Disclaimer: i
personaggi sono copyright di Fujimaki Tadatoshi.
Personaggio scelto: Kiyoshi Teppei
Rating: verde
Genere: introspettivo, sportivo,
malinconico
Riassunto: Le
capacità individuali facevano fronte ad un lavoro di squadra o un’armonia di
gruppo inesistenti.
Se si fosse trattato solo di quello forse, nonostante per indole non potesse
accettarlo completamente, alla fine Kiyoshi si sarebbe potuto adeguare in
qualche modo; invece la squadra c’era, così come un gruppo tutto sommato solido
alla base, sebbene non completamente affiatato.
Ma quando la squadra è contro di te, non la puoi combattere: puoi solo cercare
di restare a galla come meglio ti riesce.
Note: - l’anno scolastico giapponese
inizia ad Aprile e si conclude a Marzo (con vacanze varie, compreso un mese estivo
di pausa tra fine Luglio e inizio Settembre).
- Si ringrazia snowscene_ per il betareading.
- La citazione in apertura è del manga (capitolo 96).
- “Let’s have fun” è stato volutamente lasciato in inglese, giacché
l’anime non ha ancora coperto quella parte e non c’è dato specifico che attesti
se la frase è mantenuta in lingua originale (giapponese) o inglese anche nel
parlato.
Si ringrazia Giucchin/Tetsu_cchi
perché “questa fan fiction non avrebbe mai visto la luce se lei non mi avesse
promesso un club di nuoto gay.” (cit.)
«Che tu abbia talento o meno, non importa.
[…] Ho pensato molte volte di buttare via le mie scarpe da basket…
ma non importa quanto ci abbia provato, non riuscivo a farlo.»
«Possibile che questo
spogliatoio sia di nuovo un porcile?!» sbottò Hyuuga, il tono seccato: non era
nemmeno passato così tanto da quando lo avevano ripulito l’ultima volta, che si
ritrovavano non in quella stessa situazione disastrata, ma quasi. In ogni caso
a Riko era sembrato sporco abbastanza da minacciarli
di raddoppiare le serie di ogni singolo esercizio dell’allenamento speciale che
stava preparando; era stato sufficiente a far sì che si sentissero motivati a
far brillare quel posto.
«Kagami-kun, non ti stai applicando.»
«Sta zitto, Kuroko!»
«Voi matricole, se avete tempo di chiacchierare iniziate a buttare
quell’ammasso di schifezza che avete tirato fuori dagli armadietti!» sbraitò il
capitano, riprendendo entrambi. Gli avrebbe rifilato qualche ramanzina – più
per sfogo che per reale bisogno di essere bacchettone, forse – ma Koganei ne
richiamò l’attenzione con un tempismo invidiabile: «Hyuuga, che ne facciamo di
questi?» domandò, occhieggiando un insieme di vecchie riviste e oggetti che non
sembrava certo di dover gettare via.
Di fianco a lui, Mitobe – sicuramente artefice di una
raccolta “differenziata” così accurata – alternava lo sguardo dall’insieme di cose
a Hyuuga; questi si spostò da dove si trovava e studiò per qualche attimo il
mucchio, riconoscendovi qualcosa di suo e indicandolo: «Quelle sono mie e
possiamo buttarle via.» assicurò, voltandosi ad osservare gli altri ancora
impegnati nella pulizia degli armadietti da sopra la propria spalla: «Ohi,
controllate se ci sono cose che dovete tenere o gettiamo via tutto insieme al
resto!» comunicò, occupandosi personalmente di mettere una sua vecchia rivista
nella busta della spazzatura.
Dopo di lui Izuki ispezionò gli oggetti, estraendo dal mucchio un giornale: «Teppei,
questa non è tua?» chiese, rivolgendosi al compagno. A questi bastò una rapida
occhiata per riconoscere la copertina, avvicinandosi: «In effetti è mia.»
ammise «Certo che riconoscerla meglio di me… mi sa che l’ho messa io nel
mucchio.» aggiunse con una nota divertita nel tono di voce.
«Ho solo fatto caso alla divisa da basket e ho immaginato fosse tua.» commentò
distrattamente Shun, porgendogli la rivista; Teppei la tenne fra le mani per
qualche istante, per poi abbozzare un sorriso: «Grazie, ma puoi gettarla via.
Non ricordavo nemmeno dove fosse, e credo di averne anche una copia a casa, da
qualche parte.» assicurò, restituendola a Mitobe e
spostandosi verso la busta della spazzatura, ormai quasi piena.
