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Autore: IlariaJH    17/07/2013    8 recensioni
Appena tirata su, la colazione perde tutta la sua importanza. Non sento più l’odore di brioches e caffè. Non presto nemmeno attenzione al mio stomaco che continua a brontolare dalla fame. Sono seduta davanti all’attore per cui ho una cotta da quando avevo sedici anni. Sono seduta davanti a Josh Hutcherson.
Genere: Drammatico, Erotico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: PWP
Capitoli:
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Somewhere only we know.

This could be the end of everything.
So why don’t we go,
Somewhere only we know?
Keane – Somewhere only we know.

 
 

Tutto è confuso.
Io e Josh che litighiamo.
L’ultimo giorno di riprese.
Il bacio di Alex.
L’aereo che ritarda.
La decisione di non tornare a casa di Josh.
L’autobus che va a sbattere contro il guard-rail.
Una luce bianca. 
E poi più nulla.
Vuoto.
 
Bip. Bip. Bip. Bip. Bip.
Il suono mi da alla testa. Come se già la confusione dei miei pensieri non bastasse.
Serro le palpebre e stringo i pugni. Rimango così per un po’, sperando che il bip smetta di infastidirmi, ma non lo fa. Come se avesse percepito i miei pensieri, invece, aumenta la sua intensità.
Sbuffo e faccio per muovermi ma mi blocco sentendo un fruscio al mio fianco.
«Ila..?»
Una voce assonnata, preoccupata, un po’ roca. Un voce piena di tristezza e di speranza. Una voce che, nonostante tutto, riconoscerei tra mille altre.
Sento un groppo in gola. Perché mio padre è qui?
Dei passi si avvicinano di corsa.
«Si è mossa, signore?» una voce femminile che non riconosco.
«No. Credo… solo l’ennesimo sogno. Mi dispiace di averla disturbata.»
«Ma si figuri! E’ il mio lavoro.»
Sogno? Quale sogno? E a chi appartiene la voce femminile? Dove sono?
Un’altra voce attira la mia attenzione, mentre cerco di rimanere il più immobile possibile.
«Non si sveglierà, non è vero?»
Anche questa è triste ma, a differenza di quella di mio padre, sembra rassegnata. Sentendola, posso quasi immaginare la mascella contratta, i capelli scompigliati e gli occhi che mi fissano sofferenti, come quando si erano posati su di me quella sera… e il mio cuore perde un battito. Josh è qui.
Nessuno risponde alla sua domanda, e mi chiedo che cosa intenda con quel “non si sveglierà”.
«Lei non si sveglierà… e…» un singhiozzo interrompe la frase.
Un movimento leggero un po’ lontano e poi dei passi che si allontanano, seguiti da un respiro sofferente.
Forse dovrei aprire gli occhi. Non capisco dove sono, ma non posso lasciare che la sofferenza continui ad aleggiare tutto attorno a me. Il problema è che…
«Signore, ti prego.» la voce di mio padre è un sussurro flebile. «Ti prego. E’ giovane e… è stata punita abbastanza. Risparmiala, ti prego.»
