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Autore: Dew_Drop    30/07/2013    4 recensioni
New York. Eddie Bloom, trent’anni, celibe, convinto eroinomane, realizza che il suo passatempo lo porterà sulle orme del fratello morto per overdose. Troverà un insperato aiuto nel parcheggio del fast-food in cui lavora, perché non è mai troppo tardi per decidere di tornare indietro, “[...] o, come direbbe un cuore romantico e nostalgico, di tornare alla vita.”
Dal II capitolo: “Dimenticate l’universo, dimenticate Dio, ciò che c’è dopo la morte e ciò che c’è prima della vita: il Non Può Capitare a Me è la sola, grande domanda dell’uomo.”

[ I classificata al contest "Non Può Piovere Per Sempre"] + [ Premio "miglior protagonista maschile" ]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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L'uomo che Torna III



3. L’UOMO CHE TORNA



Attesi, e accidenti se attesi. Attesi per altri due mesi.

Il cassetto del Non Può Capitare a Me mi aveva riconsegnato un altro importante ricordo, una di quelle perle di saggezza che il tempo a volte rende opache. Mia madre era sempre stata un’accanita fumatrice e mio nonno, per invogliarla a smettere, le aveva più volte consigliato una delle tecniche più antiche del mondo: il dosaggio. Dosare il consumo di sigarette, segnare con la pignoleria di un notaio i soldi spesi in Camel, armarsi di contagocce per controllare quante boccate di fumo prendeva al giorno. Dopo qualche settimana sfidarsi ad abbassare i risultati era quasi diventato un gioco, e sapete cosa? Alla fine aveva funzionato. Mia madre non aveva smesso, ma aveva significativamente dimezzato i suoi record di consumo. Si era resa conto, mi ripeteva spesso, che non voleva ritrovarsi i polmoni conciati come ciminiere di fabbrica; probabilmente era già così, ma le piaceva pensare che fossero solo un poco abbrustoliti. È proprio vero che lo stoico ottimismo di alcune mamme circa la propria salute è imbattibile.

Anche io ripiegai sul consiglio del nonno. Lo riciclai, per meglio dire, perché molto spesso i vecchi metodi si rivelano i migliori. Dissi a Bill che non potevo più permettermi la dose del giovedì e che per un lasso di tempo indeterminato ne avrei fatto a meno, anche se i miei piani erano ben differenti. La domenica rovesciavo il contenuto della bustina sul tavolo e con un righello dividevo la polvere in quattro striscioline, ognuna delle quali valeva per quattro dì della settimana. Per tre giorni su sette rimanevo quindi a naso asciutto; questi dì di meditazione spirituale, come mi piaceva chiamarli, erano il lunedì, il mercoledì e il venerdì.

Per i primi tempi le crisi di astinenza furono molto convincenti, ma non abbastanza. Ero abituato a pedalare un po’ tutti i giorni e all’inizio rimanere settantadue ore senza eroina si rivelò difficile. Avevo scoperto che un bagno con un po’ di succo di limone mi dava un poco di tregua dagli attacchi di prurito e che sfogare la mia dipendenza su qualcos’altro mi aiutava a non pensarci. Ebbene, la sfogai nel ristorante italiano dell’altro isolato, con tanta pasta e tanto pomodoro, tanto che nel giro di poche settimane misi su un bel sei chili. Non mi spiaceva, un po’ di carne in più sulle ossa non mi avrebbe fatto male.

Sì, sostituire l’eroina con la cucina mediterranea mi diede un aspetto un po’ più sano. Ero sempre rimasto pallido di carnagione e magro nella corporatura, quasi secco oserei dire, ma la mia nuova dieta stava dando i primi frutti. L’idea di entrare in un centro di recupero mi corteggiò a partire dal primo mese, ma era anche vero che la disintossicazione assistita non scappava; piuttosto, volevo prima accertarmi che quello pronto fossi io. Imporsi la regola del dosaggio era un modo per rendersi presentabili quando sarebbe venuto il momento di alzare la cornetta e di dire a qualcuno: “Ehi, aiutatemi a smettere.” Se lo avessi fatto nelle condizioni in cui ero quella sera di novembre, quando mi ero intrattenuto per una chiacchierata da Winchester’s, probabilmente gli assistenti del centro mi avrebbero squadrato da capo a piedi e mi avrebbero indicato in silenzio una porticina con scritto “obitorio”. E no, il pensiero non era per nulla allettante. Contavo di essere pronto a rivolgermi ad un centro entro ancora due mesetti, dopo aver aumentato da tre a quattro i dì di meditazione spirituale.