«Vado a buttare questa, intanto.» comunicò il castano, muovendosi quindi in
direzione della porta: «Teppei, ma sei sicuro?» lo richiamò Koganei, ricevendo
solo un cenno con la mano che Kiyoshi aveva già oltrepassato la soglia,
avviandosi. Kuroko, avvicinatosi al gruppetto per controllare a sua volta le
proprie cose si sporse per osservare la rivista: «Ah, non è Kiyoshi-senpai?»
domandò, indicando la copertina.
«Sì, è una foto della squadra delle medie e all’interno mi pare ci sia
un’intervista o un inserto su di loro.» confermò Izuki «Puoi buttarla, Koga, o Teppei l’avrebbe ripresa.» aggiunse, tornando al
proprio armadietto. L’aria poco convinta, il ragazzo posò l’oggetto tra quelli
da buttare.
Prese la mira, senza la
fretta che solitamente eri costretto ad avere in campo in presenza dei tuoi
avversari, e stese il braccio in un movimento fluido per poi rilasciare la
palla con naturalezza; quella fece la parabola prevista e, senza incontrare
ostacoli, andò ad infilarsi nel canestro per poi rimbalzare a terra.
La recuperò, palleggiando distrattamente, le spalle nuovamente rilassate: fu
solo nel tornare indietro verso l’area di tiro che nel suo campo visivo rientrò
– per pura fortuna in realtà – Kuroko, la cui presenza era passata inosservata
fino a quel momento; sempre che non fosse appena arrivato, soppesò tra sé e sé
mentre già gli rivolgeva un sorriso.
«Uno contro uno?» propose, alzando un poco la palla tenuta in mano, come a
sottolineare la cosa, ricevendo in risposta un leggero scuotere del capo da
parte del più giovane: «Non ci sarebbe storia, senpai, c’è troppa differenza.»
disse con tono neutro, come se fosse scontato – e lo era, quasi quanto la sua
presa di coscienza sulla propria resistenza fisica pressoché inesistente.
Teppei rise divertito: «Va bene, va bene.» replicò semplicemente, avvicinandosi
ad una delle panchine presenti ai bordi del campo e posando la palla ai suoi
piedi «In fondo si sta anche facendo buio. Stavi tornando a casa?» domandò,
piegandosi ad aprire il borsone per potervi incastrare dentro la palla in
qualche modo, evitandosi di portarla in mano per tutto il tragitto.
«Sì.» replicò Kuroko «Ma ho sentito il rumore del pallone e pensavo fosse
Kagami-kun.» ammise, il tono non particolarmente deluso dall’aver trovato
Kiyoshi, quanto più sorpreso che non ci fosse lo stesso Taiga, magari proprio
in compagnia dell’altro.
«Giusto, venite spesso qui, eh? Però non l’ho visto passare.» disse,
rialzandosi e sistemando la tracolla sulla spalla sinistra: «Facciamo un tratto
di strada insieme?» aggiunse, iniziano a muoversi verso l’uscita del campetto;
Kuroko si limitò ad annuire, avviandosi con lui.
Non aggiunse nulla a quanto detto, né fece domande inizialmente: Teppei
riempiva il suo silenzio con qualche commento sull’allenamento concluso nel
pomeriggio, o chiacchiere di poco conto che però animavano un’altrimenti totale
assenza di conversazione, forse. Si fermò solo nei pressi di un distributore,
dal quale prese una lattina di caffè freddo, rivolgendosi poi al più giovane: «Tè?
Succo?» lo interrogò allegro, la moneta già inserita, segno che non sembrava
intenzionato ad accettare un rifiuto riguardo la bevanda da offrire. Tetsuya
incurvò impercettibilmente le labbra in un sorriso, per poi decretare: «Tè.»
Teppei pigiò il pulsante corrispondente e, quando l’ebbe recuperata, gli porse
la lattina fresca: «Grazie.» pronunciò Kuroko, aprendola e bevendone un primo
sorso; tacque qualche istante ancora, occhieggiando con apparente interesse la
linguetta metallica.
«Senpai, prima del liceo tu e il capitano non vi eravate mai incontrati sul
campo?» domandò, spostando lo sguardo e l’attenzione su Teppei, la cui
espressione era sorpresa dalla richiesta ma non infastidita dall’argomento,
visto il sorriso ancora presente: «No, ci siamo conosciuti il primo anno del
liceo. Ma pensavo che Hyuuga avesse raccontato a te e Kagami del club del
Seirin.» fece notare, sorseggiando la propria bevanda.
