3. L’UOMO CHE TORNA
Attesi, e accidenti se attesi. Attesi per altri due mesi.
Il cassetto del Non Può Capitare a Me mi aveva riconsegnato
un altro importante ricordo, una di quelle perle di saggezza che il tempo a
volte rende opache. Mia madre era sempre stata un’accanita fumatrice e mio
nonno, per invogliarla a smettere, le aveva più volte consigliato una delle
tecniche più antiche del mondo: il dosaggio. Dosare il consumo di sigarette,
segnare con la pignoleria di un notaio i soldi spesi in Camel, armarsi di
contagocce per controllare quante boccate di fumo prendeva al giorno. Dopo
qualche settimana sfidarsi ad abbassare i risultati era quasi diventato un
gioco, e sapete cosa? Alla fine aveva funzionato. Mia madre non aveva smesso,
ma aveva significativamente dimezzato i suoi record di consumo. Si era resa
conto, mi ripeteva spesso, che non voleva ritrovarsi i polmoni conciati come
ciminiere di fabbrica; probabilmente era già così, ma le piaceva pensare che
fossero solo un poco abbrustoliti. È proprio vero che lo stoico ottimismo di
alcune mamme circa la propria salute è imbattibile.
Anche io ripiegai sul consiglio del nonno. Lo riciclai, per
meglio dire, perché molto spesso i vecchi metodi si rivelano i migliori. Dissi
a Bill che non potevo più permettermi la dose del giovedì e che per un lasso di
tempo indeterminato ne avrei fatto a meno, anche se i miei piani erano ben
differenti. La domenica rovesciavo il contenuto della bustina sul tavolo e con
un righello dividevo la polvere in quattro striscioline, ognuna delle quali
valeva per quattro dì della settimana. Per tre giorni su sette rimanevo quindi
a naso asciutto; questi dì di meditazione spirituale, come mi piaceva
chiamarli, erano il lunedì, il mercoledì e il venerdì.
Per i primi tempi le crisi di astinenza furono molto
convincenti, ma non abbastanza. Ero abituato a pedalare un po’ tutti i giorni e
all’inizio rimanere settantadue ore senza eroina si rivelò difficile. Avevo
scoperto che un bagno con un po’ di succo di limone mi dava un poco di tregua dagli
attacchi di prurito e che sfogare la mia dipendenza su qualcos’altro mi aiutava
a non pensarci. Ebbene, la sfogai nel ristorante italiano dell’altro isolato,
con tanta pasta e tanto pomodoro, tanto che nel giro di poche settimane misi su
un bel sei chili. Non mi spiaceva, un po’ di carne in più sulle ossa non mi
avrebbe fatto male.
Sì, sostituire l’eroina con la cucina mediterranea mi diede
un aspetto un po’ più sano. Ero sempre rimasto pallido di carnagione e magro
nella corporatura, quasi secco oserei dire, ma la mia nuova dieta stava dando i
primi frutti. L’idea di entrare in un centro di recupero mi corteggiò a partire
dal primo mese, ma era anche vero che la disintossicazione assistita non
scappava; piuttosto, volevo prima accertarmi che quello pronto fossi io. Imporsi
la regola del dosaggio era un modo per rendersi presentabili quando sarebbe
venuto il momento di alzare la cornetta e di dire a qualcuno: “Ehi, aiutatemi a
smettere.” Se lo avessi fatto nelle condizioni in cui ero quella sera di
novembre, quando mi ero intrattenuto per una chiacchierata da Winchester’s, probabilmente gli
assistenti del centro mi avrebbero squadrato da capo a piedi e mi avrebbero
indicato in silenzio una porticina con scritto “obitorio”. E no, il pensiero
non era per nulla allettante. Contavo di essere pronto a rivolgermi ad un
centro entro ancora due mesetti, dopo aver aumentato da tre a quattro i dì di
meditazione spirituale.
Amos seguì con entusiasmo i miei progressi. In quegli
ultimi due mesi le rughe che gli solcavano il volto si erano inasprite, quasi
avessero trovato altra carne da scavare. Non di rado tornavamo da Winchester’s e una volta gli avevo anche
proposto di passare la notte da me, giusto per avere un letto in cui dormire; avevo
un materasso in più, da qualche parte, ed ero disposto a procurarmi anche
qualche lenzuolo di ricambio. Ma lui aveva negato con il capo e con il suo
sorriso vissuto mi aveva detto che un cane randagio rimane tale anche quando ha
un tetto sopra la testa. Non gliel’avevo più proposto, se non altro perché
nella sua risposta avevo colto una sicurezza indiscutibile.