Mi accorgo con sorpresa che sta pregando. Lui, fermamente convinto che Dio fosse solo una credenza stupida dell’uomo, sta pregando. Posso ancora sentire i suoi brontolii ogni volta che si parlava della chiesa e dell’onnipotente: “Vuoi sapere la verità, Ilaria? Tutto questo è solo una grande stupidaggine. L’uomo ha bisogno di credere che esista qualcuno pronto ad ascoltarci nel momento del bisogno. Pronto ad aiutarci.” Apriva le braccia, alzando gli occhi al cielo. “Come se un vecchio con la barba bianca, a dire il vero anche un po’ lunatico, potesse ascoltare e aiutare tutto il mondo nel momento del bisogno! Se devi credere in qualcuno, credi solo in te stessa. Nessun Dio ti aiuterà mai, questo è poco ma sicuro.” 
Ma la sua preghiera non continua per molto. Dopo un po’, anche lui si lascia andare ai singhiozzi, e allora decido di muovermi e aprire finalmente gli occhi.
La prima cosa che vedo è il soffitto fin troppo familiare. Lo riconoscerò fino alla fine dei miei giorni. Ho passato troppo tempo a fissarlo, mentre il mio corpo veniva imbottito di medicine e sedativi, per dimenticarlo. In qualunque parte del mondo tu vada, sarà sempre uguale. Il classico soffitto da ospedale.
In effetti, ci sarei dovuta arrivare. Sicuramente, dopo l’incidente avrò perso coscienza e così mi hanno portata qui. Ricordo che l’autista viaggiava molto velocemente, quando si è andato a schiantare.
Le luci mi danno fastidio agli occhi e, nel gesto più naturale del mondo, mi copro il viso con una mano. Nello stesso istante, smetto di sentire i singhiozzi.
Guardo mio padre e vedo i suoi occhi spalancarsi pieni di sorpresa, ancora arrossati dal pianto, mentre sulle sue labbra si increspa un sorriso pieno di speranza. Mi immagino che si metterà ad urlare dalla felicità o, come minimo, mi stringerà in uno dei suoi forti abbracci, invece fa una cosa alquanto strana. Si tira un pizzicotto.
«Questo è un sogno, non è vero?» il suo tono di voce è come una pugnalata nello stomaco. «Soltanto un altro bellissimo sogno.»
Scuote la testa. Dai suoi occhi scorre via, assieme alle lacrime che riprendono a scendere, tutta quella sorpresa che gli aveva provocato il mio risveglio. Il suo sorriso si spegne e la tristezza torna a far mostra di se in tutte le sue rughe.
Perché crede che tutto questo sia un sogno?
«Papà…»
Ma lui abbassa la testa, appoggiandola sul materasso dove sono distesa.
Il bip in sottofondo aumenta la sua velocità e solo allora capisco che scandisce i battiti del mio cuore. Ma non faccio in tempo a preoccuparmene che una donna entra nella stanza correndo. Mi guarda e sul suo viso si accende un sorriso sinceramente felice. Poi corre nuovamente fuori dalla stanza, lasciandomi qui con mio padre, che non crede possibile che questa sia la realtà.
Pochi secondi dopo ritorna correndo, seguita da un signore brizzolato che indossa un camice bianco, a cui è appeso un cartellino con scritto “Dr. Shurt”.
«E fu così che la nostra Bella Addormentata finalmente si svegliò.» dice con una voce tranquilla.  
 
