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Autore: Nihal_Ainwen    23/07/2013    3 recensioni
Kim Jongin è un abile killer in cerca di vendetta;
Park Chanyeol un normale studente universitario;
Oh Sehun è il figlio viziato del capo di una banda di criminali;
Byun Baekhyun è semplicemente autodistruttivo.
Cosa avranno in comune? Niente, apparentemente.
Genere: Angst, Dark, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, Crack Pairing | Personaggi: Baekhyun, Baekhyun, Chanyeol, Chanyeol, Kai, Kai, Sehun, Sehun
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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[Okay, devo fare un altro piccolo angolo autrice, scusate. Questa volta però è per chiedervi un parere: preferite un aggiornamento ogni cinque giorni (come in questo caso), o settimanale? Perché io ho praticamente tutta la storia già scritta, e per me sarebbe davvero la stessa identica cosa. Fatemi sapere, in qualche modo. /Anche in questo capitolo vengono trattate tematiche delicate, quindi vale lo stesso discorso di quello precedente./Ah, una piccola informazione, che è d’obbligo darvi: ogni capitolo è scritto dal punto di vista di un personaggio diverso. Ad esempio, nel primo era Baekhyun a narrare, in questo sarà Sehun e nel prossimo ancora Chanyeol. Ora non vi tedio più. XOXO]






 “Cosa diamine ci faccio io in un posto simile?”
Pensai, non appena mi trovai all’interno del campus universitario più prestigioso –e quindi costoso- di tutta la capitale della Corea del Sud. Ci ero nato a Seoul e ci ho sempre vissuto, tanto che ormai cominciavo quasi a considerarla come la madre che non avevo mai potuto avere. E nonostante mia madre fosse morta dandomi alla luce, di sicuro doveva aver tenuto a me più di mio padre, per questo continuavo a “parlare” con lei piuttosto che con lui. L’avevo sempre fatto, sin da quando ho ricordo, parlare da solo s’intende. O almeno è quello che crede la gente, perché in verità io parlo a mia madre e, se sto particolarmente attento, mi sembra quasi di sentirla rispondere.
Purtroppo però non era quello il momento di parlare con lei, dato che dove destreggiarmi in mezzo a quella folla per trovare la segreteria o qualsiasi altro posto dove mi dicessero che cosa fare. Tutte le persone a cui provavo a chiedere sembravano non vedermi, cosa a cui non ero affatto abituato e che mi stava mandando in bestia. Chi erano loro per ignorarmi? Sentivo la frustrazione salirmi in corpo, mentre cominciavo a guardarmi intorno con aria omicida, sperando che potessero tutti rompersi qualcosa. Ad agosto, col caldo torrido, prima di dare l’esame più importante della loro misera vita: l’incubo di ogni universitario che si rispetti. Oppure gli auguravo di essere semplicemente bocciati volta dopo volta alla stessa sessione, con un professore infame che manco ti guarda in faccia.
-Ti serve aiuto?- mi sorprese una voce, facendomi sobbalzare  e riscuotendomi dai miei pensieri di vendetta.
-Finalmente qualcuno che ci vede.- esclamai voltandomi, per poi rimanere paralizzato davanti al proprietario della voce profonda che mi aveva fatto saltare.
-Più o meno, diciamo che non ci vedo benissimo.- ribatté il ragazzo che, per mia immensa sfortuna, portava un paio di occhiali neri, del tipo che andavano molto di moda in questo periodo.
-Mi dispiace, non voleva essere una battuta.- mormorai imbarazzato, maledicendomi per essere sembrato scortese con l’unico che era stato gentile con me da quando mi trovavo là.
-Allora, sei nuovo vero?- mi chiese lui, alzando le spalle e sorridendo delle mie scuse, per niente offeso o risentito.
Aveva un bel sorriso, ampio, che mostrava la dentatura perfettamente bianca che si nascondeva sotto un paio di labbra rosee. In realtà, i lineamenti delicati e la guance morbide e lisce, senza nemmeno un accenno di barba, gli davano quasi un’aria da folletto, accentuata dalle sue strane ma simpatiche orecchie. Spuntavano tra la chioma castana che gli ricadeva ai lati del volto, arrivandogli quasi fino alla linea delle spalle. Aveva gli occhi grandi, molto grandi, soprattutto per gli standard di noi orientali, che molto spesso ci ritrovavamo ad avere due fessure. La voce era l’unica cosa che “stonava” col suo aspetto da pixie dispettoso, perché era incredibilmente bassa e profonda, decisamente molto da uomo e poco da folletto.
