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Autore: Sophie_Wendigo    18/07/2013    1 recensioni
-È irrazionale Sherlock, è irrazionale.- Si ripeteva ad occhi chiusi l'investigatore.
“Sarò ancora qui quando li riaprirai, se è a quello che stai pensando!” disse il criminale, accennando ad una risata.
Genere: Erotico, Fluff, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty , Sherlock Holmes
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Bondage, Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Sherlock Caramel'
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Un vento impetuoso spazzava le strade di Londra quella mattina, sfrecciava fra i palazzi, sollevando nubi di polvere e innalzando al cielo foglie umidicce, fogli di giornale e sacchetti di plastica.
Fu una folata più forte delle altre, che si abbatté sulle imposte chiuse della camera, a svegliare Jim.
Dischiuse le palpebre, riempendo i polmoni con un respiro profondo che distese le fibre del suo corpo e, solo quando tutti i sensi si furono sciolti dall’intorpidimento del sonno, avvertì il peso di Sherlock, ancora raggomitolato accanto al suo petto, con i ricci scuri che seguivano il movimento dettato dal suo respiro. La sua figura rilassata e indifesa gli suscitò un sorriso e, facendo attenzione a non disturbarlo, piegò il braccio, perfettamente incastrato nell’incavo del suo collo, stringendolo di più a se.
Fu allora che lo vide, e i ricordi della sera prima tornarono a saettare nel suo cranio come pallottole gelate.
La sua mano era sporca di sangue rappreso.
Il suo sangue. Quello fuoriuscito dalla lesione che lui stesso gli aveva provocato.
Chiuse gli occhi, disgustato da quella visione e da se stesso. Fece scivolare via del tutto il suo braccio da sotto il collo del ricciolo, poi si alzò dal materasso silenziosamente, dirigendosi con la mente vuota verso il bagno.
 
Il criminale fece scorrere l’acqua sul suo corpo per più di un’ora, quasi cercasse di lavare via il rimorso oltre alle macchie cremisi che costellavano le sue gambe e parte del corpo.
Quando uscì dalla vasca, grondante d’acqua e di pensieri, prese un asciugamano e, dopo averlo stretto attorno alla vita, tornò in camera.
Quasi in apnea per paura di svegliarlo, Jim camminò attorno al letto in punta di piedi e, dopo aver rovistato alla cieca nei suoi cassetti, prese la prima coppia di abiti che riuscì a identificare come tali.
Solo dopo, una volta fuori e alla luce, si rivelarono essere un pigiama dal tessuto leggero. Lo indossò nonostante la pessima qualità, la misura e l’estetica. Era un pigiama davvero triste: la maglia a maniche lunghe era di un blu smorto, mentre i pantaloni erano grigio chiaro, entrambi troppo grandi per lui, tanto che mani e piedi restavano nascosti sotto l’ampiezza della stoffa. Ma l’uomo, nonostante fosse abituato a completi su misura e tailleur costosi, non ci badò troppo, dopotutto non si sarebbe mosso da lì, e l’unico uomo che l’avrebbe visto lo disprezzava già, quindi non aveva niente da perdere…
Dopo aver arrotolato le lunghe maniche fino ai gomiti, andò verso la cucina.
 
Uscito dal corridoio, il caos che regnava sul pavimento del salotto, lo travolse, regalandogli un forte capogiro.
Restò sulla soglia alcuni istanti, contemplando i loro indumenti sparsi a terra e venendo rapito dalla scia di macchie rossastre che li ricopriva: partivano dalla base della poltroncina scura, dove ve ne era una maggiore quantità, poi proseguivano lungo tutto il percorso che conduceva alla camera da letto, andando via via diminuendo.
Tutto gli riportava alla mente ciò che aveva fatto, facendolo sentire sempre più come un mostro.
S’impose di ignorarle per il momento, e di concentrarsi sui vestiti, che furono raggruppati tutti  in un angolo della stanza, in attesa di essere portati in lavanderia, con la speranza che almeno loro sarebbero usciti puliti da quella storia.
Infine, oltrepassando il grottesco percorso vermiglio con un solo passo, entrò in cucina, dove finalmente si sentì al sicuro, quasi come se quelle piccole macchie fossero un pericolo mortale per lui, ragnetti velenosi pronti a morderlo finché di lui non fosse rimasto altro che una carcassa putrescente.
 