Amos seguì con entusiasmo i miei progressi. In quegli ultimi due mesi le rughe che gli solcavano il volto si erano inasprite, quasi avessero trovato altra carne da scavare. Non di rado tornavamo da Winchester’s e una volta gli avevo anche proposto di passare la notte da me, giusto per avere un letto in cui dormire; avevo un materasso in più, da qualche parte, ed ero disposto a procurarmi anche qualche lenzuolo di ricambio. Ma lui aveva negato con il capo e con il suo sorriso vissuto mi aveva detto che un cane randagio rimane tale anche quando ha un tetto sopra la testa. Non gliel’avevo più proposto, se non altro perché nella sua risposta avevo colto una sicurezza indiscutibile.

Ogni tanto gli offrivo qualcosa del fast-food. Capitava quando Mrs. Bissonette aveva impegni urgenti e mi affidava la chiusura. Mi riteneva il suo dipendente più fedele e alla luce dei vantaggi il posto del privilegiato non era niente male. Non potevo certo svuotare le cucine per Amos, ma qualcosa gli cucinavo lo stesso. Allora restavamo fino a tardi a parlare e a mangiare seduti ad uno dei tavolini rossi, mentre fuori il lampione difettoso del parcheggio singhiozzava ad intermittenza e l’umidità fiatava sui vetri tirati a lucido. La strada su cui dava il fast-food non era mai trafficata ed era già tanto che ogni quindici minuti alle nostre orecchie giungesse il rombo ovattato del motore di un taxi di passaggio. Quell’isolato era un’ottima scorciatoia per non incappare nel cuore del traffico della Cinquantaseiesima, con la pecca che in pochi lo sapevano.

«Poi cosa farai, signor Bloom?», mi aveva chiesto una volta, gli occhi a brillare di un sentimento indefinibile, nostalgia, solitudine, forse amore. «Lascerai la città?»

Avevo scosso il capo, rigirando la cannuccia nel bicchierone del milk-shake. «Non credo. Ho sempre vissuto qui.»

«Nuova vita, nuova casa. Vorrai pur metter su famiglia, immagino.»

«Forse.» Il mio sorriso aveva assunto un accento d’imbarazzo. «Non lo so, preferisco aspettare di entrare in un centro. Sono dell’idea che fare il passo più lungo della gamba sia peggio di stare fermi.» Avevo fatto una pausa. «E tu, Amos, dovresti rivolgerti ad una mensa. New York ne è piena.»

«Sì, piena come le mense in sé», e si era concesso un piccolo e amaro sorriso. Lo avevo colto, lo avevo persino ricambiato. «Sono vecchio, non me la sento di occupare un posto quando ci sono molti giovani nella mia stessa situazione. È giusto dare la precedenza a chi ha ancora tanti anni davanti.»

«E poi puoi contare su di me», me ne ero approfittato. «Appena metterò da parte il necessario, te lo prometto, ti troverò una stanza in un centro per anziani.»

«Un ospizio, intendi?»

«Quella parola è triste. Meglio girarci attorno come ho fatto io.»

Amos mi aveva guardato e poi le sue labbra si erano schiuse a mostrarmi i denti scomposti. «Apprezzo la sensibilità.»

Avevo in mano il bicchierone quasi vuoto di un milk-shake, ma lo sollevai lo stesso a mo’ di boccale di vino come se gli stessi dedicando un brindisi. Un taxi era passato sulla strada; anche senza guardare l’orologio e facendo solo il conto di quanti motori avevo sentito, ero riuscito a dedurre che eravamo lì dentro da poco più di un’ora oltre l’orario di chiusura.

Amos aveva tamburellato le dita sul tavolino, senza lasciare da parte quel suo sorriso da lupo di mare. «Per domani hanno dato pioggia.»

«Hai ancora l’ombrello che ti ho regalato?»

