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Autore: daisy05    29/01/2008    4 recensioni
Nessuna pretesa, se non il minuscolo desiderio di concedere uno spaccato di cui ho sentito la mancanza, a questa coppia. SPOILER HP7 ~ "Harry annuì (...). Ma pensò a Ginny e la paura gli ribollì come acido nello stomaco", Capitolo 9.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Harry/Ginny
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: Spoiler!
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Lo confesso brutalmente, e senza pudore; devo ad Harry Potter molto più di quanto la mia stessa razionalità possa riconoscere. Ad Harry Potter devo i miei affetti più cari, ad Harry Potter devo il riscatto, ad Harry Potter devo un sogno ad occhi aperti, ad Harry Potter devo parte della persona che sono.

Si è discorso molto, circa la bellezza o meno del settimo libro; con distacco, mi ritrovo a concordare con chi afferma che ci si poteva aspettare molto di più (maggior coerenza; non una Bellatrix morta per mano di Molly, per esempio. Non la Draco/Pansy immolata alla Daphne/Draco per puro dispetto alle coronarie di Bri *ti amo Ghiacciolino, lo sai :P*, tanto per) di quanto effettivamente ci è stato offerto. Ma, a pelle, mi ritrovo altrettanto costretta ad affermare che probabilmente non esisterà mai più un libro a cui devo tanto.

Mi sono permessa di colmare quella che ho ritenuto essere una scelta narrativa ben poco azzeccata; sono partita, come in molti di voi sanno, come una vivace supporter Harry/Ginny, prima di darmi alle Ron/Hermione (*_*) e vedere destinate nient’altro che un manipolo di righe alla separazione di questi due in quello che è l’ultimo volume della saga, bruciava parecchio. Ecco il motivo per cui è da considerarsi What If, e non un Missing Moment. Non si sono salutati. Non è successo, e Amen, mi sono offerta un auto consolazione.

~

NON DEVI DIRE BUGIE

Perpetrava le narici, nella sua intensità.

Strazio a respiro.

Rigurgito acido tanto da perforare gola molle, uno, due, tre, quattro fiotti di bruciore inghiottiti in una lacrima spezzata, contro le ciglia scure.

Era maleodorante, quello sgabuzzino; effettivamente, lo era da che avesse memoria di vita.

Ed era quasi paradossale pensare che Lolly–Cera e Moccio–Molly non avesse mai neppure lontanamente pensato a porre rimedio allo stato di degradazione che sembrava trasudare perfino la striscia di parquet che il suo piede, da una buona decina di minuti a quella parte, stava massacrando, inclemente.

Gli occhi marroni si spostarono, con una lentezza che aveva dell’esasperante, contro il perimetro di quell’ala abbandonata da tutto e da tutti, dimenticata da Acetone e da Merlini e Morgane di ogni sorta e nascita; aveva letto, in un vecchio album di famiglia –sebbene, al momento, le sfuggisse esattamente quale- che, in passato, il sottoscala era stato sfruttato a scopi pozionistici.

Il capo scattò repentinamente verso l’alto, lo sguardo che, appena-appena assottigliato e al contempo vuoto (era tipico, di lei; occhi sottili e quel barlume di vivace acume che caratterizzava gli occhi di Hermione assente, dai suoi) si fissava su una macchia scura; certamente, la Muffa era un’ottima argomentazione a suffragio del fatto che, in quelle quattro pareti, i suoi avi avessero rimescolato bolliti magici su bolliti magici.

Ma non erano state, tuttavia, i vapori delle tante Polijuice o i fallaci esperimenti di zio Ferdinand in quella particolare branca magica (ebbene sì, Ron sembrava avere un senso, dopotutto, alla luce di quelle scoperte) ad avere determinato la condanna del Sottoscala di casa Weasley, quanto l’arrivo di Archie.

Archie, meglio noto come il demone di famiglia, era stata la risposta del caro Artie alle sue ripetute richieste di avere un Labrador e non un gnomo, per animale domestico, come tutte le sue compagne di scuola Muggle.