-In realtà no, sto cercando una persona che vive qua.- lo informai, meravigliandomi che non avesse ancora storto il naso davanti al mio colore di capelli o ai miei vestiti.
-Uhm, vediamo se posso aiutarti io. Se no, poi ti accompagno alla reception.-disse, facendomi cenno di spostarci da lì, dove rischiavamo continuamente di essere investiti da studenti o professori indaffarati.
-E’ mia cugina,se l’hai vista te la ricordi di sicuro.- cominciai seguendolo verso una panchina nel cortile interno. –E’ mezza canadese, si chiama Oh Lily.- proseguii prima che lui si bloccasse all’improvviso, rischiando di farmi cadere a faccia avanti sulla sua schiena.
-L’ho appena salutata in realtà, andava molto di fretta. Ha detto che doveva cambiarsi per una festa in maschera.- mi spiegò guardandomi più attentamente, forse cercando qualche somiglianza. –Tu devi essere Oh Sehun.- indovinò lui, lasciandomi sbalordito a guardarlo con la bocca semi-dischiusa.
-E tu che ne sai?- gli domandai in ansia, preoccupato che la mia pessima reputazione fosse arrivata addirittura fin lì.
-Siamo amici, io e tua cugina. Frequentiamo la stessa facoltà, solo che lei è un anno avanti, e mi ha aiutato molto quando sono arrivato.- mi raccontò lui, mentre io realizzavo che doveva avere al massimo tre anni più di me. –E’ stata lei a parlarmi di te, è preoccupata per...come vivi.- mi confessò con tono interrogativo.
-Non sono affari suoi.- lo liquidai distogliendo lo sguardo, chiedendomi quanto Lily sapesse in realtà al momento.
-Tantomeno miei.- concordò lui alzando le spalle. –La vedi quella palazzina lì?- si riscosse, indicandomi con la mano un edificio dall’altra parte del giardino. –Lei sta lì: quarto piano, interno 13. Hai capito?- concluse, tornando a sorridermi gentile come in precedenza.
Mi limitai ad annuire e a ricambiare il sorriso, prima che il ragazzo più alto si allontanasse salutandomi con la mano, in direzione di un altro ragazzo seduto sul bordo della fontana al centro del cortile.
 
Mi trovavo seduto sul letto di mia cugina, intento a fissare il mio stesso cappello poggiato lì affianco, mentre mi raccontava tutta presa la sua vita universitaria. Anche se lei aveva quasi ventisei anni ed io appena ventidue, i ruoli erano sempre stati invertiti: io ero sempre sembrato il più grande e lei la più piccola. Per questo mi ero auto-imposto di venirla a trovare al campus almeno una volta, per farla contenta e per farle credere che non ero un delinquente. Ovviamente la seconda parte era pura illusione, non avevo avuto molta scelta nella mia vita in quel campo, però non volevo che lei lo sapesse ne tantomeno che ci finisse in mezzo. Essere il figlio di uno dei capi della malavita organizzata, aveva i suoi pro e contro, forse più contro che pro se si faceva bene il conto.
-E quindi ti stai preparando per una festa.- la interruppi, mentre blaterava del fatto che, l’altro giorno, una sua amica le avesse rovesciato addosso una tazza di caffè bollente.
-Come l’hai capito?- esclamò brandendo la piastra per capelli come se fosse una spada, puntandomela contro all’altezza del petto, stando però attenta a non scottarmi.
-Ho incontrato un tuo amico di sotto, Park Chanyeol, mi ha detto lui dove trovarti.- le rivelai sorridendo per i suoi modi tuttora infantili, mentre mi tornavano in mente i pomeriggi passati ad ascoltare le sue storie.
-Davvero? E’ un ragazzo tanto caro, sto provando ad insegnargli che ad essere troppo buoni ci si rimette sempre.- sospirò lei riprendendo ad acconciarsi i capelli.
-Se non fosse per lui, starei ancora maledicendo gente a caso nell’atrio.- le confermai passandomi una mano tra i capelli. –Ha detto che la festa è in maschera...- citai, sempre più preoccupato per l’identità di questa famosa festa.
-Esatto, e per mia fortuna SeoYoon può accompagnarmi in macchina, o non avrei saputo come fare con il vestito che mi sono scelta.- ridacchiò lei, nominando di nuovo la ragazza del caffè. –Hai scelto un giorno sfortunato per farmi una sorpresa, Sehunnie.- sbuffò lei, usando il vezzeggiativo che mi affibbiava sin da quando eravamo bambini.