«Sicuro, giovane.»

«Usalo», gli avevo consigliato, anche se non era necessario puntualizzarlo.

A dire il vero non avrei avuto bisogno di dirglielo anche per un’altra ragione: non gli sarebbe servito, ma non potevo saperlo. Tanto, sì, non poteva capitare a lui. Dio, no.

 

2.

 

Gli avevo donato quell’ombrello per il motivo più semplice del mondo: non ne aveva uno. Aveva qualcosa che spacciava per ombrello, questo sì, ma quel qualcosa era la coperta ruvida che sempre aveva sulle gambe. E sì, direte voi, in caso di pioggia era un qualcosa di inutile. Avevo fatto anche io lo stesso ragionamento, un due più due d’impareggiabile semplicità, e gli avevo regalato un grande ombrello rosso nuovo di zecca. Quando pioveva, lo apriva e lo sistemava a terra, per poi accucciarsi lì sotto come un vecchio cane sotto una veranda. Anche in quel caso gli avevo reso presente che poteva benissimo ritirarsi un momento nel mio appartamento, almeno finché non fosse tornato sereno. Conoscete già la sua risposta, inutile che ve la ripeta.

Non avevo idea di come avesse fatto ad indovinare, sta il fatto che il giorno dopo piovve sul serio. Probabilmente era stato da Beev e aveva potuto vedere le previsioni meteo. Più ci pensavo, però, più mi convincevo che era anche possibile che lo avesse solo annusato; l’odore della pioggia, dico. Mi ero convinto che alla base del suo impeccabile fiuto vi era solo l’esperienza diretta sul campo. In quel miracolato angolo di New York dove la peggior cosa che potesse capitare era un ragazzino che rubava il giornale del vecchio di turno seduto su una panchina, Amos era uno di quei biscottini della fortuna. Imprevedibile, esatto. Ancora non avevo capito cosa passasse dietro quella sua fronte sempre corrugata impercettibilmente e non ero nemmeno sicuro di volerlo sapere.

Accadde quel giorno, quello in cui piovve, così come certi fatti si intrufolano nelle vite di ignare esistenze senza che si possa evitarli. Era uno di quei dì di meditazione in cui le cavallette che avevo nel cervello se ne rimanevano a dormire, con le zampette legate a palle di ferro per evitare che mi solleticassero le pareti del cervello e mi inducessero in tentazione. Mi sistemai dietro lo sportello verso le quattro di pomeriggio, mi alzai per sgranchirmi le gambe ogni tanto e rimasi nel fast-food fino a tarda sera. L’acqua scendeva a nastri dal cielo grigio e sebbene dalla mia posizione non riuscissi a vedere Amos, sapevo che sedeva sempre là, contro quel muretto, sotto quell’ombrello, a pensare a Iddio solo sapeva cosa. Una volta avevo provato a chiedere a Mrs. Bissonette il permesso di farlo entrare nel locale almeno quando pioveva a dirotto, ma lei, con quella sua occhiata da corvo incattivito, mi aveva risposto che avrebbero dovuto occuparsene le autorità, che cielo, è un barbone, e poi i clienti sciamano come mosche, ma dico, sta forse scherzando, signor Bloom?

Anni di fiera storia americana buttati nel cesso. E chi era colui che affermava con orgoglio che non bisogna chiedersi cosa la Nazione può fare per te, ma cosa tu puoi fare per la Nazione? Il clown della McDonald, forse?

Avevo tenuto per me quella battuta che a mio avviso mi sarebbe valsa il licenziamento e me ne ero tornato ai miei affari. Ebbene, anche quel giorno l’idea di riproporle la cosa mi pizzicò la materia grigia, ma la scartai in partenza. Forse avrei dovuto farlo lo stesso ma, come insegna la regola del Non Può Capitare a Me, non esistono decisioni a priori di cui potremmo pentirci in futuro. Nossignore.

