghigno famelico.

“Pensaci bene, Allfather. Cosa sei disposto a sacrificare, per ciò in cui credi?”

Il Padre degli dei sostiene lo sguardo con l'autorità del comando; se è in dubbio o in assillo, non lo dà a vedere. Annuisce gravemente, poi poggia con fare paterno un braccio sulla spalla di Balder, infondendogli un po' di coraggio.

“Il popolo capirà, non c'è altro modo”. Poi si volta verso Malekith e imperioso prosegue: “Comincerai l'opera al ritorno di Tyr. Questa è l'unica occasione che avrai per ottenere clemenza: non sprecarla.”




Foresta dimenticata, nei pressi delle rovine di Fensalir



Mancano ormai pochi filari di alberi all'ampia radura che ospita le rovine del palazzo, quando Hòfvarpnir si blocca di colpo, inchiodando gli zoccoli al terreno. Sigyn prova a restare in sella, stringendo con forza le redini, ma il cavallo indietreggia terrorizzato, rizzandosi sulle zampe posteriori e sbalzandola a terra.

La botta è meno forte del previsto, attutita da uno strato di muschio umido, ma quando la ragazza prova a rialzarsi facendo presa su una roccia, la pietra affilata le taglia la pelle, aprendo uno squarcio profondo nel palmo. Geme sommessamente stringendo la mano al petto e si volta, restando a terra. Il destriero bruno è appena dietro di lei e continua a pestare la terra, nitrendo e sbuffando. Prova a calmarlo allungando le dita tremanti verso il muso dell'animale, ma improvvisamente si fa un gran silenzio, innaturale. Rimane immobile e respira piano, mentre da terra si alza una nebbia sottile che odora di pioggia e di marciume. E lo sente.
Un ringhio alle sue spalle, basso, omicida, vibrante. Lo sente insinuarsi sotto la pelle come un brivido, e la ferita pulsa e brucia. La creatura alle sue spalle libera un latrato basso e raccapricciante, quasi di scherno, e sbuffa forte. Avverte il suo fiato sul collo, tra i capelli, e comprende cosa deve provare una falena imprigionata tra i fili ingannevoli di una ragnatela l'istante prima del morso fatale.
Si volta lentamente, col respiro mozzato, e la fissa negli occhi, la creatura.

Se mi vuoi, non ti darò la soddisfazione della caccia.

È un lupo.
 
Enorme e nerissimo, con gli occhi rossi e rotondi come bacche selvatiche. Spalanca le fauci, e latra famelico, schiumando una striscia di bava bianca. Non le lascia nemmeno il tempo di gridare.
Quando le salta addosso e tenta di azzannarla alla gola, riesce a ritrarsi appena in tempo, la mandibola del lupo schiocca e si serra a vuoto vicinissima al suo orecchio. Ha schivato il primo affondo, ma non avrà la stessa fortuna una seconda volta. La belva ritrae il capo un istante, prendendo la rincorsa per l'assalto letale, e Sigyn segue l'istinto in un'estrema, futile, mossa disperata. Serra gli occhi e spinge in avanti la mano ferita, tentando di allontanare da sé la bestia per almeno un altro secondo, per un'ultima boccata d'aria, un ultimo pensiero.

Non voglio morire. Non voglio fallire.

Le dita insanguinate impattano sul muso del lupo, sfregando le narici umide e spalancate. La belva indietreggia di colpo, soffiando e scuotendo la testa. Sigyn riesce a rialzarsi appena e la vede dimenarsi come impazzita, per poi lanciare un ululato acuto e straziante, tristissimo. Un piccolo stormo di uccelli abbandona spaventato il rifugio sicuro di ramo con un frullo d'ali e il lupo si volta di colpo, fissandola per un lunghissimo, interminabile secondo.

Poi, così com'è apparso, il lupo svanisce nella nebbia.

L'ancella rimane a terra, ansante, in attesa di un attacco a sorpresa che però non arriva. Lentamente, passano alcuni minuti, e tiene il tempo ascoltando i battiti agitati del suo cuore che le rimbombano forte nelle orecchie. Poi, decide che deve rischiare. Ha un compito vitale, da lei dipende una vita, o forse più. Si alza in piedi con cautela, inghiottendo un grumo acido di saliva e, ignorando la nausea che le avvolge le pareti della gola, risale a cavallo. Hòfvarpnir sembra di nuovo tranquillo, e la accoglie sul dorso senza vacillare e, obbediente, riprende il galoppo.