Ogni tanto gli offrivo qualcosa del fast-food. Capitava
quando Mrs. Bissonette aveva impegni urgenti e mi affidava la chiusura. Mi
riteneva il suo dipendente più fedele e alla luce dei vantaggi il posto del
privilegiato non era niente male. Non potevo certo svuotare le cucine per Amos,
ma qualcosa gli cucinavo lo stesso. Allora restavamo fino a tardi a parlare e a
mangiare seduti ad uno dei tavolini rossi, mentre fuori il lampione difettoso
del parcheggio singhiozzava ad intermittenza e l’umidità fiatava sui vetri
tirati a lucido. La strada su cui dava il fast-food non era mai trafficata ed
era già tanto che ogni quindici minuti alle nostre orecchie giungesse il rombo
ovattato del motore di un taxi di passaggio. Quell’isolato era un’ottima
scorciatoia per non incappare nel cuore del traffico della Cinquantaseiesima,
con la pecca che in pochi lo sapevano.
«Poi cosa farai, signor Bloom?», mi aveva chiesto una
volta, gli occhi a brillare di un sentimento indefinibile, nostalgia,
solitudine, forse amore. «Lascerai la città?»
Avevo scosso il capo, rigirando la cannuccia nel
bicchierone del milk-shake. «Non credo. Ho sempre vissuto qui.»
«Nuova vita, nuova casa. Vorrai pur metter su famiglia,
immagino.»
«Forse.» Il mio sorriso aveva assunto un accento
d’imbarazzo. «Non lo so, preferisco aspettare di entrare in un centro. Sono
dell’idea che fare il passo più lungo della gamba sia peggio di stare fermi.»
Avevo fatto una pausa. «E tu, Amos, dovresti rivolgerti ad una mensa. New York
ne è piena.»
«Sì, piena come le mense in sé», e si era concesso un
piccolo e amaro sorriso. Lo avevo colto, lo avevo persino ricambiato. «Sono
vecchio, non me la sento di occupare un posto quando ci sono molti giovani
nella mia stessa situazione. È giusto dare la precedenza a chi ha ancora tanti
anni davanti.»
«E poi puoi contare su di me», me ne ero approfittato.
«Appena metterò da parte il necessario, te lo prometto, ti troverò una stanza
in un centro per anziani.»
«Un ospizio, intendi?»
«Quella parola è triste. Meglio girarci attorno come ho
fatto io.»
Amos mi aveva guardato e poi le sue labbra si erano schiuse
a mostrarmi i denti scomposti. «Apprezzo la sensibilità.»
Avevo in mano il bicchierone quasi vuoto di un milk-shake,
ma lo sollevai lo stesso a mo’ di boccale di vino come se gli stessi dedicando
un brindisi. Un taxi era passato sulla strada; anche senza guardare l’orologio
e facendo solo il conto di quanti motori avevo sentito, ero riuscito a dedurre
che eravamo lì dentro da poco più di un’ora oltre l’orario di chiusura.
Amos aveva tamburellato le dita sul tavolino, senza
lasciare da parte quel suo sorriso da lupo di mare. «Per domani hanno dato
pioggia.»
«Hai ancora l’ombrello che ti ho regalato?»
«Sicuro, giovane.»
«Usalo», gli avevo consigliato, anche se non era necessario
puntualizzarlo.
A dire il vero non avrei avuto bisogno di dirglielo anche
per un’altra ragione: non gli sarebbe servito, ma non potevo saperlo. Tanto,
sì, non poteva capitare a lui. Dio, no.
2.
Gli avevo donato quell’ombrello per il motivo più semplice
del mondo: non ne aveva uno. Aveva qualcosa
che spacciava per ombrello, questo sì, ma quel qualcosa era la coperta ruvida
che sempre aveva sulle gambe. E sì, direte voi, in caso di pioggia era un qualcosa
di inutile. Avevo fatto anche io lo stesso ragionamento, un due più due
d’impareggiabile semplicità, e gli avevo regalato un grande ombrello rosso
nuovo di zecca. Quando pioveva, lo apriva e lo sistemava a terra, per poi
accucciarsi lì sotto come un vecchio cane sotto una veranda. Anche in quel caso
gli avevo reso presente che poteva benissimo ritirarsi un momento nel mio
appartamento, almeno finché non fosse tornato sereno. Conoscete già la sua
risposta, inutile che ve la ripeta.