«Dottoressa, vuole per cortesia accompagnare il signore fuori a prendere una sana boccata d’aria?» continua il dottore, sorridendomi gentilmente. «Ha passato abbastanza tempo in questa stanza.»
La donna si avvicina a mio padre e, con voce gentile, lo convince ad alzarsi e a uscire dalla camera ma, arrivata sulla soglia, il dottore la ferma.
«Si assicuri che anche il signor Hutcherson vi raggiunga.»
Lei annuisce e si allontana tenendo sotto braccio mio padre. Li guardo finché girano in un corridoio dell’ospedale, che li sottrae alla mia vista. Così torno a guardare il dottor Shurt.
Mi piacerebbe chiedergli cosa sta succedendo, ma non lo faccio. Semplicemente, aspetto che sia lui a parlare.
Ma non lo fa. Si avvicina, mi punta una luce negli occhi e mi fa seguire con lo sguardo il suo dito. Poi mi fa muovere gambe e braccia. Decide che sono ancora troppo debole per camminare, ma non oso domandargli nulla. Quando finiamo, finalmente, decide di parlarmi.
«Ti ricordi qualcosa?»
Capisco che si riferisce all’incidente. «Mi ricordo l’autobus che va a schiantarsi contro il guard-rail.»
Lui annuisce, grattandosi il mento.
«Sei arrivata qua tre mesi fa. Il braccio sinistro rotto, la caviglia destra fratturata, tre costole rotte, schegge di vetro conficcate nella testa e avevi perso talmente tanto sangue che pensavamo che la tua ripresa fosse solo momentanea. Sul luogo dell’incidente, i medici ti avevano data per morta. Quando sei arrivata qui, sei entrata in coma e ti sei svegliata solo adesso.»
Smette di parlare e incrocia le braccia al petto, in attesa di qualcosa. Ho bisogno di un momento per comprendere tutte le sue parole. Sono stata in coma per tre mesi.
Tre mesi.
Ora capisco perché mio padre parlava di sogni. Ora capisco perché Josh diceva che non mi sarei svegliata. Ora capisco perché mi sembra che l’incidente fosse avvenuto soltanto ieri.
«Tre mesi…» biascico, senza accorgermene.
Lui annuisce, ma non lo vedo. Non davvero, perlomeno. È come se mi fosse crollato il mondo addosso.
«Capisco che possa essere uno shock per te, ma è inutile girare attorno alle cose.» mentre lui parla, io annuisco meccanicamente. «Almeno, questa è la mia filosofia di vita.»
Fisso gli occhi in quelli del dottore e mi accorgo che mi sento come se il mondo fosse andato avanti senza aspettarmi. Come se adesso dovessi recuperare il tempo perduto. Di nuovo.
Ho toccato la morte. Di nuovo.
Ho toccato la morte e sono tornata alla vita. Di nuovo.
Ho fatto soffrire le persone che mi stavano vicine per troppo tempo. Di nuovo.
«Quindi… quali sono le mie condizioni, adesso?»
Lui mi scruta il viso per qualche secondo.
«Le tue condizioni attuali sono ottime. Potrebbero esserci dei problemi alle articolazioni ma, essendo che sei stata in coma relativamente per poco tempo, sarebbero solo temporanei.»
“Temporanei”… beh, è una cosa di cui andare fieri. Conoscevo una persona che, dopo un coma di quattro mesi, aveva perso l’uso di un braccio.
Ma nonostante io mi senta sotto shock, ci sono cose che mi importano di più delle mie condizioni.
«Perché mio padre pensa che tutto questo fosse un sogno?»
La mia voce è fredda. Come se tutto questo non mi toccasse.
«Ha avuto un crollo nervoso, due settimane fa.» il dottor Shurt misura attentamente tutte le parole. «Era da tempo che nei suoi sogni tu ti svegliavi e gli sorridevi. Ma non devi preoccuparti, lo stiamo tenendo sotto controllo.»
«E Josh?»
«Il signor Hutcherson… Beh, per colpa sua abbiamo il parcheggio dell’ospedale pieno di paparazzi.» fa un mezzo sorriso divertito. «Quattro giorni dopo il crollo nervoso di tuo padre, è arrivato qua con un labbro spaccato, e ogni tanto si lascia andare a pianti isterici. Ma lui sta bene.»
“Ma lui sta bene”. Sì, la descrizione perfetta di una persona che si lascia andare a pianti isterici e arriva con un labbro spaccato.
«Posso vederli?»
Lui mi scruta ancora un attimo. «Perché chiudi così lo shock che stai provando?»
Lo guardo, sorpresa. «Io non…»
«La maggior parte delle persone che si risvegliano da un coma vanno nel panico. Tu, invece…»
«Ho vissuto di peggio.» dico semplicemente, accarezzando uno dei tubicini che fanno a infilarsi nelle mie braccia. Il dottore sembra incuriosirsi. «Sono quasi morta di overdose.»
«Oh…»
«Già. Ora posso vederli?»
«Sì, li faccio chiamare.»
 