A sua giustificazione, v’era da dire che a cinque anni, un metro e una Vigorsol d’altezza ed i capelli color carota, la richiesta di normalità era senza dubbio sacrosanta e giustificata; il punto è che la parola “normalità” faceva spesso rima con quella “Costo Insostenibile” e, di riflesso, con “Negativo, cara”.

Tuttavia, davanti agli occhi lacrimosi della sua unica bambina, il buon cuore di Babbo Weasley si era indignitosamente –come, ripetutamente, gli avrebbero fatto notare negli anni seguenti i gemelli- liquefatto come burro al sole d’agosto e, di conseguenza, la sua mente aveva preso a vagliare ogni genere di soluzione economicamente approcciabile.

E, così, per il suo ottavo anno d’età, Ginevra si era vista arrivare in casa un Demone; ora, per quanto la signora Weasley avesse compiuto passi da gigante nel campo della tolleranza e della pratica della non violenza (e, sì, l’ennesimo cesso maschile fatto saltare in aria dai gemelli nell’arco di un singolo anno scolastico aveva fatto la sua parte) sicuramente non era ancora pronta ad apprendere anche la fine arte della carità verso le creature derelitte.

Archie, dunque, aveva appena fatto in tempo a varcare la porta di casa che, subito, Molly lo aveva rigettato in fondo alle scale, farfugliando, tra uno strepito e l’altro, circa la sua bontà nell’offrire per cuccia un’intera cantina ad un essere ripugnante.

Ginny, per contro, non riusciva a vederci proprio nulla di ripugnante in quella creatura; non era mai stata una ragazzina schizzinosa né, tanto meno, interessata a pizzi e fard per pupe parlanti marca Babywhitch, ed il fatto che ad Archie sembrava non donare il rosa era sicuramente un punto a suo favore.

Il demone era per natura una creatura silenziosa e schiva -fatta eccezione per i rari latriti che squarciavano le calde notti d’estate- e, mite, tendeva a nascondersi nell’angolo contro cui Nonna Miranda aveva addossato la vecchia credenza pensile.

Raccolse le ginocchia al seno e, le dita strette contro il polso, portò, per la seconda volta nel giro di un’ora scarsa, lo sguardo sulla credenza chiara e oramai ridotta a pezzi; e, di nuovo, per la seconda volta nel giro di un’ora scarsa, il suo cuore mancò un battito.

In quell’angolo polveroso, la bocca dai contorni sfumati semi-aperta, Archie si addossava al muro, in un sonno profondo.

Con, addosso, una parrucca rossa ed un pigiama a Pois Blu.

Un pigiama a Pois Blu che ricordava terribilmente quello del fratello minore.

Labbro inferiore a stringersi contro labbro superiore, socchiuse, per una frazione di secondo, gli occhi marroni, inalando una profonda boccata d’ossigeno e prestando a malapena attenzione alla morsa di disgusto e di repulsione che le attanagliò lo stomaco, in replica all’odore di fogna che correva a impregnarle le mucose e colmarle i polmoni.

Aria, aveva bisogno d’aria.

Ancora fetore, aveva ancora bisogno di fetore che le risucchiasse l’ossigeno dal corpo tanto dal costringere il suo cervello all’oblio.

Aria, aveva ancora bisogno d’aria.

Eppure era fame di maleodorante, quella che lacerava i suoi polmoni.

E, per la prima volta, si ritrovò ad avere paura in quella stanzina che sembrava chiudersi su di lei.

Tre secondi.

Solo tre secondi.

Ecco quello di cui aveva necessitava veramente.

Tre secondi, tre.fottutissimi.secondi.

Uno.

Era carino, quel vestito. Morgana, lo voglio quel vestito, mi piace come stava addosso al manichino di Madama McClan. Magari qualcuno me lo regala. Magari me lo regala lui. Mi piace quella tonalità cobalto. Mi piace e lo voglio, ho sedici anni e la vita è bella.

Due.