«Mh, sì. Ma in quell’occasione ha raccontato di
quando l’anno scorso avete visto anche la Teikou. Quindi in realtà ci eravamo
già incrociati. Ho pensato che potesse essere successo anche a voi, di giocare
contro alle medie, ad esempio.» ammise, spiegando meglio la sua curiosità e
chiarendo il proprio dubbio.
«Ah, ho capito. No, io e Hyuuga non abbiamo mai giocato l’uno contro l’altro
alle medie.» confermò a quel punto, osservandolo in silenzio prima di dargli
una pacca sulla spalla che fece sbilanciare leggermente il più giovane in
avanti, non aspettandosi il gesto: «Beh, ora comunque siamo tutti nella stessa
squadra, no?» disse semplicemente con un sorriso contento, come se per lui non
fosse concepibile una realtà diversa da quella attuale; Kuroko sorrise di
rimando, con la discrezione che gli era propria: credeva di capire perché,
inizialmente, Hyuuga avesse proposto proprio Teppei come capitano della squadra
l’anno precedente e non credeva fosse solo per una questione di capacità
tecnica. L’altro gli aveva sempre dato la sensazione di saper influenzare
positivamente l’intero gruppo con una sola parola, nonostante il Seirin
presentasse personalità diverse fra loro.
Teppei si rapportava nello stesso identico modo con ognuno di loro, eppure
riusciva a tenerli più uniti di quanto non fossero già prima del suo arrivo.
Era una sensazione alla quale il giovane non era ancora completamente abituato.
«Ne sono contento.» ammise quindi apertamente, forse in modo persino inaspettato.
Se Kiyoshi ne fu sorpreso non lo diede a vedere, limitandosi a proseguire il
cammino, pur senza fretta: «Anche io una volta ho pensato di lasciare il
basket. Più di una volta, ad essere completamente sincero.» ammise di punto in
bianco, portando Kuroko a sentirsi quasi in dovere di spostare lo sguardo su di
lui.
Certo, Hyuuga gli aveva accennato qualcosa parlandogli del suo primo approccio
con Teppei, ma mai avrebbe pensato di entrare in discorso con il diretto
interessato.
Non lo incalzò con una domanda, non subito, preferendo riflettere su come
porla: «…Non sembri il tipo, senpai.» ammise con quella goffa premessa «Per
l’infortunio?» domandò poi, anche se dubitava fortemente che fosse stato per
quello, visto quanto l’altro sembrava essersi sacrificato per recuperare e
tornare in forma il prima possibile, pur conscio di non essere completamente
guarito.
«No, alle medie.» replicò, confermando i sospetti dello stesso Tetsuya «Persino
prima della sconfitta contro la Teikou.»
Il club di basket delle scuole medie Shoei era conosciuto già da prima che
Teppei ne facesse parte: considerata una scuola d’élite, il suo club poteva
contare su una squadra forte composta di elementi validi.
Teppei era entrato a farne parte dal suo primo anno, con la passione per quello
sport forte quasi quanto lo sarebbe stata in futuro, nonostante tutto:
l’infortunio e le delusioni.
Era stato accolto insieme alle altre matricole, e con esse allenato senza
sconti di nessun genere, anzi: come era norma per i nuovi arrivati, era assai
probabile che per loro ci fossero dei giri di campo in più anziché in meno,
attrezzature da mettere a posto, schemi in più da imparare, rimproveri da
sopportare.
L’unica differenza fra lui e i suoi coetanei, era stata la velocità di crescita
non solo fisica, ma soprattutto di capacità: era stato chiaro fin troppo presto
che le altre matricole non sarebbero riuscite a stare al passo con lui – lo
avevano notato il capitano, l’allenatore e i senpai. Non ultimo, i compagni di
squadra.
Gli allenamenti si erano fatti anche più duri, ma in quel modo che un atleta si
sente giusto addosso, in un certo senso; uno che ti faceva uscire dalla
palestra senza nemmeno la forza fisica di strascicare i piedi a terra, ma con
la soddisfazione e la voglia di tornare ad allenarti il giorno dopo, e quello
dopo ancora.