-Potrei accompagnarti io.- le suggerii, più per sapere dove e a che ora fosse la festa che per vera intenzione di farlo.
-Ma no dai, è fuori Seoul, lontanissimo.- tagliò corto lei, dandomi però l’informazione che tanto desideravo avere.
Tirai un sospiro di sollievo rilassandomi notevolmente, abbandonando la schiena sul letto sorridendo sollevato: grazie al cielo non ci saremmo ritrovati alla stesso party.
-Prima di andartene, vuoi vedere il mio vestito?- chiese lei entusiasta, mettendo via la piastra e alzandosi per andare verso l’armadio, dove immaginavo fosse rinchiuso il suo mirabolante costume.
-Ovvio, per chi mi hai preso? Sappi che se non mi piace non ti faccio uscire.- la minacciai ridacchiando, tirandomi di nuovo su a sedere per poter ammirare l’abito.
Più che un vestito da sera, quello che teneva in mano mia cugina per la stampella, sembrava un vestito da sposa, e anche di quelli costosi fatti su misura. Era completamente bianco, con in corpetto tempestato di Swarovski azzurro pallido e un velo di tulle, che dava un effetto di vedo/non vedo al bagliore che emanavano le pietre sotto la luce della lampada. La gonna vaporosa scendeva a balze, fermandosi poco sotto il ginocchio davanti mentre dietro continuava fino a creare uno strascico, ornato da glitter argenteo e candide piume sui lati.
-Che dici? Posso uscire?- mi prese in giro lei, appendendo la stampella all’anta aperta dell’armadio. –E non hai ancora visto le scarpe e la maschera Hunnie.- ghignò lei, volteggiando fino alla scrivania.
Poco dopo mi piazzò davanti alla faccia un paio di scarpe argentate dal tacco vertiginoso, che avrebbero potuto fare invidia ad una sfera stroboscopica da discoteca per quanto brillavano intensamente, dandomi fastidio agli occhi.
 
Mio padre aveva sul serio esagerato questa volta: se non fosse stato mio parente stretto, gli avrei sparato su un piede all’istante. Purtroppo però lo era, ed io ero il suo unico erede, nonché speranza di far sì che il suo dominio durasse anche dopo la sua morte e che il suo nome fosse ricordato. E, secondo il mio modesto parere, lo stava facendo in un modo decisamente sbagliato. Sapevo che era eccentrico e non era raro che organizzasse feste in maschera a tema in casa nostra, ma prima di oggi non aveva mai preteso che io mi travestissi come i nostri ospiti. Ovviamente avevo provato a protestare, ma era servito solo a farmi mollare un manrovescio così forte da buttarmi a terra e lasciarmi il livido. Lui aveva semplicemente sbraitato di truccarmi in modo che non si notasse, di portami via e di costringermi a vestirmi se necessario. Gli avevo sputato e lui aveva riso, cosa che capitava spesso; poi mi ero alzato e me ne ero andato a testa alta, con in mano la scatola di sartoria che conteneva il mio costume, mentre lui mi urlava dietro che qualcosa da lui l’avevo ripresa. Io rabbrividii inorridito, pensando se sotto le sue parole ci fosse davvero un fondo di verità, se davvero somigliavo in qualcosa a quel verme schifoso.
Arrivato finalmente in camera mia osservai attentamente il mio viso allo specchio, constatando che l’ematoma sarebbe stato difficile da nascondere, a meno che il trucco che avevano in programma per me non fosse qualcosa di veramente pesante ed elaborato. Poggiai il contenitore che avevo ancora in braccio sul letto, aprendolo per osservare quale orrore avrei dovuto indossare per fare contento l’unico genitore che avevo. Tirai fuori il vestito stendendolo sul letto, guardando schifato un paio di pantaloni super attillati color turchese e, ancora peggio, una elaborata camicia di seta, con il polsini e il colletto stretti da dei bottoni blu lucidi. La cosa che però mi infastidiva di più della parte superiore, era la trasparenza e l’impalpabilità di quel tessuto, che variava di colore in tutte le sfumature del blu e del verde acqua: anche le piume degli stessi colori, attaccate sulle spalle e sulla schiena, erano più sopportabili della sensazione di essere mezzo nudo. L’unica cosa normale di quel completo erano un paio di scarpe eleganti nere, dato che la maschera che avrei dovuto indossare era piena di brillantini e piumette sempre sulle tonalità del verde e del blu acceso. Iniziai a spogliarmi controvoglia, con la spiacevole sensazione di essere solo qualcosa che mio padre stava cercando di vendere a qualcuno, e con il sospetto che quel qualcuno non mi sarebbe piaciuto nemmeno un po’. Una volta vestito, scrutai la mia immagine nello specchio che avevo appeso sull’anta dell’armadio in vecchio legno scuro, dove parecchi anni fa avevo incollato con lo scotch una delle poche foto di me e mio fratello insieme. Era morto giovane, quando io avevo solo tredici anni, e quasi non mi ricordavo più il suono della sua voce e il suo strano modo di ridere quando facevo i capricci. Era di parecchio più grande di me, ma ciò non gli aveva impedito di morire come un cane in mezzo ad una strada, con un colpo di revolver dritto in una tempia. Ero sempre stato più furbo di lui e, secondo mio padre, avevo anche una mira migliore e meno sensi di colpa di “quello smidollato”. Una bella famiglia. Proprio mentre stavo per cadere in pezzi davanti al mio riflesso, che mi faceva apparire quasi come una schifosissima puttana di alto borgo, bussarono forte alla mia porta.