Anni. Dio, sono anni che non mangio un filamento di liquirizia all’amarena. Chissà se mi fa ancora schifo. Lo avevo fregato a Percy che lo nascondeva sotto il letto, ci credo faceva schifo, mamma, tutta quella polvere e- Il Bucato!!!, mi sono dimenticata il bucato, lo sapevo, lo sapevo io. Vabbè. Lo faccio domani. Tanto domani non succede nulla. Tanto domani è un giorno come l’altro, e fatto il bucato preparo un panino e magari inforco la scopa e vado sulla collina e volacchio qua e là. Tanto, non c’è da avere paura. Va tutto bene. Tutto bene. Bene. Bene.

Tre.

Dio mio, come baciava male. Umide. Ti lasciava la saliva sulle labbra, Dean. Oddio, vero anche che rotolarsi nell’erba fresca di pioggia non è stata esattamente una mossa intelligente e, sì, lo so, ecco, come al solito, il Burrocacao, ogni.santissima.volta. , sì., giuro, domani me lo ricordo. Scappo due minuti in edicola e lo compro. Sì. Lo faccio. Lo. Lo. Lo. Lo…

Lo...

“Non devi dire bugie”.

Un sussurro roco e basso, amaro, in ogni fibra di cristallo che generalmente era la sua voce, spezzò l’aria fetida, sferzante, rivolto apparentemente alla parete.

O, forse, rivolto a lui.

O, forse, rivolto a lei.

O, forse, rivolto a quella fottutissime situazione che nessuno meritava, e lei non se ne rendeva conto.

Dio, voleva solo non pensare.

Pensare ai tempi andati. Ad ex che baciavano male. A dolciumi di cui aveva scordato il sapore. Al profumo dell’erba bagnata, quando ci passavi a filo d’aria, scopa alla mano.

Non ad una guerra alle porte. Non al fatto che lui se ne stesse per andare incontro a morte sicura. Non al fatto che stava scappando da lei senza neppure dirle addio, lasciandole solo un Demone con un Pigiama addosso.

Voleva solo non pensare e continuare a sperare, infondo.

Sebbene, in cosa, non lo sapesse neppure lei.

Volse il capo, lentamente, le dita ancora pressate con forza contro il polso tanto dal bruciare la pelle, torcendo il busto verso la fonte del debole scalpiccio che aveva attraversato le sue orecchie, appena un secondo prima.

E fu solo un battito di ciglia.

Un battito di ciglia, la bocca pastosa, ed un desiderio avverato.

Oblio.

Vacuità mentale per il solo riflesso del suo sguardo nel proprio.

Faceva paura; Dio, se la faceva, tutto quello.

Inno al dolore che sgorgava, copioso, da ogni scheggia dei suoi occhi, a toccare il suo animo, pizzichi di mani esperte che lambivano le corde in tensione di un violino dimenticato nella polvere, tanto dal ridursi a massa sanguinolenta e carne martoriata.

Era solo suo. Solo suo, il dolore che aveva la capacità di spezzare la cortina di concretezza e fare sbrigativo che era tutta sua. Solo suo, il dolore che la costringeva a conficcarsi le unghie nelle palme, per evitare di sporgere le dita verso il suo volto e raccogliere a coppa, in ogni carezza, parte della sofferenza che gli deformava il volto. Solo suo, il dolore che la spingeva a pensare che non esisteva solo la propria, di disperazione.

Che la spingeva a pensare che tutto, tutto, una, dieci, cento e mille volte male, pur di asciugare quelle lacrime non piante che divoravano, di giorno in giorno, l’anima di Harry Potter.

Versava la tempia contro la parete crepata, Harry, lo sguardo fisso nel suo e le dita sottili affondate nelle tasche dei pantaloni, di taglio classico; le maniche della camicia arrotolate all’altezza dell’avambraccio, e quell’aria di nostalgia che fu a sposarsi con i capelli perennemente spettinati (e quante volte si era ripetuta, in passato, che solo una mente logica e ordinata, sicura, poteva sopportare dei capelli tanto disordinati, quante volte?...la via di fuga al caos che era la sua vita stava al suo caschetto fresco di forbici magiche, come la certezza di aver già trovato la via maestra stava agli indomabili riccioli di Harry).