A Teppei il basket piaceva ma, dopo il primo anno delle medie, sentiva di non
poterne quasi fare a meno: rientrava a casa motivato, pieno dell’entusiasmo
proprio non solo di chi vinceva con la squadra e nel campionato, ma di chi lo
faceva ogni giorno contro se stesso. Chi ricercava nell’allenamento una
perfezione quasi malata e rara da raggiungere, ma lo faceva in maniera sana e
ad ogni risultato, ogni centimetro guadagnato nel salto, si sentiva montare
dentro una foga che è solo degli atleti.
Niente la può eguagliare: è un mondo personale che, se non ci sei dentro, non
lo capirai mai.
Teppei ci aveva pensato molte volte, con il tempo, cercando di individuare più
per propria soddisfazione che per reale necessità una causa scatenante: alla
fine aveva creduto – forse per propria convenienza, ad un certo punto – che se
con il diploma i senpai del terzo anno non se ne fossero andati, qualcosa sarebbe
andata diversamente; anche se non era certo al cento per cento, dopotutto.
Al suo secondo anno, durante le vacanze estive, Teppei aveva quasi toccato il
picco del metro e ottanta.
Nello sport ci sono due
tipi di atleti di talento: quelli che ne sono fortemente coscienti o che
vengono resi tali, e che inevitabilmente diventano pieni di sé e delle proprie
possibilità sentendosi legittimati nel loro atteggiamento supponente, e quelli
consci di un talento acerbo che se coltivato potrebbe portarli lontano e che
per questo si allenano più di chiunque altro. Le capacità personali determinano
un ruolo che si assume: nello sport, nella società, a scuola o sul lavoro. Si
possono passare ore a sostenere quanto ci siano pari opportunità per tutti, ma
la verità è che in ogni ambiente e con le dovute proporzioni il talento viene
sempre considerato una marcia in più, anche a discapito di un comportamento
poco corretto.
La palestra che Teppei frequentava, non era affatto diversa, anzi: forse
proprio il fatto che fosse molto competitiva aveva agevolato l’innescarsi di
tutte quelle dinamiche che in assenza di un coach più che capace possono
portare una squadra alla rovina. La crescita in altezza e, in generale, nel
fisico aveva aumentato ancora di più capacità tecniche che durante il primo
anno si erano mostrate allo stato grezzo ancora. La preparazione atletica, il
costante e controllato allenamento fisico e l’accuratezza dell’esercizio quotidiano
avevano portato ancor più alla luce un talento evidente, secondo a pochi studenti
della sua età; e, come tutti gli atleti che notano un miglioramento sempre
maggiore, Teppei si sentiva spronato a fare ancora di più.
Inizialmente non aveva dato il giusto peso ai piccoli segnali di ciò che stava
davvero succedendo: ottimista e portato a vedere il meglio nelle persone –
complice forse anche l’educazione data dai suoi nonni –, aveva soltanto creduto
che fosse il nervosismo per l’avvicinarsi delle partite, per l’essere ormai
studenti del secondo anno piuttosto che matricole.
Per l’avere più responsabilità.
«Aah, il coach deve essere impazzito, mi fa male tutto!»
«Non ci può fare molto, “il talento va coltivato!”, no?» scimmiottò un altro
compagno; Suzuki, visibilmente stanco, si sedette sulla panchina nello
spogliatoio assumendo un’aria seccata.
Lanciò un’occhiata di sbieco a Teppei.
«Tch. Beh, non siamo tutti Mr. Talento, qui.» sputò fuori, piegandosi in avanti a slacciare le
scarpe.
Lo aveva detto istintivamente, pronunciato senza trattenersi.
Come se Kiyoshi non fosse stato lì, a pochi passi da lui.
Teppei ci aveva creduto
davvero, che in uno sport come il basket il lavoro di squadra fosse la base di
tutto, e forse era davvero così; per questo quando la squadra si sgretolava
davanti ai tuoi occhi era come non avere più il terreno sotto i piedi.
Ma era una cosa che potevi combattere. Perché la verità era che una squadra
poteva vincere anche senza andare d’accordo e loro non facevano eccezione:
anche dopo quell’episodio, non era importato che l’aria in palestra si fosse
fatta più pesante e che il coach non sembrasse averlo notato – e se lo aveva
fatto, semplicemente non era intervenuto –, perché le squadre forti erano così.
Le capacità individuali facevano fronte ad un lavoro di squadra o un’armonia di
gruppo inesistenti.