Andai ad aprire tornando di nuovo impassibile, e mi trovai davanti una ragazzetta magra e spaurita che doveva avere come minimo tre anni meno di me, con in mano quelle che dovevano essere trousse di trucchi. Mi scostai da davanti all’uscio per farla passare e lei sgusciò all’interno veloce come un topo impaurito, guardandosi intorno e rimanendo sulla difensiva. Probabilmente si aspettava cadaveri e congegni di tortura, invece trovò solo un letto ad una piazza e mezza, il vecchio armadio con lo specchio, una scrivania e una cassettiera mezza sfondata. Mi guardò meravigliata, per poi farmi cenno con la testa di sedermi sul bordo del letto, per permetterle di fare il suo lavoro. Ubbidii semplicemente per non farla punire, perché sapevo che se mi fossi ribellato il destino peggiore sarebbe stato senz’altro il suo. La osservai aprire alcuni sacchetti con mani tremanti e rovesciarne il contenuto sul materasso, studiando attentamente i miei vestiti e la maschera poggiata lì affianco. Quando finalmente decise cosa usare, ripose accuratamente il resto dei trucchi nei loro contenitori, respirando profondamente prima di guardarmi in viso. Il livido parve proprio non piacerle, poiché storse il naso andando a recuperare qualcosa che invece aveva deciso di mettere via poco prima. La vidi concentrarsi sul mio viso come se non fossi un essere umano, ma semplicemente una bambola, mentre cominciava ad impiastricciarmi la faccia con non so bene che cosa di umido e fresco. Scoprii solo in seguito che si trattava di fondotinta da teatro, per coprire per bene l’ematoma che avevo sulla guancia. Nei minuti seguenti filò tutto liscio, dovetti solo rimanere fermo e in silenzio mentre lei muoveva le mani sul mio viso esperta. Aveva quasi finito, quando successe la cosa più orribile che sarebbe potuta accadere in un momento simile: mentre mi stava mettendo la matita nera, scivolò sul pavimento di marmo, infilandomi dolorosamente le punta nell’occhio aperto. Urlai di dolore senza nemmeno rendermene conto, pentendomene immediatamente dopo, quando il mio sguardo sfocato dalle lacrime si posò sul viso della ragazza.
-Tu sta zitta.- le intimai alzandomi in piedi, mentre uno dei famosi “amici” di mio padre irrompeva nella mia stanza.
Lo vidi prenderla per i capelli prima di poter fare qualsiasi cosa, la poverina che si dimenava e scalciava piangendo. Non mi ricordò cosa gli dissi di precisò, qualcosa come “lasciala stare, non ha fatto nulla”, ma lui non mi ascoltò e mi rise in faccia, sibilando che avevo il cuore troppo tenero come “quella troia di mia madre”. Non lo sapeva, ma con quell’insulto aveva segnato la sua condanna a morte. Una morte dolorosa.
Aveva quasi raggiunto la porta quando gli sparai il primo colpo ad un polpaccio, appena sotto la giuntura del ginocchio, che lo fece cadere a terra ululando di dolore. La presa sui capelli della ragazza che mi aveva truccato, si allentò notevolmente, facendo in modo che quest’ultimi gli sfuggissero tra le mani e che lei potesse allontanarsi. La vidi di sfuggita nascondersi sotto la scrivania e coprirsi il viso con le mani, spaventata a morte da quello che stava succedendo davanti ai suoi occhi sgranati. Mi avvicinai a passo deciso sparando di nuovo, questa volta colpendogli precisamente una spalla, mentre lui si rialzava in piedi grazie alla rabbia che provava per essere stato colpito da “un ragazzino viziato”. Quando fui a portata ti gancio, tentò inutilmente di assestarmi una di quelle sveglie micidiali che se non ti uccidono poco ci manca, peccato che il dolore lo facesse barcollare e gli annebbiasse la vista. Non mi ci volle molto ad evitarlo e a sparargli di nuovo, questa volta sul ginocchio della gamba ancora sana: ormai era costretto a terra. Mi guardò con ira dall’alto in basso, sputando a qualche centimetro dalle mie bellissime scarpe nere eleganti, fresche di negozio per cui sicuramente mio padre aveva speso un capitale.