Strinse le labbra, le narici strette in due fessure sottili, tentando di combattere la tentazione di serrare le palpebre, al solo scopo di rifuggire l’intensità del suo sguardo; le bruciavano, gli occhi.

Le bruciavano davvero.

Ma la caparbietà era qualcosa conquistato tanto tardivamente che non era disposta a lasciarselo strappare così facilmente; neppure da lui.

Seguì un lungo silenzio, alla manciata di parole che la sua bocca si era ritrovata a vomitare, quasi inconsapevolmente, qualche istante prima.

Harry non mosse un muscolo, limitandosi a prendere una profonda boccata d’aria.

“Non volevo lo sapessi così.”, si limitò a replicare alle parole che l’altra aveva rivolto al muro.

“Oh. Beh. Grazie. Mi sento meglio, davvero Potter”.

Harry serrò le labbra, nel vederla contrarre una spalla contro la linea del collo; lo faceva sempre, quando era nervosa.

Contrarre la spalla contro il collo.

Quasi a volerlo nascondere, il collo; quasi a voler nascondere al mondo intero la giugulare, per evitare di essere colpita dove il cuore pulsava, sotto gli occhi di tutti.

Si morse l’interno guancia, impedendosi di stropicciarsi gli occhi con le dita della mano sinistra che, suo malgrado, erano schizzate fuori dalle tasche ancora prima che se ne potesse rendere conto.

“Ginny.”

Ginevra puntò, con forza, lo sguardo nel vuoto, non dando aria di aver sentito il richiamo di Harry.

“Ginny”, ripeté lui, una nota di impazienza nella voce.

Di nuovo, silenzio.

“Ginevra, ora. Subito.”, intimò, e, nella mente di lei, si figurò l’immagine dell’indice dell’altro, a scandire punteggiando il nulla ogni parola.

Si sollevò in piedi, le braccia incrociate al petto ed un aria di sfida dipinta sul volto lentigginoso.

Gli sguardi dei due si intrecciarono, in linea d’aria -una traccia di risolutezza e caparbietà a velare occhi gemelli eppure diversi, nelle loro sfumature-; fu tuttavia Harry a lasciar trapelare, per primo, attraverso quel muro apparentemente impenetrabile, l’incertezza dell’istante.

Qualcosa di molto simile al gusto della vittoria si spanse nella bocca di lei; ma fu solo un istante.

Sessanta secondi, e già chinava lo sguardo, in preda alla colpa più feroce e inconfessabile; era croce per il suo cuore e delizia per il suo dannato orgoglio, quello sguardo. Aveva imparato che rattristarlo faceva più male che bene, perché, e oramai lo sapeva, il suo dolore diveniva il proprio.

Eppure, quell’amor per sé stessa rinnegato da sempre in suo nome, si ostinava a soffocare nel suo sconclusionato strepitio ogni altra voce che affollava la mente.

E fu di nuovo il frastuono del silenzio, a levarsi nell’aria che li separava l’uno dall’altro.

“Avrei voluto-“

“No che non lo volevi”, lo interruppe, in un sussurro rabbioso, risollevando di scatto il capo; le braccia strette, con una forza se possibile ancora maggiore rispetto a quella che l’aveva preceduta, contro il seno, a schermarsi da ogni affondo che l’altro poteva intentare contro l’organo pulsante.

Harry sollevò gli occhi al cielo, nel mero tentativo di nascondere il sogghigno amaro che gli deformava la bocca.

“Sicuro. Certamente. Perché non privarsi della possibilità di salutare la…la…”; scosse la testa, convulsamente, ingollando un groppo di saliva particolarmente denso.