Se si fosse trattato solo di quello forse, nonostante per indole non potesse
accettarlo completamente, alla fine Kiyoshi si sarebbe potuto adeguare in
qualche modo; invece la squadra c’era, così come un gruppo tutto sommato solido
alla base, sebbene non completamente affiatato.
Ma quando la squadra è contro di te, non la puoi combattere: puoi solo cercare
di restare a galla come meglio ti riesce.
La situazione era sfuggita di mano praticamente da subito, proprio perché non
si trattava di un disaccordo in classe o tra semplici amici, ma di uno che
aveva la palestra come palcoscenico: la disciplina dello sport aveva impedito
che tutto prendesse la piega dell’atto di bullismo in senso fisico e fine a se
stesso, come avrebbe potuto fare in altri contesti. Eppure, per certi versi,
non era stato positivo; non c’era nulla di peggio, per un atleta, che entrare
in palestra e desiderare già di esserne fuori.
Era debilitante non solo a livello di stress, ma anche moralmente; Teppei aveva
preso ad allenarsi cercando di farvi meno caso possibile e inizialmente non era
stato così difficile: avvertiva di tanto in tanto occhiate non esattamente
amichevoli, ma duravano mai più di qualche istante e – per una misteriosa
alchimia sportiva, forse – in campo i passaggi e gli schemi erano riusciti come
al solito.
Fin troppo ingenuamente, Teppei aveva creduto che fosse soltanto un malinteso o
un momento che non sarebbe durato a lungo, e solo dopo aveva capito quanto si
fosse sbagliato: era solo la voglia di vincere che li teneva uniti sul campo da
basket, e l’amore per lo sport.
Oltre quello, non c’era niente.
Ma la cosa più sconfortante era stata la presa di coscienza che non era sempre
stato così: qualcosa c’era, ma era stata calpestata, o si era persa… e in un
modo che non riusciva a comprendere, o che semplicemente era inaccettabile
anche per chi avesse avuto le migliori intenzioni nel riappacificarsi con dei
compagni di squadra, era colpa sua.
Qualunque cosa li avesse portati avanti uniti fino ad allora, lui l’aveva
distrutta.
E non sapeva nemmeno come.
Senza la minima idea di come riparare ad un errore che non si era nemmeno reso
conto di aver fatto, non era stato in grado di recuperare il briciolo di
rapporto che forse avrebbe potuto salvare; i coetanei e i senpai, soprattutto,
sembravano aver fatto gruppo in un modo tale che sembrasse niente più
dell’essere maggiormente affiatati fra loro che con altri. Un modo sicuro di
escludere senza farlo apparire voluto.
Quanto ai kohai del primo anno, non aveva potuto davvero biasimarli per non
aver preso le sue parti: mettersi contro un’intera squadra di senpai (e
titolari) per uno solo di loro non sarebbe stato saggio, ma soprattutto non
sarebbe servito a nulla.
Così, entrare in palestra giorno dopo giorno era diventato detestabile. Eppure
era riuscito a trovare ogni volta la motivazione giusta per farlo – allenarsi,
migliorare, affiatarsi almeno con i compagni più giovani; forse le cose
sarebbero migliorate lentamente da sole, giocando e vincendo.
«Avete preso tutto dagli armadietti? Oggi è l’ultimo giorno di allenamento per
quest’anno!»
«Abbiamo controllato! Kiyoshi-senpai, vuoi che chiudiamo noi? Gli altri senpai
sono già andati—»
«Hamada!» lo aveva ripreso un altro dei kohai, l’espressione colpevole sul
viso, e Teppei aveva capito e si era limitato a sorridere, perché qualunque
cosa avesse voluto dire non era a loro che avrebbe dovuto rivolgere determinate
parole.
«No, il professore mi ha chiesto di occuparmene e consegnargli le chiavi.»
L’ultimo allenamento del secondo anno delle medie, lasciando al responsabile le
chiavi di uno spogliatoio che non avrebbe visto per un intero mese, Teppei
aveva avuto la sensazione di aver chiuso un’altra porta che sarebbe stato
difficile aprire di nuovo.
Rientrare in palestra, con
l’inizio del nuovo anno scolastico e la ripresa delle attività del club era
stato difficile: durante le vacanze aveva persino preso in considerazione di
abbandonare il basket, e il solo pensarci lo faceva vergognare di se stesso.