Li vedo arrivare dal corridoio. Sembrano dei morti che camminano. Mio padre con la faccia stanca e pallida ma, allo stesso tempo, illuminata dalla felicità di vedermi finalmente sveglia, e questa volta realmente, non solo in uno dei suoi sogni. E Josh con il labbro inferiore in fase di guarigione e i capelli in disordine ma, a differenza di come me lo ero immaginato, il suo viso è illuminato dalla felicità esattamente come quello di mio padre.
Irrompono nella stanza quasi di corsa. Mio padre mi abbraccia forte, Josh, invece, si ferma a qualche passo di distanza come a volerci lasciare un po’ di spazio solo per noi.
«Dio, sei sveglia! Sei…» mio padre mi accarezza il viso e sento gli occhi inumidirsi. «Sei davvero qui. Non… non è un sogno.»
La felicità è uno strano contrasto sul suo viso deformato dal dolore di questi mesi.
«Papà…»
Provo a iniziare una frase di senso compiuto, ma non riesco a finire. Sento un groppo in gola ma questa volta non trattengo il dolore. Lascio libere le mie lacrime.
«Tua madre sarà… sarà così felice!» le sue parole sono interrotte da singhiozzi. «Io devo… devo…»
«Non è qui?»
«No, lei… non ce l’avrebbe fatta.»
Mi immagino la disperazione di mia mamma. Quella disperazione che conosco fin troppo bene.
«Vai a chiamarla allora.»
Si allontana di qualche passo, deciso a prendere il telefono, ma poi si ferma. E’ interdetto. Riesco a leggere nei suoi occhi la paura. La paura di poter tornare e scoprire che era tutto l’ennesimo sogno.
Gli sorrido, la mia vista è appannata dalle lacrime. «Sarò ancora qui quando tornerai. Non me ne vado più.»
Lui annuisce, ancora indeciso. Fissa il mio viso ancora per un momento e poi esce dalla stanza con passo insicuro.
«Questi tre mesi sono stati una tortura per lui.»
Josh si avvicina al mio letto e mi prende una mano tra le sue. Avvicina il viso al mio e, per un attimo, credo che voglia baciarmi. Invece, le sue labbra si appoggiano delicatamente sulla mia fronte.
Non so perché, ma il viso di Alex si fa largo a spintoni tra i miei pensieri e faccio fatica a non dargli retta.
«E per te, invece?» gli domando non appena si allontana.
Non mi guarda. Prende una sedia e la posiziona accanto al letto e, prima di sedersi, si passa una mano tra i capelli. E’ nervoso.
«Io… me la sono cavata.» la sua lingua passa sul taglio ancora guarito del tutto.
Non so cosa mi spinge a farlo, il suo viso che porta ancora i segni del dolore o la mia lotta interna per tenere a bada i pensieri, ma gli poso una mano sulla guancia e prendo a sfiorare con il pollice il taglio.
«Che hai combinato?»
Lui prende un respiro profondo.
«Stavamo perdendo tutti le speranze…» i suoi occhi mi fissano. «Pettyfer mi ha chiamato. Mi ha raccontato tutto. Mi ha… sono andato fuori di testa. Gli ho chiesto se potevamo incontrarci e, non appena l’ho visto, gli ho tirato un pugno e… Fortuna che dei passanti ci hanno fermato.»
Abbassa lo sguardo e appoggia la testa sulle mie gambe. I sensi di colpa tornano a dilaniarmi come avevano fatto per tutto il viaggio di ritorno a Los Angeles.
«Mi dispiace.»
Deve essere distrutto. Non posso nemmeno immaginare come deve sentirsi, in questo momento. L’unica cosa a cui riesco a pensare è che, se non fosse stato per l’incidente, io sarei tornata al college e lui avrebbe sofferto molto di meno.
«Però non mi importa.» la sua voce è bassa ma decisa.
Rimango per un attimo sorpresa. «Cosa?»
«Non mi importa.» si alza dalla sedia e si china su di me, appoggiando la sua fronte alla mia.
«Josh, io…»
Mi posa un dito sulle labbra, mettendomi a tacere. Ma io non voglio stare zitta. L’ho tradito e a lui non importa?!