Il cuore di Ginny galoppò per qualche secondo, nel cogliere quel biascichio urlato per metà ed incompleto ma, il tempo di socchiudere per qualche secondo gli occhi e distogliere lo sguardo dalle linee del collo scoperto di lui che avevano svelato la sua difficoltà nel pronunciarle, quelle parole, ed era di nuovo lei.

I suoi occhi scivolarono, di nuovo, nel vuoto, la linea della mascella ad irrigidirsi in modo progressivo, mentre socchiudeva gli occhi.

“ “La” cosa, Harry? Che Cosa? Cosa? Dillo ad alta voce, che cosa stavi facendo, dillo, che stavi tagliando la corda senza salutare neppure me.”; le orecchie divennero scarlatte, nel prendere piena coscienza delle parole che le sue labbra avevano appena scandito.

Sapeva di presuntuoso, quel “me”. Infondo non era che la sorella del suo amico, ora come ora.

I bei tempi andati stavano diventando imprendibili perfino nella sua mente quando, di tanto in tanto, ricercava nella memoria il ricordo del calore che erano le braccia di lui, in una notte più fredda delle precedenti dinanzi alle braci morenti.

E, pur mantenendo lo sguardo ostinatamente sperso nel nulla, udì con chiarezza il soffio di frustrazione che si levò dalle labbra di Harry.

Lo sguardo del ragazzo, posato su di lei, sembrava vomitare rabbia su rabbia; dare spiegazioni era l’ultima cosa che voleva.

Per quanto male avesse fatto, sarebbe stato più facile sfuggire da quella casa senza degnarla di un solo sguardo, affidandosi alla clemenza del caso e a quella stessa memoria in cui non aveva mai riposto fiducia, per serbarne il sorriso capace di incrinare (o forse assemblare, chissà) un animo che si era spezzato prematuramente, o il profumo della sua cute ancora umida di sudore che si mescolava a fango e pioggia, o, ancora, il calore delle sue mani quando ricercavano le proprie, di mani.

Semplicemente, avrebbe fatto comodo imputare al silenzio le parole non dette e non alla sua codardia.

Perché, per quanto incredibile suonasse perfino alle sue orecchie, per il Ragazzo-Che-E’-Sopravissuto seccare Voldemort sembrava ben più facile che affrontare lei.

Strinse le labbra, mentre il capo scartava a destra, soffiando di frustrazione.

“Non rispondi, eh?”, sussurrò Ginny, con voce sottile e penetrante, ottenendo, come solo effetto, quello di spingerlo a conficcarsi le unghie nelle palme.

“Non capisci un cazzo.”, replicò, di rimando, secco e brusco come poche volte prima. “Non è una partita di Quidditch, questa…pluffa al centro, boccino in mano e abbiamo vinto. Non è un gioco, cazzo, non lo è.”

Ginny dilatò gli occhi dalla rabbia, riportandoli in quelli di lui.

“Un Gioco? Un Gioco?!”, strepitò, con voce acuta, avanzando di un solo passo verso di lui, livida di rabbia; strinse i pugni contro il costato, pregando che le braccia incrociate gli impedissero di cogliere il suo tremolio incontrollato. “Pensi davvero che sia un gioco, per me?! Mio.Fratello.Ci.Ha.Rimesso.Un.Orecchio!!!”.

“Penso che se ti appendi ad un saluto mancato non hai chiaro il tutto, ecco che penso, Ginevra.”, replicò lui, il tono esageratamente basso colorato da una vena di freddo distacco.

“Un saluto mancato?! UN SALUTO MANCATO?! E’ IL TUO CULO CHE STAVI PORTANDO FUORI SBATTENDONE ALTAMENTE DI M-”

E’ proprio perché non me ne sbatto di te che me ne stavo andando via, che c’è di così difficile da capire, cosa?!”, sollevò la voce Harry, in replica al volume dell’altra.