Era stato tanto debole da ritrovarsi con le scarpe tra le mani, quasi del tutto
deciso a disfarsene e mettere fine fisicamente alla sua esperienza sportiva;
forse la sua fortuna era stata essere fermato dalla persona da cui si sarebbe
aspettato meno un consiglio sportivo: sua nonna. Certo, in realtà parlare di
“consiglio sportivo” sarebbe stato sbagliato, perché di tecnico non aveva
nulla: tuttavia, niente di ciò che lei aveva detto gli aveva fornito un
appiglio per giustificare la propria resa, anzi. Non si poteva piacere a tutti,
specialmente se un gruppo (o una squadra) era numeroso e comportava la presenza
di tante persone molto diverse fra loro, senza contare che lui – Teppei – non
aveva mai provato a chiedere cosa ci fosse che non andava, a prendere di petto
la situazione. Aveva semplicemente creduto che sarebbe passata e che non fosse
nulla di serio, e aveva trascurato la questione nell’infantile speranza che
tutto si sistemasse da sé; e, quando questo non era accaduto, si era sentito
perso incolpando lo sport che amava di più.
Ed era stato quello ad avergli dato la spinta: nonostante tutto, amava il
basket e non sentiva davvero il desiderio di abbandonarlo. Al contrario, il
pensiero di lasciare il campo – specialmente per una questione che non aveva
ancora provato a risolvere – gli era
insopportabile.
Per questo aveva voluto tentare ancora una volta: ma ottenendo in risposta
niente più che sguardi perplessi, quasi nessuno dei compagni rimasti avesse
idea di cosa stesse dicendo, si era sentito stupido e soprattutto non aveva
potuto dire né fare nulla per sistemare le cose.
Come avrebbe potuto chiarire un malinteso che gli altri fingevano non
esistesse?
Era stato un fallimento su tutta la
linea.
Il terzo anno delle medie
era stato un vero disastro: era ormai quasi vicino all’altezza spropositata di
un metro e ottantasette, con una corporatura che lo agevolava pur senza
privarlo di una più che discreta agilità e capacità atletica ed una tecnica
superiore allo standard per la sua età.
Anche solo per la buona forma fisica, la predisposizione e l’allenamento
costante, avrebbe dovuto essere – quello – il suo anno migliore. Non avrebbe
saputo dire con esattezza se i rapporti tra i suoi compagni di squadra fossero
frutto dell’anno precedente, nonostante ormai fossero rimasti solo i suoi
coetanei e i senpai si fossero ormai diplomati, o se il tutto fosse ormai più
“naturale”, un tacito accordo divenuto abitudine. Come quando per molto tempo
si esce con le stesse persone, magari per un progetto in comune o forzati
comunque dall’esterno o dagli eventi, e si finisce irrimediabilmente a
condividere abbastanza cose perché lo stare insieme non appaia più una
forzatura.
Allo stesso modo, il formarsi di quella che era stata né più né meno di una
cerchia chiusa l’anno precedente, aveva lasciato dietro di sé dei giocatori
abituati l’uno alla presenza dell’altro; uno di quei gruppi in cui è sempre
difficile inserirsi, simili ad una squadra o una classe affiatata a cui ci si
aggiunge in ritardo per un trasferimento, trovando rapporti già consolidati.
Era come cercare di intrappolare l’aria fra le mani: finiva immancabilmente con
lo scivolare via e non restava niente.
Non c’era mutismo, in campo, ma comunicazione ed era una delle cose peggiori:
dava la sensazione di appartenenza, ma lontani dal campo non c’era nulla a cui
appartenere.
Per quello non aveva smesso, anche se aveva impiegato molto tempo a rendersene
conto, tanto che quando lo aveva capito lui stesso non era stato davvero in
grado di capacitarsi della cosa.
Se nonostante tutte le volte in cui l’impulso di buttare via le scarpe da
basket non lo aveva fatto davvero, se aveva continuato ad andare in palestra
giorno dopo giorno, se non aveva mai preso la decisione di mettere il coach di
fronte al fatto compiuto – conscio che non sarebbe servito ad altro che a
peggiorare la situazione – era stato per un unico motivo: non riusciva a stare
fuori dal campo. Aveva sviluppato quella dipendenza sana per il corpo ma
pericolosa per lo spirito di chi sente la propria persona appartenere ad un
qualcosa in particolare, più che ad un luogo, qualcosa che diventa ossessione
prima ancora che ci si possa rendere conto del danno a cui si sta andando
incontro.