«Ho pensato un sacco in questi mesi.» non si sposta. I suoi occhi immersi nei miei. «Ho pensato a quello che ti ho detto, a quello che hai fatto, a come siamo andati avanti. Mi sono sentito in colpa come non mai. E più pensavo, più mi sentivo in colpa.» con i pollici asciuga le lacrime che iniziano a scendere dal mio viso. «Connor non sapeva più cosa fare. Ho passato ogni secondo qui, in questa stanza. Tornavo a casa solo per cambiarmi e lavarmi. Ti guardavo dormire e speravo che aprissi gli occhi. Poi tuo padre ha avuto il crollo nervoso.» stacca la fronte dalla mia, e torna a sedersi. «I dottori hanno detto che doveva stare tranquillo per qualche giorno lontano dall’ospedale e così mio fratello si è preso cura di lui.» riesco quasi a immaginarmelo Connor mentre, come aveva fatto con me, si prende cura di mio padre. «Poi Pettyfer ha chiamato. E l’unica cosa che riuscivo a pensare mentre mi mettevano a posto il labbro era che non ti avrei mai più lasciata andare. Mai più. Non mi importa se l’hai baciato. So che non provi nulla per lui.»
Le sue parole mi colpiscono come pugnalate in pieno petto, mentre i sensi di colpa mi impediscono di pensare lucidamente.
«Josh, tu sai perché ero su quel pullman…»
«Eri presa dai sensi di colpa, tutto qui.»
«Tu sai che…»
«L’unica cosa che so è che ti amo.» qualcosa sembra illuminarlo improvvisamente. «L’hai detto anche tu, ricordi? Ti servono le bastonate per capire che stai sbagliando.»
Mi sembra assurdo. Tutto quanto. Lui non dovrebbe perdonarmi, lui dovrebbe lasciarmi seduta stante. Non avrebbe nemmeno dovuto passare questi tre mesi seduto al mio capezzale!
«Quel messaggio te l’ho lasciato prima.»
«Prima di cosa?»
«Prima di aver baciato Alex.»
Così come si era improvvisamente illuminato, si spegne.
Mi sento tremendamente in colpa. E’ come se avessi tradito me stessa, in questo modo.
«Provavo davvero qualcosa.» è giusto che lui sappia tutta la verità. «E me ne ero resa conto, per questo ti avevo lasciato quel messaggio. Avevo deciso di non parlare più con lui, ma poi… Quando mi sono resa conto di aver sbagliato tutto, ormai era troppo tardi. Sono salita su quel pullman col preciso intento di non tornare da te. Ti avrei ferito ancora di più e ti amavo, e ancora ti amo, troppo per vederti distrutto da un mio sbaglio.»
Josh rimane in silenzio, schiacciato dal peso di consapevolezze che, sicuramente, fino a poco prima non aveva voluto prendere minimamente in considerazione.
«Mi dispiace, davvero. Ho cercato di trovare un altro modo ma…»
Sembra riprendersi un po’. «C’è sempre un altro modo.»
La sua convinzione, nonostante la verità che ha appena saputo, mi lascia sorpresa, ma i sensi di colpa sono troppi e anche se potremmo farcela a cancellare tutto questo, non sarebbe più la stessa cosa.
«Non questa volta, Josh. Ti ho tradito e poi me ne sono andata e… lo so che sono passati tre mesi, che pensavi sarei morta. Ma adesso sono qui e tu hai bisogno di riconsiderare la situazione senza la paura di non rivedermi riaprire gli occhi.»
Lui abbassa lo sguardo, senza dire niente.
«Lo so che…»
Ma non mi lascia finire.
«Te l’ho detto, non mi importa.» si stringe nelle spalle, tornando a guardarmi negli occhi. «Io so solo che non voglio più passare un solo momento della mia vita senza di te. Ho preso in considerazione qualunque cosa mi venisse in mente. Ti giuro, ci ho pensato davvero tanto e ancora prima di sapere da Pettyfer… ma arrivo sempre alla stessa conclusione.»
Sul suo volto spunta un sorriso. Si alza dalla sedia e si inginocchia davanti al mio letto. Poi tira fuori dalla tasca dei jeans un piccolo cofanetto quadrato. Non ho bisogno di vedere quello che c’è dentro per capire dove vuole arrivare. Il mio cuore perde un battito.
«Mi vuoi sposare?»
 