“COSA C’E’ DA CAPIRE SE TU TE NE VAI SENZA NEPPURE DEGNARMI DI UN SALUTO??!! OH, NULLA! NULLA DI NULLA, INFONDO E’ UNA COSTANTE PER NOI DUE, NO?! TANTO GINNY E’ A CASA! TANTO GINNY ASPETTA! TANTO GINNY SA! TANTO GINNY NON PIANG-”

“MA LO CAPISCI CHE E’ UNA CORSA AL SUICIDIO LA MIA, LO CAPISCI?!”

“A MAGGIOR RAGIONE ME NE DOVEVI FARE PARTECIPE!”

“SICURO! “SAI AMORE, C’E’ UN PAZZO OMICIDA CHE VUOLE PRESENTARMI IL CONTO DI DICIASETTE ANNI DI VITA ED HO IDEA CHE SARA’ MOLTO SALATO, MA TU NON TI PREOCCUPARE, SCALDA IL LETTO E METTIMI IL PIGIAMA SUL CAMINO, SAI QUANTO SONO FREDDOLOSO”, QUESTO, QUESTO VOLEVI SENTIRTI DIRE?!”

“ERA SEMPLICEMENTE CONSIDERAZIONE, QUELLA CHE VOLEVO!”

Harry boccheggiò, scuotendo la testa, incredulo, reprimendo un risolino di pura nevrastenia.

“CONSIDERAZIONE?! CONSIDERAZIONE?! LA MASSIMA CONSIDERAZIONE CHE POTEVO DARTI ERA QUELLA DI RESPIRARE PER I PROSSIMI VENT’ANNI A VENIRE!”

“OSA, E RIPETO, OSA FARMI PASSARE PER LA BAMBINETTA VIZIATA DI TURNO E GIURO CHE-”

“CHE COSA FAI? MI LANCI ADDOSSO UNA ORCOVOLANTE COME HAI FATTO CON MALFOY? MERLINO, E’ PER TE CHE L’HO FATTO!”

“MA E’ LA MIA VITA QUELLA CHE STAI DECIDENDO A TAVOLINO SENZA NEPPURE FARMENE PARTECIPE!”.

E, di nuovo, il fracasso assordante delle parole non dette si insinuò tra di loro.

Si osservarono, ansanti, per qualche secondo, le cassa toraciche ad abbassarsi e sollevarsi in modo frenetico, incontrollato; le labbra, socchiuse e screpolate dalla mancata salivazione, che rincorrevano i fiotti d’aria esalati dall’altro.

Harry si accorse solo allora che, nella foga della discussione, si erano avvicinati così tanto che le punte dei loro nasi potevano quasi sfiorarsi; le ginocchia di entrambi cedettero, per qualche secondo, ed i loro profili si accarezzarono in un’onda appena accennata e delicata.

Naso a zigomo.

Narice a narice.

Ma fu un istante.

Carezza di sabbia rosa quarzo, lento scivolio su parete di cristallo clessidra nel mero tentativo di arrampicarsi sulla lastra verticale che era il tempo in cui nulla, tanto meno le loro unghie, aveva la capacità di affondare.

Harry ritrasse il capo, lasciando che la fronte si spingesse contro la parete nuda contro cui, solo una manciata di minuti prima, si era appoggiato, scendendo le scale.

Credi che sia facile? Credi davvero che non sarebbe più semplice addossarti contro questa stessa parete e baciarti le labbra sino a levigare anche il solco più profondo che le percorre?”, esalò, in un respiro, il pollice a sollevarsi per percorrere lentamente il labbro inferiore di lei.

L’unghia indugiò contro una crepa in rilievo, sulla carne ruvida; Ginny trattenne il respiro e inghiottì a vuoto, piegando il capo e lasciando che, di nuovo, le palpebre si socchiudessero.

Le labbra si chiusero sul polpastrello di lui, in quello che voleva essere un bacio leggero e appena accennato.

Harry strofinò la fronte contro la parete, quasi volesse acquietare il dolore che generalmente gli attraversava la cicatrice.

Ma non gli doleva, in quell’istante, la cicatrice.

Era altro che piangeva, in un battito spezzato, ora.