Esistono, eccome se esistono. Quella realizzazione mi passò da parte a parte non appena uscii; avevo già il braccio alzato per metà, pronto a sfarfallare le dita della mano in direzione di Amos, ma lui non c’era. Volli stupidamente convincermi che si trattava di uno scherzo di prospettiva, che la colpa era solo di un trucco di cattivo gusto, eppure non vedevo nemmeno l’ombrello rosso che gli avevo regalato, non vedevo la coperta, non vedevo il cencioso bagaglio a mano che usava come cuscino. Non vedevo nulla e per la prima volta in vita mia, vi giuro sul nome di mio padre, capii cosa si intende esattamente con l’espressione horror vacui.

Amos non si era mai mosso da lì. Per due anni interi era rimasto in quel parcheggio come se lo sbocco sulla strada fosse per lui un ostacolo pari alle Colonne d’Ercole, eppure quella volta non c’era. Quel giorno avevo dimenticato l’ombrello a casa e la pioggia mi cascava addosso con la violenza del pianto di un mondo intero. Forse là in mezzo, da qualche parte, tra qualche goccia, c’erano anche le mie lacrime. Ero solo un uomo fermo in mezzo ad un parcheggio scuro e semivuoto, con tutta New York attorno, con i lontani clacson della Cinquantaseiesima nelle orecchie, con attorno nient’altro che vita, ma con nulla che sentissi davvero in movimento, eccetto per il singhiozzare spastico di quel lampione che ancora non voleva saperne di morire.

Amos non si era mai mosso da lì. Nemmeno in quegli ultimi due mesi le cose erano cambiate, almeno fino a quel giorno, e la pioggia che mi incollava i capelli sul cranio e scivolava nelle pieghe della mia giacca sportiva non voleva darmi una risposta. Dal mio labbro inferiore zampillava una piccola cascata di acqua piovana, uno sciacquio convulso, lo scavalcarsi e il ribollire della voce del diluvio. In me, silenzio.

Avevo creduto che non potesse capitare a me, avevo creduto che non potesse capitare a lui, e adesso era invece capitato a noi.

Mossi i primi passi verso il muretto contro cui ero abituato a vederlo seduto. Era davvero vuoto, era davvero spoglio. Non c’erano i suoi occhi profondi e luminosi, non c’era la sua voce nostalgica ad accogliermi, dolce come blues, e non c’erano nemmeno quelle sopracciglia folte e quel volto scuro e segnato e quello zuccotto nero. Non c’era lui. Amos se n’era andato.

Avrei voluto dirgli che avevo cominciato a dividere la polvere in tre striscioline anziché in quattro. Avrei voluto dirgli ancora un sacco di cose, ma il tempo si era mosso troppo in fretta, il mondo aveva tossito e cominciato a girare per il verso opposto, ed io ero rimasto indietro, come un cucciolo di tartaruga troppo lento per raggiungere il mare.

 

3.

 

Chicago, otto anni dopo

 

«E poi, Eddie?», mi incalza Daniel, con gli occhi cerulei e luminosi. «Poi cos’è successo?»

«Niente», è la mia placida risposta, le dita incrociate sulle ginocchia accavallate e un sorriso tiepido ad arricciarmi gli angoli della bocca. «Non l’ho mai più rivisto e dubito che sia ancora a New York.»

«Forse è qui a Chicago.»

Scuoto la testa. «Credo che qualcuno si sia fermato nella sua corsia d’emergenza e gli abbia dato un passaggio.»

«Gesù?»

«O qualche suo angelo», concludo, lasciando trasparire questa volta una punta di dolce ironia. Il bambino seduto sulla poltrona di fronte a me prova un timido sorriso e stringe le labbra. Lo osservo un momento, poi mi sfilo gli occhiali da vista e me li appoggio in grembo. «Sai perché ti ho raccontato questa storia, Danny?»

Daniel Pangborn ci pensa, si arrende, fa no con la testolina bionda. Ha nove anni, un padre violento, una madre prigioniera, una sorella vittima, un passato carnefice.

«C’è un Amos per tutti noi», gli spiego, e la mia voce è paziente e disponibile, lo sguardo morbido, confidenziale. «C’è un Amos per tutti, per ogni occasione, per ogni problema, per ogni tempo. Forse è una persona a te vicina, forse lontana, forse ancora da conoscere o forse ancora da concepire, ma c’è. Ho conosciuto il mio Amos in un momento di stallo e se ne è andato solo quando stavo ormai tornando indietro, come se avesse fatto il suo dovere e non avesse altro da dirmi. Sai perché sei qui?»