«Dove va Josh?» mio padre entra in camera tutto sorridente.
Guardandomi, però, capisce che c’è qualcosa che non va. Io stringo i pugni, cercando di non lasciarmi andare di nuovo alle lacrime.
«Ila..?»
Non voglio rispondere. Mi sento un mostro.
«Ila, dove sta andando Josh?» il suo tono prende una sfumatura di preoccupazione.
Vorrei riuscire a trovare una bugia da propinargli, in modo da non dovere raccontare la verità. Ma mio padre ha un sesto senso speciale, quando si tratta di me. Quindi non mi resta molta scelta.
«Mi ha chiesto di sposarlo.»
Lui sbianca. «E tu cosa gli hai risposto?»
Scuoto la testa, impegnata a trattenere le lacrime. «Io l’ho tradito, papà.»
Forse l’avrebbe scosso di meno sapere che mi sarei sposata ma non ha il tempo di dire nulla, perché scoppio a piangere. Un pianto isterico. Uno di quelli che lui conosce fin troppo bene.
Si siede sul bordo del letto e mi abbraccia forte. Non dice niente. Semplicemente, lascia che io consumi tutte le mie lacrime.
Lo so che tutto questo è sbagliato nei confronti di Josh. Insomma, dopo tutto quello che gli ho fatto e che ha passato in questi mesi, non ho nessun diritto di piangere. Ma non riesco a fermarmi. Non riesco a smettere di piangere.
«Credevo che la vita avesse smesso di darmi possibilità nel momento in cui ho ucciso quella piccola creatura.» dico quando riesco finalmente a calmarmi. «Credevo… poi, invece, mi ha offerto la possibilità di andare avanti. Di assemblare nuovamente i pezzi. E l’ho buttata, cadendo nel giro della droga. Ma lei non si è arresa con me. E’ stata buona, mi ha dato un’altra possibilità.» mio padre scioglie l’abbraccio e mi osserva attentamente, stringendomi le mani. «E quella volta l’ho fatto. Ho assemblato nuovamente i pezzi. Ma non si è accontentata di questo. Mi ha dato la possibilità di studiare, entrare a medicina e venire in un college in America e… mi ha dato Josh. La cosa migliore che mi sia capitata in tutta la mia esistenza.» un singhiozzo mi interrompe. «E, come se non bastasse, ho avuto la possibilità di entrare nel mondo del cinema. Cavolo, ci avresti mai creduto? Un sogno a cui avevo rinunciato quelli che sembrano secoli fa. La vita è stata buona con me nonostante tutto ma io non imparo mai, non è vero? Io non imparo proprio mai. Me lo sono cercata, tutto questo. Avevo tutto ciò che desideravo e… sono una stupida.»
Nascondo il viso tra le mani, anche se non piango più.
«Mi dispiace.» mio padre mi mette una mano sulla spalla e poi torna a stringermi in un abbraccio.
Ma so cosa direbbe se non mi fossi appena svegliata da un coma di tre mesi, se non avesse sofferto tanto, se non fosse stato lontano da casa per così tanto tempo e se non avessi appena finito di piangere. Mi direbbe che sono stata un’idiota, e gli darei pienamente ragione.
Mi chiedo solamente cosa porti l’essere umano a fare cose così diverse da ciò che farebbe se solo ascoltasse quella che è l’umana ragione.
 