Non era tanto lo sport, il problema, ma l’approccio ad esso e quando Teppei lo
aveva capito era già troppo tardi: era già incapace di sentirsi soddisfatto
lontano dal canestro, di sentire di fare qualcosa di buono come quando correva
fino a che i polmoni sembravano bruciare alla ricerca di ossigeno; non era più
in grado di pensare a se stesso lontano dal basket.
Si sentiva di storie simili, nelle chiacchiere da spogliatoio, soprattutto ad
alti livelli – e trapelavano sempre, in un modo o nell’altro – ma alla fine
aveva notato che era qualcosa che ti sentivi dentro, te ne rendevi conto tu per
primo.
Voglio giocare.
Voglio allenarmi.
Non voglio ancora smettere.
Era come aver bisogno di respirare; ma la vera dipendenza che creava, quella
grave, quella per cui non c’era rimedio era un’altra: un pensiero errato che si
formava in silenzio, che ti si insinuava sotto la pelle e nel cuore, che si
annidava come il male e ti consumava lentamente – ma al tempo stesso faceva di
te uno con le carte in regola per spiccare su tutti – e che poi prendeva la
forma precisa di una frase e quella finiva per ripetersi nella tua testa
all’infinito come una preghiera, o come il segno di una follia sana.
Senza questo non sono niente.
La mente disciplinata di uno sportivo si rivelava per quella che era: bisognava
immaginarsela come dei frutteti, con alberi piantati perfettamente in ordine,
in un’organizzazione quasi maniacale; poi, dove meno te l’aspettavi stava il
marcio, che non infettava tutto, ma in qualche modo te lo ricordavi sempre –
non ti rimaneva in mente che novantanove alberi avevano dato frutti, no,
ricordavi solo quello che era marcito.
Era quello il meccanismo che si azionava, e a quel punto non lo fermavi più.
Perciò aveva continuato a tornare in palestra, ad allenarsi, ad entrare in
campo e a cercare di vincere, partita dopo partita e sforzandosi anche oltre il
limite.
«Vince la squadra dello Shoei!»
Anche se non c’era nessuna squadra.
«Bel passaggio!»
Anche se era solo pur nel mezzo di un gruppo di persone e ad unirli c’era solo
una palla passata per uno scopo comune.
«Aah— non vedo l’ora di mangiare qualcosa, è sempre una soddisfazione dopo aver
vinto.»
«Dai, andiamo a festeggiare tutti insieme, che almeno ci si diverte!»
Anche se non c’era stato niente di divertente a parte la sensazione di aver
visto i propri sforzi ripagati dal buon esito di una partita: che valore aveva,
una vittoria come quella?
Divertente? Era stato uno strazio!
Kuroko lo osservò, l’espressione che – nonostante non fosse lui il tipo da
mostrare apertamente i propri pensieri – non poté non mutare nella più completa
sorpresa. Spostò però lo sguardo da Teppei alla lattina che teneva fra le mani,
ormai vuota, seduto su un muretto dove si erano decisi infine a sostare per
poter parlare più comodamente.
Non credeva che fosse il caso di fare domande, sebbene il solo fatto che
Kiyoshi Teppei potesse aver pensato anche una sola volta nella sua vita che
praticare il basket fosse uno strazio era, di per sé, spiazzante.
«Poi abbiamo incontrato la Teikou.» riprese però il maggiore, il tono placido
come se nulla lo avesse minimamente turbato e gli fosse sfuggita la tacita
reazione di Tetsuya «Perdere fu l’ennesima batosta. Se la squadra è unita non è
la fine del mondo, ma nel nostro caso… ancora prima della fine, si erano già
arresi tutti quanti. E nelle condizioni in cui eravamo – come rapporti intendo
– non potevo sperare nel supporto e gli sport come il basket non puoi giocarli
da solo. Non importa se hai talento o meno.» concluse, prendendo un ultimo
sorso della propria bevanda, svuotando così la lattina.
A quelle parole, Kuroko gli rivolse nuovamente totale attenzione: benché si
fosse ormai integrato alla perfezione nel Seirin e i suoi attuali compagni di
squadra fossero tutto ciò che avrebbe potuto desiderare in ambito sportivo, non
era facile venire da anni come quelli alla Teikou e non stupirsi nel sentire
qualcuno considerare relativamente poco il fattore talento.