Scacciando anche quell’ultimo pensiero, si affaccendò ai fornelli, preparandosi un caffè bollente.
Avrebbe aspettato il risveglio di Sherlock, e anche se fosse stato costretto a sedarlo, sarebbe rimasto lì fin quando la lesione non sarebbe almeno migliorata.
- Non voglio debiti con nessuno, l’ho ferito e devo fare il possibile perché non faccia leva su questa storia in futuro. - si disse mentre osservava il liquido scuro riempire una tazza in una nube di vapore.
Era palese anche a lui che quella era poco più di una scusa, ma era James Moriarty, l’orgoglio fatto persona, e questo bastava ad autogiustificare quella bugia.
Prese la tazza fumante fra le mani, poggiandosi con il fondoschiena sul bordo della cucina e, dopo aver soffiato un paio di volte sul liquido incandescente e averne assorbito il piacevole tepore, ne prese un sorso, contraendo il petto per la stilettata calda che lo pervase all’improvviso.
Senza rendersene conto, quello stesso calore, fu come un carburante, che lo spinse di nuovo a muoversi, oltre il cumulo di vestiti macchiati, oltre la via vermiglia, oltre i sensi di colpa, sino alla camera da letto di Sherlock.
Solo quando fu di fronte alla porta esitò, ma la voglia di salì bruciante, almeno quanto il caffè che aveva bevuto.
Dapprima socchiuse appena la soglia, poi l’aprì del tutto, incrociando la figura ancora raggomitolata di Sherlock.
Sorrise. Sorrideva troppo in sua presenza. Decisamente troppo per i suoi gusti.
Ignorando deliberatamente quel pensiero, si poggiò allo stipite, restando immobile per un tempo imprecisato, in piedi, sereno, semplicemente a contemplare la tranquillità che trasudava il detective assopito.
 
Sherlock si era svegliato da poco, il corpo si rifiutava di eseguire gli ordini, ancora troppo stanco e dolorante. Così il ricciolo fu obbligato a restare sotto le coperte, costretto alla tortura di avere sotto al naso il cuscino impregnato dell’odore di Jim.
Ricordava di essersi addormentato accanto a lui la sera prima, ma non riusciva a capire quando se ne fosse andato.
- A giudicare dal profumo non deve essere molto - pensò inspirando avidamente, per poi acuire al massimo i sensi ancora intorpiditi dal sonno, così da cercare di capire se il criminale era ancora nell’appartamento.
Dopo una manciata di minuti, avvertì dei passi e il frusciare confuso di vesti.
- E’ ancora qui e sta sistemando i nostri vestiti… mi sto perdendo uno spettacolo più unico che raro: James Moriarty che rassetta casa. - pensò divertito.
L’idea di averlo in casa propria, mentre riordinava le loro cose, gli preparava la colazione o magari aspettava leggendo il giornale che si svegliasse, lo metteva di buon umore.
Era strano: fino a pochi mesi prima, John faceva esattamente questo, eppure non gli dava la stessa sensazione di infantile felicità…
Mentre rimuginava come suo solito, i suoi pensieri furono interrotti da altri passi, questa volta si avvicinavano, lentamente e con una particolare attenzione a non emettere il minimo rumore.
Chiuse gli occhi, in attesa.
La porta si dischiuse, poi più niente.
Di tanto in tanto riusciva a isolare un respiro nella stanza, ma non ne era sicuro considerato che il suo orecchio destro era premuto contro il cuscino, e ogni deduzione in quello stato aveva un alto margine d’errore.
Così, dopo circa un quarto d’ora, socchiuse le palpebre, sollevandosi appena e guardandosi attorno. La luce che filtrava dalla porta lo tradì, e la sua copertura saltò inevitabilmente.
“Allora sei sveglio!” esclamò Jim sorpreso. Possibile che quell’uomo avesse un ascendente tale su di lui da inibirgli i sensi? Davvero James Moriarty non aveva intuito che il ricciolo fingeva?
Sherlock rispose con un mugolio simile a quello di un bambino appena sveglio, soffocato appena in uno sbadiglio.
L’uomo sulla porta entrò, accostandola ancora un po’, così che una sola lama di luce illuminasse la camera buia, senza infastidire oltre Sherlock.
“Da quanto mi ti stai prendendo gioco di me?” chiese raggiungendo la sponda del letto.
“Da quasi tre anni ormai…” mugolò scherzosamente l’altro.
“Come ti senti?”
“Meglio del previsto.” Rispose il ricciolo, incrociando per la prima volta il suo sguardo. “Aiutami ad alzarmi.” Disse, voltandosi lentamente e facendo leva sugli avambracci.
“Aspetta, fa piano.” Jim si era seduto sul materasso, aveva preso l’altro cuscino e l’aveva sovrapposto al suo, premendoli contro la spalliera del letto; poi si sporse verso di lui, circondandogli il petto con le braccia e sollevandolo lentamente, finchè non si fu seduto.
Quella vicinanza lo scosse più del previsto, ma era solo l’inizio.
 