Credi che non la vorrei, la normalità? Lamentarmi per un compito di trasfigurazione andato male. Prendere a pugni qualcuno perché ti ha fischiato dietro. Irritarmi, in replica a qualche stupido Slytherin che vaneggia circa scope e coppe di Quidditch.”; ruotò il capo verso di lei, la tempia sinistra incollata al muro.

Gli occhi verdi che sembravano ospitare l’essenza di tutto il dolore che, suo malgrado, era Harry Potter; si ritrovò a stringere con maggior vigoria le dita attorno agli avambracci, per evitarsi di incorniciare il volto di lui in una prigione fatta di pelle e sangue, capace di difenderlo perfino dal suo stesso respiro.

Non voglio credere nulla.”, sussurrò di rimando Ginny, portandosi davanti a lui ed appoggiando,a sua volta, la tempia contro il muro.

Occhi negli occhi.

Respiro in respiro.

“Non l’ho mai voluto. Mai voluto, tutto questo”; strinse appena lo sguardo, come faceva quando, appena sveglio, ricercava a tastoni gli occhiali.

“Lo so”, si limitò a rispondere Ginny, l’indice che si chiudeva ad uncino contro il dito di Harry, ancora pressato sulla sua bocca.

“Non voglio decidere della tua vita”; il pomo d’Adamo fremette, sotto il peso di quelle parole.

“Ci entri. La fai. Non lo vuoi, ma le cose avvengono senza che tu possa decidere o meno se sia giusto.”; Ginny, chinò il capo, percependo un distinto calore in zona orecchie “Quello non lo posso decidere neppure io”.

Harry si avvicinò maggiormente, portando la mano libera contro il volto di lei e lasciando che versasse la guancia contro la sua palma; il pollice a solleticare l’attaccatura dei capelli.

La ragazza raccolse la mano di Harry, passando con l’indice contro le cicatrici che componevano la parola “Non devo dire bugie”, sulla pelle chiara.

“Ho sempre pensato che il detto che le cicatrici misurassero il valore di una persona fosse una gran cazzata”; ad Harry sfuggì un sorriso tirato.

Il primo, da parecchio tempo a quella parte.

“Menomale. Avrei potuto montarmi la testa”; Ginny piegò la testa, lasciando che le labbra accarezzassero le lettere della frase incisa sulla sua mano, mantenendola contro la propria bocca.

Asciugare il dolore.

Cancellarlo, dalle sue mani. Da ogni fibra del suo corpo.

“Non devi dire le bugie”, mormorò contro la mano, ogni parola ad intrecciarsi ad una “O” o ad una “I”.

“Non le ho mai dette”.

Fu il turno di Ginny, di sorridere.

“Come molte altre cose”.

Harry le sollevò il mento, fissandola, penetrante.

“Non posso che prometterti ancora silenzio. Lo sai, vero?”; Ginevra portò gli occhi in quelli di lui, fissandolo con un’intensità che faceva quasi male.

“Non devi dire le bugie”; un sorriso storto, sulla bocca.

Il ragazzo avvicinò il proprio volto a quello di Ginny, liberando la propria mano e portandola accanto all’altra, sul volto di lei; le labbra a un fiato d’aria, le une dalle altre.

“Non posso prometterti neppure quello”, sussurrò, contro la bocca di lei, lo sguardo socchiuso.

Ma non c’era nulla, nulla di romantico in quel sussurro spezzato sulla bocca.

Nulla di nulla.

Nulla che scavava il deserto nei loro petti. Anche se si stavano quasi baciando. Anche se quello sarebbe stato l’ultimo bacio per molto tempo a venire. Anche se quello sarebbe stato l’ultimo bacio di sempre. O l’ultimo bacio di un’ora. O, forse, l’ultimo bacio e basta.

E faceva più male che bene, tutto quello. Sapere che una bocca capace di combaciare in ogni sua più piccola crepa con la tua esisteva, si contraeva, in sorrisi e maschere di tristezza, così dannatamente vicino a dove tirava la tua, e la consapevolezza di non poterla sfiorare.