Eppure era un’altra la cosa che lo stupiva: che Teppei, nonostante tutto, non
solo avesse continuato ad amare il basket in quel modo, ma che fosse riuscito a
trovare la forza di credere nel concetto di squadra al punto tale da essere
pronto alla quasi totale abnegazione verso la stessa – senza che nemmeno un
infortunio o la prospettiva di avere davanti a sé solo un anno di gioco ancora
potesse farne vacillare la determinazione quanto la forza di volontà.
«Te ne sei accorto anche tu, però, no?» lo incalzò Teppei con un sorriso
gentile, un incurvarsi di labbra che nella mente del più giovane era
inconsapevolmente registrato come espressione propria dell’altro, quasi un
segno di riconoscimento; inclinò appena la testa, con fare perplesso e
incuriosito insieme.
Intuendo che potesse non aver compreso la domanda, Kiyoshi rise: «Intendo dire,
ti sei accorto che il talento non c’entra niente.»
«…Con il risultato sportivo?»
«No, non direi. Con quello c’entra abbastanza, è inevitabile. Parlavo del
divertimento: quello non ha a che fare con cose come il talento. Certo, puoi
segnare punti in meno e puoi perdere più spesso. Però, se non pensi alla rabbia
e al dispiacere per la sconfitta, magari a mente fredda… è divertente, no? Il
basket. Se hai una squadra che ti supporta, e non è qualcosa che guadagni con
il talento o che ti è dovuto solo se sei più capace: la fiducia o
l’affiatamento sono cose troppo complicate perché basti saper fare un canestro
in più. Per questo ci credevo davvero, quando ho detto a Hyuuga che “non
importa se hai talento o meno”. Non stiamo molto meglio adesso che alle medie?»
concluse con una semplicità persino fuori luogo, in un certo senso, propria di
un ragazzino e che non sembrava accostarsi bene alla sua persona dopo quel
racconto.
Ad un certo punto Kuroko si era persino pentito di aver introdotto
involontariamente l’argomento, eppure lo capiva meglio di chiunque altro,
forse: bastava guardare alla realtà a cui lui stesso aveva assistito.
«Quindi, senpai» riprese, spinto da un’ultima curiosità, mentre si alzava «per
te quanto conta il talento?» chiese, osservandolo.
Teppei si mise in piedi a sua volta, allungandosi da un lato per gettare la
lattina nell’apposito contenitore per il metallo e facendo una pausa fin troppo
lunga, durante la quale ripresero a camminare. Kuroko non lo incalzò oltre, ma
quando furono ad un bivio e il più giovane stava per salutare congedandosi per
prendere la propria strada, Kiyoshi lo anticipò: «Penso dipenda da persona a
persona. Diciamo che per me è un… dieci per cento?» azzardò, l’espressione
divertita «Ma rispetto all’allenamento, alla squadra e alla dedizione o a
quanto può piacerti quello che fai non credo sia essenziale.» ammise, e Tetsuya
non riuscì a non sorridere, seppure con la discrezione che gli era propria.
«Non batterete la fiacca solo perché è una partita amichevole. Vero, Hyuuga-kun?» domandò Riko, il
sorriso sulle labbra niente più di una semplice apparenza che nascondeva la ben
più seria e sottile minaccia: “non azzardatevi a prendere la cosa sottogamba o
vi farò strisciare a terra al prossimo allenamento”.
Hyuuga ignorò il brivido che gli percorse la schiena e si rivolse ai compagni;
al fischio dell’arbitro e dopo il grido d’incoraggiamento di gruppo fu il primo
a muoversi verso il campo, anticipando Kagami, Kuroko, Teppei e un tremante
Furihata.
«Ohi, smetti di tremare come una foglia!»
«Kagami-kun, così peggiori la situazione.»
«M-M-Ma il coach ha detto che… che—» balbettò
esitante, non sapendo se guardare verso la panchina o verso Hyuuga – dubbio
legittimo, visto che era probabile sia lui che l’allenatrice lo avrebbero
minacciato col solo sguardo se non avesse smesso di agitarsi prima della
contesa di inizio gara.
«Ah, non preoccuparti di Riko.» intervenne Teppei,
una pacca sulla schiena della matricola, forse anche un po’ troppo energica
visto lo sbilanciarsi in avanti dell’altro; Hyuuga fu subito di fianco a
Kiyoshi: «Non preoccuparti un corno!» rimbeccò.
«Andrà bene.» assicurò da inguaribile ottimista, con il solo ed unico risultato
di innervosire il capitano del Seirin, e forse lo stesso Furihata, arrivando
finalmente nella propria posizione del campo.
«Let’s have fun.»