Dopo tre giorni mi dimettono dall’ospedale. L’unico segno del fatto che ho passato gli ultimi tre mesi in coma è il movimento improvviso della mia mano sinistra che, ogni tanto, decide di prendere vita e ricordarmi il mio trauma. Ma il dottor Shurt dice che con il tempo passerà. Il mio cervello ha solo bisogno di riabituarsi a “vivere”, come ha detto lui.
Mio padre è contento di tornare a casa sapendo che sto bene, anche se credo sia ancora preoccupato che tutto questo sia solo un sogno.
Lo accompagno all’aeroporto e passa mezz’ora a farmi promettere di stare attenta agli autisti dei pullman. Come se tutti gli autisti avessero il vizio di mettersi alla giuda in stato di ebbrezza. Comunque, per essere sicura, decido di prendere un taxi.
Ma non vado subito al college. Prima, passo da casa di Josh.
Incrocio le dita, sperando di non trovarlo. Devo andarmi a riprendere tutte le mie cose e, saperlo nella stessa casa sarebbe soltanto un buon motivo per scatenare nuovamente i miei sensi di colpa.
Quando arrivo, noto che la sua macchina non c’è. Mi avvio verso l’ingresso e rimango di sasso. Davanti alla porta sono ammucchiati tanti scatoloni e, seduto accanto a uno di essi, Connor fissa il punto da dove sono appena arrivata.
Non posso fare a meno di pensare che voglia rendermi partecipe dell’odio che prova nei miei confronti. Quando, invece, si alza in piedi sorridendo mi rendo conto di quanto abbia sofferto anche lui in questi mesi.
Prima che riesca a rendermene conto, sto già correndo nella sua direzione e le sue braccia mi stanno già stringendo forte. E allora mi chiedo: come farò senza di lui?
Ho detto di no a Josh perché era la cosa giusta da fare. Perché lo amo, e sarebbe stato completamente sbagliato sposarsi, e… ho perso anche Connor. Il fratello che ho sempre desiderato. Una delle persone migliori del mondo, assieme a suo fratello.
Se mi avessero detto che sarebbe finita così, probabilmente avrei riso per giorni interi.
Mi stringo a lui, assaporando quella sensazione di casa. Di accoglienza. Quasi di famiglia.
Vorrei solo avere più tempo per spiegarmi, anche se so già che non servirebbe. La dura verità è che è tutta colma mia, lo so io e lo sa lui. Non servono inutili spiegazioni.
«Mi dispiace.» non riesco a pensare o a dire nient’altro.
Immagino che mi farà una ramanzina coi fiocchi ma, come sempre, dimentico che Connor è imprevedibile.
«Mi sei mancata, I.» la sua voce si rompe, mentre pronuncia il mio nomignolo.
Scioglie l’abbraccio e mi mette le mani sulle spalle. Come me, cerca di trattenersi dal piangere. Non avrei mai pensato di vivere abbastanza a lungo per vedere Connor sull’orlo delle lacrime.
Vorrei dirgli che mi mancherà, ma tutto quello che esce dalle mie labbra è un singhiozzo che tento di nascondere con un colpo di tosse. E allora cerco di cambiare discorso.
«Sono venuta a prendere le mie cose…»
Connor indica con un cenno del capo gli scatoloni dietro di se, e allora capisco.
«Non voleva che ti aspettassi qui.» dice semplicemente. «Voleva che prendessi la tua roba e te ne andassi, senza distruggere il cuore di qualcun altro. Ma io mi sono impuntato. Non potevo lasciarti andare via senza salutarti. Abbiamo litigato e… beh, ha messo la tua roba negli scatoloni, li ha portati fuori, ha preso il cane ed è andato via.»
Bene, non solo ho distrutto completamente Josh ma l’ho fatto anche litigare col fratello. Se prima mi sentivo un mostro, adesso mi trasformerei volentieri in un verme per poi farmi calpestare ripetutamente.
«Ti ricordi quando ti avevo detto che non ti avrebbe mai lasciata, a meno che non gli avessi offerto un più che valido motivo?» i suoi occhi, così simili a quelli del fratello, mi scrutano il viso con attenzione. Io annuisco. «Immaginavo che un tradimento fosse un motivo più che valido, invece… sai, I, credo che tu abbia fatto bene, a dirgli di no. Era accecato dall’amore e dal dolore. Credo che gli farà bene ripensare a quello che è successo a mente lucida.» sul suo viso compare un piccolo sorriso ironico. «Come credo che gli farà bene prendersi una piccola pausa da te.»
«Non credo che sarà solo una piccolo pausa.»
«E questo chi lo può dire con sicurezza?»
Si stringe nelle spalle e un sorriso gli illumina il volto.
«Connor, hai avuto ragazze dopo Lindsay?»
Non so perché glielo chiedo. Forse perché finalmente vedo un lato di lui che non credevo esistesse: il lato tendente all’ottimismo, alla speranza.
«No.»
«Perché?»
«Perché forse un giorno tornerà. E io voglio essere pronto per quel giorno.»
Non gli rispondo. Non gli dico che, forse, così aspetterà per sempre. L’unica cosa a cui penso è: sarei capace di farlo anche io?
«Beh… vuoi che ti accompagni al college?» lui interrompe il silenzio imbarazzato che è caduto tra di noi.
«No, c’è…» scuoto la testa, cercando di allontanare i pensieri. «C’è un taxi che mi aspetta.»
«Okay, allora ti do una mano con gli scatoloni.»
Ci mettiamo un tempo infinito, anche se le mie cose erano relativamente poche. Immagino che, come me, anche lui voglia posticipare ancora per un po’ il momento degli addii.
Ma non si può rimandare per sempre.
Mi fermo e lo guardo, prendendo a contorcermi le mani.
«Grazie per esserti preso cura di mio padre.»
«E’ stato un piacere.»
Mi abbraccia per l’ultima vota e cerco di farmi forza. Dopotutto, ho scelto io questa fine.
«Mi mancherai, Connor.»
«Anche tu mi mancherai, I.»
Mi posa un leggero bacio tra i capelli e poi mi lascia andare.
Lo guardo mentre il taxi si mette in moto, e non lo perdo di vista finché non svoltiamo l’angolo. Nessun saluto con la mano. Nessun cenno del capo. Anche se, poco prima che sparisca dalla mia vista, noto che una lacrima si è fatta strada sul suo viso.
 