Sherlock si lasciò aiutare e, quando la sua schiena aderì ai cuscini e il dolore per la nuova posizione fu passato, sollevò il capo, trovandosi ad un soffio dalle sue labbra.
Il suo respiro caldo ora gli inondava il viso e l’aroma di caffè gli solleticò appena il naso.
Si sporse in avanti, dischiudendo la bocca e posandola sulla sua, avvolgendo per una manciata di secondi la pelle rosea del suo labbro inferiore fra le sue.
Jim simse di respirare, si contrasse appena e l’istinto di tirarsi indietro era tanto forte quando lo stupore, che inibì l’impulso, lasciandolo semplicemente immobile e stordito.
“Cosa…?” sussurrò piano quando le loro labbra si allontanarono.
“Sapevi di caffè…”
 
“Come riesci a non… voglio dire, dopo quello che ti ho fatto ieri dovresti essere… furioso, o almeno… disgustato da me! Invece cosa fai? Mi baci?! Non… non ha senso!” quasi gridò Jim, frustrato e confuso dopo quell’ultimo avvenimento.
“Avrei dovuto esserlo… è vero. Ma sono pronto a scommettere che ieri sera per te non era la prima volta, avevi già violato qualcun altro prima di me, e sono certo che non ti sei neppure fermato quando lui o lei ha iniziato ad urlare per il dolore. Non è stato così. Ti sei fermato con me, ti sei addirittura scusato e ora sei qui. Non ho motivo di essere disgustato da te solo perché tu lo sei…” Disse con tono basso, un tono che pareva nascondere le verità assolute dell’universo intero.
“Non crederai davvero che l’abbia fatto perché tengo a te?!” ringhiò a denti stretti, senza neppure lasciarlo finire. “Se mi sono fermato è perché voglio sporcarti poco alla volta. E ti prego Sherlock, non rendere tutto banale come sempre, fatti passare questa cotta, o non sarà più divertente.” Continuò con voce melliflua, nascondendo di nuovo dietro una bugia e parole taglienti qualcosa che ancora faticava a comprendere.
“Non ho affatto… io non ho una cotta per te… Ti piacerebbe! Ricordati che sei il mio peggior nemico, non potrei mai essere attratto da te in quel modo!” rispose il detective, cercando a sua volta di non dargliela vinta. D’un tratto si bloccò, assumendo una strana espressione. “Quello… quello è… che diavolo ci fai con il mio pigiama?!” solo adesso si era accorto di quel dettaglio, e più assimilava la cosa, più gli veniva da ridere, non passò molto tempo infatti prima che scoppiasse.
“Guarda che è tuo, non ci trovo niente di divertente.” Disse, guardando il tessuto scolorito.
“Invece lo è! Si vede lontano un kilometro che è troppo grande per te! Fatti vedere, tira giù le maniche!”
“Non è colpa mia se sei alto due metri! Comunque puoi scordartelo!” Disse Jim, voltandosi dall’altra parte e imboccando la porta quasi di corsa fra le risate di Sherlock.
Che non fecero altro che aumentare quando poté scorgere i suoi piedi, o meglio, non scorgere, considerato che il pantalone strascicava per più di dieci centimetri, coprendoli completamente.
In quel momento, realizzò che aveva dimenticato chi fosse, in quel momento realizzò che non riusciva più a vederlo come il criminale senza scrupoli che l’aveva coinvolto in un gioco grottesco. E lo stupore di questa scoperta, fu superato subito dopo dalla piacevole rassegnazione con cui l’aveva assimilata.
Anche Jim fu attraversato dalle medesime sensazioni: sentirlo ridere gli scaldava il cuore, doveva ammetterlo, ma quando un nuovo sorriso affiorò sulle sue labbra pensando al ricciolo, l’orgoglio Moriarty tornò più forte che mai, legandolo ad una promessa con se stesso: se mai avrebbe provato qualcosa per Sherlock, quel qualcosa sarebbe stato represso senza pietà.
  
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