C’era lo strazio della diversità, in ogni loro bacio; le sue labbra non sapevano di dolce, ma racchiudevano in ogni piega pulsante l’amarezza dell’ignoto e di un futuro incerto.

In quanti, avevano dichiarato il proprio amore a questa o all’altra fanciulla, coprendola dei vezzeggiativi più romantici e poetici?

Avrebbe voluto dirgli che lei e solo lei era l’astro che guidava la sua esistenza.

Ma non c’erano stelle benevoli, nella sua strada; solo qualche sparuto punto luce che riaccendeva, quasi per riflesso, un barlume di speranza. E, quelle fiammelle, erano da attribuirsi solo alla clemenza del caso e della sorte.

Si scostò da lei immediatamente, quasi scottato, gli occhi verdi lucidi di un’indefinibile ed il fiato leggermente corto.

Doveva andare. Era meglio per lei, lo era per lui. In fretta. Ora. Subito.

Ginny, intuendo le sue intenzioni, rafforzo la stretta sulla mano di Harry, insinuando, tra questa e la propria guancia, il pollice; ancora un contatto con quella cicatrice che era Harry ben più di quella che recava al centro della fronte.

Harry la osservò ancora un istante, il cuore ridotto ad una massa sanguinolenta, per poi slacciarsi, lentamente, da lei.

Arretrò di qualche passo, senza staccare gli occhi dai suoi.

“Ovunque. Non importa dove. Come. Non cambierà nulla.”, si lasciò sfuggire, in un soffio.

Ginny annuì, piegando il capo, come sconfitta, ed Harry gli volse le spalle; fece per uscire, ma, all’improvviso, si arrestò, le dita a ghermire una porzione di architrave in legno.

“Tornerò.”, esalò, infine, prima di fuggire via.

Ginevra sollevò il volto, ed una lacrima sottile solcò la gota, impigliandosi nella fessura, a mezze labbra.

Non diceva mai le bugie, lui.

~

Non mi soddisfa pienamente. Si poteva fare di meglio sicuramente, ma la prolungata inattività si fa sentire u_u;

Sfrutto lo spazio a fine pagina per ringraziare tutti coloro che mi chiedono ancora, via Mail, notizie circa i miei lavori (e mi scuso con quelli che hanno manifestato il loro disappunto alla cancellazione dall’account di “Time, Sand and Dreams”, ma quando le dita non ti fremono per proseguire una Long Fic, è finita ed è ora di tirare i remi in barca) e si ricordano del fatto che una pazza sclerata esisteva in queste lande XD.

E visto che siamo in fase di Thanks, io ci provo sempre. Da un anno a questa parte, un piccolo manipolo di pazze furiose (giusto perché sono ancora in libertà e per rassicurarvi che, sì, purtroppo per noi sono ancora vive anche se estremamente pigre in termini di scrittura [<- notare da che pulpito viene la predica, prego]…Briseide, Miyaki, Marcycas – The Lady of Darkness e Sunny, giusto per citarne alcune), che comprende anche la sottoscritta, ha dato vita ad un progetto che ha lo scopo di offrire una visione personale del settimo volume della saga, tenendo conto non solo dei Personaggi principali ma tessendo anche le trame delle caratterizzazioni secondarie.

A tal proposito, per chi invece il gioco lo leggeva già, nel mio Lj personale trovate delle FF incentrate sui Pg del gioco, così come anche in quello di altre giocatrici, così come avete accesso su Youtube a dei video a sfondo Cheq, digitando nel campo di ricerca la parola Chequered_Rpg. *tanto se volete continuare farvi male, insomma*

A causa di crollo server, il Chequered_Rpg sta per essere copiato, con le dovute modifiche e migliorie, sul Livejournal. Per tutti coloro che sono interessati alla lettura, basta frendare il gioco e una volta pubblicate le giocate, leggerle (e magari commentarle nello spazio apposito una volta lette :fisch).

Un abbraccio forte, a tutti gli avventurosi che sono riusciti a giungere a capo-pagina. XD

  
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