Quando giungono di fronte alle rovine del palazzo, Sigyn scende dalla sella e strappa una striscia di tessuto dalla sua semplice veste per fasciarsi la mano che continua a stillare sangue. Individua subito il sentiero seminascosto dalle erbacce, e insegue uno sciame di lucciole. La terra sotto i suoi piedi risuona d'acqua e di polvere, a seconda di dove si posa il suo passo, e le fronde degli alberi sembrano sussurrare indicazioni senza tempo. Lo sente, Sigyn, il canto che intona Fensalir, una melodia spezzata e malinconica che le entra nella testa, e le fa venire improvvisamente voglia di piangere.

'Nostalgia.
Fensalir intona un lamento per il ritorno di una sua figlia perduta.'

Si porta una mano alla bocca e trattiene un singhiozzo, imponendosi di non fermarsi.

Dimentica.
Il passato dei tuoi avi.
Il motivo per cui hai sempre desiderato e temuto venire qui.

Ci sono cose che non saranno mai alla sua portata, lo sa bene, e non ha senso sperare, illudersi, provare a capire, ricordare, rivendicare. È solo un'umile figlia di Asgard che cammina leggera all'ombra della sua benevolenza, e tale dovrebbe restare. E, soprattutto, ha un compito da svolgere, una promessa da mantenere.

Arriva di fronte ad una porta avvolta d'edera, lasciata spalancata dalla fuga di Fulla, probabilmente. All'interno, un ambiente che odora di muffa e di tempo lontano, illuminato da piccole candele. Imbocca il breve corridoio e giunge in un salone più grande, dove l'aria profuma invece di carta, legno inchiostro. Ma dove aleggia anche qualcos'altro, qualcosa di malato e cupo, come una piaga purulenta.

Sigyn vede ripiani ricolmi di antichi volumi, affreschi sbiaditi dal tempo, un'altra porta sfondata dall'umidità che sembra dare sull'esterno e, finalmente, il motivo per cui si trova lì. Sul pavimento giace il nastro dorato di Fulla, perso in istante di panico di cui non comprende la ragione. Il lupo è fuori, la stanza pare un rifugio sicuro.

Sigyn si china rapida e raccoglie il semplice gioiello, e il metallo è freddo e liscio tra le dita. È allora che lo vede. Un uomo – un ragazzo? - abbandonato su di un letto sfatto, scomposto. Il petto dello sconosciuto si alza e si abbassa frenetico, mosso dall'aritmia di un respiro sincopato, e dal braccio che sporge verso il basso, quasi a sfiorare il terreno, gocciola senza sosta un sottile fiotto di sangue scuro.
Sigyn smette di respirare e si rende conto di star stringendo con troppa forza il nastro d'oro quando una fitta di dolore cieco le attraversa la vista. L'uomo è sveglio.

Volta il viso verso di lei, ma è seminascosto dai capelli neri, che gli ricadono sulla pelle sudata in ciocche sudicie e scomposte.

“Chi sei?”

Ha una voce profonda, forse arrochita dalla solitudine, tagliente, e quando si alza nota che anche i suoi lineamenti sono affilati e scarni. Si regge in piedi a fatica, ma ha nello sguardo tanto odio da farle tremare il cuore.

“Non rispondi? Chi ti manda? La regina? Il mio amato Padre? Non importa, non credere di poter fuggire e vivere. Questa volta no.”

Sigyn non lo riconosce, non comprende le sue parole, ma avverte chiaramente la paura strisciarle sulla spina dorsale come un serpente di seta. Dalla finestra semiaperta entrano le prime luci di un'alba che incombe, e non ha più tempo.

Si volta di colpo e prova uno scatto, ma la sua fuga si interrompe dopo pochi passi, quando si ritrova di fronte l'uomo che fino a un attimo prima stava dall'altra parte della stanza.

Com'è possibile?

Lo fissa sgranando gli occhi, impietrita da quella smorfia crudele che gli attraversa il volto. Lui alza un braccio verso di lei, tentando inutilmente di nascondere la fatica che quel semplice gesto evidentemente gli provoca, e stringe le dita, lentamente.
Sembra afferrare solo aria, ma Sigyn si sente improvvisamente soffocare, il collo stretto in una morsa invisibile.
Lui ride.
È una risata sghemba, folle, agghiacciante.