-Voglio che tu impari una cosa prima di crepare.- dissi freddo poggiandogli la pistola sulla fronte. –Mia madre non era una puttana.- affermai gustandomi il suo sguardo terrorizzato, ora che aveva capito che l’avrei ammazzato sul serio, prima di premere il grilletto stando attento a non sporcarmi i vestiti.
 
-Ma come cazzo ti hanno conciato?- sbraitai una volta raggiunto il mio miglior amico, zigzagando tra gli invitati alla festa in sfarzosi costumi da milioni e milioni di won.
-In teoria sono un corvo, in pratica sarei più vestito se fossi in costume da bagno.-mormorò Tao in risposta stringendo i denti, lanciando occhiate assassine a chiunque osasse guardarlo.
E come biasimarlo; le cosce costrette in un paio di pantaloni di pelle nera lucida, la maglietta in cotone tutta buchi e penne nere, una maschera affilata nera con dei punti di luce rossi intorno agli occhi: sembravamo davvero un misto tra escort e artisti circensi di Monte Carlo. Sbuffai guardandomi intorno frustrato, infastidito dalle occhiate insistenti delle ragazze mezze nude che volteggiavano sulla pista da ballo, strusciandosi contro il primo uomo utile. In teoria avrei dovuto essere turbato, triste, stanco...invece mi sentivo solo profondamente insultato da quelle oche giulive. Avevo ucciso un uomo a sangue freddo meno di due ore prima, ma ormai togliere la vita alla persone non mi faceva quasi più nessun effetto da un bel po’.
-Che uccello dovresti essere?- mi chiese ZiTao guardandomi perplesso, nel mio turbinio di riflessi blu e verde acqua.
-Un fottutissimo colibrì. E’ ridicolo.- sbottai stizzito, pensando a quanto fosse insulso l’animale che rappresentavo.
-E quello chi è?- esclamò il mio amico ignorando la mia risposta, girandosi verso ciò che aveva catturato la sua più completa attenzione in così poco tempo.
Mi voltai anch’io per capire chi intendesse, sbuffando scocciato per come aveva surclassato l’informazione che gli avevo appena dato, e rimasi folgorato sul posto. Ero diventato improvvisamente incapace di intendere e di volere, gli occhi bloccati su quella figura in lontananza. Avrei voluto distogliere lo sguardo per non risultare invadente, ma non potevo far altro che continuare a fissare lo sconosciuto con la bocca semi-dischiusa dalla meraviglia. Non ci voleva molto a capire da cosa fosse vestito quel ragazzo, grazie allo strascico di piume verdi e blu attaccate alla vita dei suoi pantaloni luccicanti e all’aureola di penne dello stesso colore che si irradiavano dalla spalle per contornargli il viso e ricoprirgli la schiena. Non poteva che essere un pavone, rilucente in tutto il suo splendore.
-Ti piace eh?- mi stuzzicò il mio miglior amico dandomi di gomito, indicando con un cenno del capo lo sconosciuto.
-Fottiti.- sbiascicai riscuotendomi dal mio stato di trance, riuscendo finalmente a togliere gli occhi di dosso al pavone.
Lui in tutta risposta ridacchiò soddisfatto, avendo ormai capito che ero sul serio interessato all’articolo, il quale avevo ripreso a seguire con lo sguardo, mentre avanzava fiero a testa alta per la sala. Il resto degli ospiti si scansava al suo passaggio, forse rendendosi conto di quanto lui fosse superiore a loro in ogni campo possibile ed immaginabile. Di sicuro era la persona che stava riscuotendo più successo, dato che persino mio padre volle andare a parlarci per conoscerlo. Solo io però sembravo essere rapito in quel modo da quel suo fascino surreale, dal modo in cui incedeva lanciando occhiate sprezzanti a tutto e tutti. Era la cosa più bella che avessi mai visto, a parte forse le foto di mia madre e quel ragazzo, con cui ero andato a letto quasi un mese fa. Mi pareva che si chiamasse... Baekhyun.
   
 
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