«Il papà è cattivo.»

«E sai perché?»

«Non ci vuole bene?»

«Ve ne vuole, Danny, credimi. È che il tuo papà ha un brutto passatempo.»

«L’alcol.»

Mi complimento con un sorriso e annuisco. «Papà ha bisogno di un Amos.»

«Per imboccare un’uscita.»

«E per non far coda al casello per troppo tempo. Lo capisci?»

Cenno affermativo dal fronte opposto.

Mi prendo qualche secondo di pausa e la mia espressione si vela di premurosa fierezza. «L’Amos per papà è la comunità di recupero in cui è stato inserito. Parlerà con persone che potranno aiutarlo, sentirà un mucchio di storie e se vorrai potrai andarlo a trovare due volte al mese.»

«Anche tu sei entrato in un centro per disintossicarti?»

«Affermativo. Poi mi sono trasferito, ho studiato, ho trovato un lavoro di cui vado fiero.»

«Potrò raccontargli la storia del Non Può Capitare a Me?»

«Permesso accordato, campione», gli concedo con un sorriso, e allungo la mano per lasciargli un leggero pizzicotto sulla guancia. Daniel si ritrae soffocando una risata; mi è stato affidato dall’ente per cui lavoro ed è grazie a lui se ho capito che studiare psicologia è servito a qualcosa.

«Ti piace parlare con le persone?», mi chiede poi.

Sollevo le spalle mentre mi alzo e mi rimetto gli occhiali. «Altrimenti non farei questo lavoro.»

«Dev’essere stato difficile passare dallo sportello di un fast-food alla poltrona di un ufficio.» Mi guarda ancora, lasciando dondolare le gambe avanti e indietro con un’irresistibile curiosità e voglia di vivere nelle iridi. A quelle parole, il mio sorriso acquista una marcia in più.

«C’è una sostanziale differenza fra il parlare dietro a dei riquadri e farlo invece senza elementi intermedi, Danny.»

«Cioè?», mi chiede mentre si alza a sua volta.

Giro dietro la scrivania, ne approfitto per sistemare la targhetta che si è rovesciata – “Psych. Eddie Bloom”, recita – e quando torno a guardarlo sto ancora sorridendo.

«Il silenzio», rispondo. «Il silenzio ha un gusto diverso.»

  

4.

 

Fuori dal luogo in cui lavoro, un palazzo anonimo su una strada fra tante in una città tanto viva, trovo molto spesso un mendicante seduto sul lato del marciapiede che improvvisa piccoli quadretti con gli acquerelli. Non lo conosco, non ci ho mai parlato, ma qualcosa gli lascio sempre, a volte un pasto, a volte una di quelle monetine che controllo sempre di avere nella tasca prima di uscire di casa. Per intenzione, esatto.

Anche oggi, ore diciassette, otto anni dopo, io, Eddie Bloom, psicologo, marito e padre, mi chino per lasciare a quell’uomo un po’ dei miei sforzi. La monetina volteggia nell’aria e ricade con un suono ovattato nel cappellino, e la mia mano rimane sollevata ancora un poco, giusto il tempo di gettare un saluto e di sfoderare un sorriso, in un gesto di meravigliosa, disarmante semplicità.

«A te, capo, e alle tue piccole opere», lo saluto. «Chicago non è mai stata così bella da guardare.»

Quando gli passo accanto non dipinge mai, come un artista chiuso nel più creativo dei silenzi, quel silenzio muto, inascoltato, quello dei grandi. Mi allontano lungo il marciapiede alzando gli occhi, guardando il mondo attorno a me muoversi, pensando a Rose, oh dolce Rose, che mi aspetta a casa con il suo abbraccio caldo e la pelle profumata.

Solo allora sento che il mendicante ha sollevato lo sguardo su di me e mi sta guardando mentre mi allontano. Forse sta sorridendo, ma è un’assenza di suoni ancora troppo densa per me e non sento quello che mormora, non lo sento dire: “Non c’è molto di interessante da guardare, in quest’angolo di Chicago.”

Non c’è nulla di male. Può capitare a tutti di lasciarsi sfuggire una frase. Può capitare anche a me.


   
 
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