Poi, di colpo, volta gli occhi all'indietro e mostra il bianco dei bulbi, emettendo un lamento soffocato. Sigyn si sente di nuovo libera, e prende un respiro profondo e disperato. Poi, tutto accade in un attimo. L'uomo le frana addosso, ma lei riesce a mantenersi in piedi. Avverte il tanfo malsano delle sue ferite aperte, il calore della febbre che gli divora le membra, l'odore dolciastro del sangue e infine, il tonfo secco del suo corpo che crolla a terra. Non aspetta altro, non controlla che si muova ancora, semplicemente corre con quanto fiato le resta in corpo.

Un passo dopo l'altro, senza pensare ad altro, solo alla luce che sta per invadere ogni cosa e alla vita di Fulla appesa ad un filo. Non si rende nemmeno conto che è già salita in groppo a a Hòfvarpnir, che stanno galoppando insieme contro il tempo, che manca poco, che può farcela, che è ormai giunta al capanno dove l'attende l'ancella di Frigga.

Scende dal cavallo di corsa, e l'alba è davvero giunta quando si china al fianco di Fulla, che sembra non respirare più, e le infila tra i capelli ormai bianchi la fascia dorata. Pochi, veloci battiti di ciglia, e niente sembra cambiare. Lo sconforto sta per vincerla quando l'ancella di Frigga improvvisamente prende un respiro, con forza, come se fosse il primo di una nuova vita. Quando rialza il viso, le rughe si fanno via via più sottili, la pelle si distende e gli occhi si fanno luminosi e umidi.

“Ci sei riuscita...”

Persino la sua voce è ormai tornata quella fresca e giovane che appartiene al suo aspetto, e Sigyn d'istinto le stringe le braccia al collo, sollevata, nascondendo una lacrima tra i suoi capelli di rame.

“Hai salvato la mia vita, e non solo...” mormora Fulla, rialzandosi, finalmente sicura, “...meriti un encomio.”

“Affatto, mia signora. Sono una serva di Asgard, un premio non mi si addice affatto. Vi prego solo di riprendere il vostro compito e di salvaguardare i piani della nostra Regina, è l'unico compenso che conta.”

L'ancella di Fulla inclina il viso, guardandola con ammirato stupore.

“Chiunque altro avrebbe chiesto una ricompensa, ma tu hai dimostrato la vera lealtà. Ti avvenga come desideri, non farò parola del tuo aiuto.”

Fa per andarsene, ma si blocca sull'uscio, colta da un pensiero, e si volta.

“A meno che... Hai visto qualcuno? È accaduto qualcosa di strano?”

E ora Sigyn dovrebbe dire che sì, nella foresta vaga un lupo dagli occhi rossi, che ha provato a  sbranarla, per poi fuggire senza motivo apparente. Dovrebbe dire che nelle stanze di Fensalir vive un mostro dall'aspetto d'uomo, che ha ferite profonde, ed è ricolmo di un odio e di una rabbia che sfugge alla sua comprensione. E che anche lui l'ha assalita. Ma, se lo facesse, dovrebbe anche spiegare il perché sia ancora viva e questo, nemmeno lei lo comprende. E, probabilmente, non potrebbe mai più tornare a vedere i selvaggi giardini di Fensalir, le sue rocce chiare, né udirne il richiamo.
Un istinto antico, una voce interna e compagna d'ogni donna che la sappia ascoltare le consiglia di tacere, perché l'ora che precede l'alba è l'ora dei segreti, e questo è il suo, e lo deve difendere, se vuole tener viva una piccola, flebile speranza egoista.

Ingoia il dubbio in un sorriso leggero, ma tirato, e abbassa gli occhi chiari.

“Ho solo recuperato il vostro nastro, mia Signora.”

Ed è la verità, anche se non tutta, e per Fulla è più che sufficiente. Sigyn la sente correte via, sollevata, leggera, verso i suoi doveri di corte. Dovrebbe alzarsi anche lei e riprendere il suo lavoro, ma indugia ancora. La testa è pesante, i pensieri come macigni la inchiodano a terra, e nella mente si fa strada la convinzione che qualcosa, nel suo Fato, sia cambiato per sempre.

 







   
 
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