L’autista mi aiuta a portare tutti gli scatoloni fino davanti alla porta della mia stanza d’albergo. Gli offro dei soldi in più per questo ma, con mia grande sorpresa, lui rifiuta.
«Potresti solo firmarmi un autografo?» e alla mia espressione totalmente scioccata aggiunge:«Sai, mia figlia ti stima molto…»
Annuisco e, senza rendermi bene conto di quello che sto facendo, mi ritrovo ad autografare una foto mia e di Josh. Lui sorride e si allontana fischiettando. Lo fisso mentre si allontana e, solo una volta che si è allontanato, comprendo ciò che mi è appena successo.
Ho firmato il mio primo autografo.
Un sorriso mi spunta sulle labbra.
Senza smettere di sorridere, afferro la borsa e ci frugo dentro alla ricerca delle chiavi. Mi sembra sia passata una vita dal’ultima volta che ho messo piede in questa stanza. Riporta un sacco di ricordi alla mente.
Ma, nel momento in cui la porta si apre del tutto e i miei occhi mettono a fuoco l’ambiente, il sorriso che ancora leggermente mi increspava le labbra sparisce del tutto.
Capelli lunghi e castani, occhi dello stesso colore dei capelli e un sorriso fin troppo familiare. Sulle sue gambe è appoggiata la testa di un ragazzo che mi sembra di riconoscere. Gli accarezza i capelli e ride di qualcosa che le ha detto.
La scena è come una pugnalata nello stomaco.
Un impulso di chiudere la porta e andare via prende il sopravvento su di me, ma poi Mary alza la testa e i suoi occhi intercettano i miei.
La sua espressione si fa seria.
«Guarda un po’ chi è tornata alle origini..!»

 
 
 

SPAZIO AUTRICE.

 

E’ un dramma, lo so.
Forse tra i generi dovrei aggiungere “drammatico”.
E, anche se voi penserete che io sia perfida, voglio solo dirvi che per me è stato davvero difficile scrivere gli ultimi capitoli.
 
Passando alle cose serie.
 
Per chi non se lo ricordasse, Lindsay è l’ex-ragazza di Connor. La volontaria per “Medici senza frontiere” partita per la Bolivia qualche mese prima che Ila incontrasse Josh.
 
Poi, volevo dirvi che le prossime due settimane sarò in vacanza con i miei, quindi (dannazione!) sarò senza computer e senza internet. I’m sorry e.e
 
E, last but not least, volevo ricordarvi la mia pagina facebook - - - >Ilaria.
 
Un bacione enorme, Ila. 

  
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