Non avevo idea di come avesse fatto ad indovinare, sta il
fatto che il giorno dopo piovve sul serio. Probabilmente era stato da Beev e
aveva potuto vedere le previsioni meteo. Più ci pensavo, però, più mi
convincevo che era anche possibile che lo avesse solo annusato; l’odore della
pioggia, dico. Mi ero convinto che alla base del suo impeccabile fiuto vi era
solo l’esperienza diretta sul campo. In quel miracolato angolo di New York dove
la peggior cosa che potesse capitare era un ragazzino che rubava il giornale
del vecchio di turno seduto su una panchina, Amos era uno di quei biscottini
della fortuna. Imprevedibile, esatto. Ancora non avevo capito cosa passasse
dietro quella sua fronte sempre corrugata impercettibilmente e non ero nemmeno
sicuro di volerlo sapere.
Accadde quel giorno, quello in cui piovve, così come certi
fatti si intrufolano nelle vite di ignare esistenze senza che si possa
evitarli. Era uno di quei dì di meditazione in cui le cavallette che avevo nel
cervello se ne rimanevano a dormire, con le zampette legate a palle di ferro
per evitare che mi solleticassero le pareti del cervello e mi inducessero in
tentazione. Mi sistemai dietro lo sportello verso le quattro di pomeriggio, mi
alzai per sgranchirmi le gambe ogni tanto e rimasi nel fast-food fino a tarda
sera. L’acqua scendeva a nastri dal cielo grigio e sebbene dalla mia posizione
non riuscissi a vedere Amos, sapevo che sedeva sempre là, contro quel muretto,
sotto quell’ombrello, a pensare a Iddio solo sapeva cosa. Una volta avevo
provato a chiedere a Mrs. Bissonette il permesso di farlo entrare nel locale
almeno quando pioveva a dirotto, ma lei, con quella sua occhiata da corvo
incattivito, mi aveva risposto che avrebbero dovuto occuparsene le autorità,
che cielo, è un barbone, e poi i clienti sciamano come mosche, ma dico, sta
forse scherzando, signor Bloom?
Anni di fiera storia americana buttati nel cesso. E chi era
colui che affermava con orgoglio che non bisogna chiedersi cosa la Nazione può
fare per te, ma cosa tu puoi fare per la Nazione? Il clown della McDonald,
forse?
Avevo tenuto per me quella battuta che a mio avviso mi
sarebbe valsa il licenziamento e me ne ero tornato ai miei affari. Ebbene,
anche quel giorno l’idea di riproporle la cosa mi pizzicò la materia grigia, ma
la scartai in partenza. Forse avrei dovuto farlo lo stesso ma, come insegna la
regola del Non Può Capitare a Me, non esistono decisioni a priori di cui
potremmo pentirci in futuro. Nossignore.
Esistono, eccome se esistono. Quella realizzazione mi passò
da parte a parte non appena uscii; avevo già il braccio alzato per metà, pronto
a sfarfallare le dita della mano in direzione di Amos, ma lui non c’era. Volli
stupidamente convincermi che si trattava di uno scherzo di prospettiva, che la
colpa era solo di un trucco di cattivo gusto, eppure non vedevo nemmeno
l’ombrello rosso che gli avevo regalato, non vedevo la coperta, non vedevo il
cencioso bagaglio a mano che usava come cuscino. Non vedevo nulla e per la
prima volta in vita mia, vi giuro sul nome di mio padre, capii cosa si intende
esattamente con l’espressione horror
vacui.
Amos non si era mai mosso da lì. Per due anni interi era
rimasto in quel parcheggio come se lo sbocco sulla strada fosse per lui un
ostacolo pari alle Colonne d’Ercole, eppure quella volta non c’era. Quel giorno
avevo dimenticato l’ombrello a casa e la pioggia mi cascava addosso con la
violenza del pianto di un mondo intero. Forse là in mezzo, da qualche parte,
tra qualche goccia, c’erano anche le mie lacrime. Ero solo un uomo fermo in mezzo
ad un parcheggio scuro e semivuoto, con tutta New York attorno, con i lontani
clacson della Cinquantaseiesima nelle orecchie, con attorno nient’altro che
vita, ma con nulla che sentissi davvero in movimento, eccetto per il
singhiozzare spastico di quel lampione che ancora non voleva saperne di morire.
Amos non si era mai mosso da lì. Nemmeno in quegli ultimi
due mesi le cose erano cambiate, almeno fino a quel giorno, e la pioggia che mi
incollava i capelli sul cranio e scivolava nelle pieghe della mia giacca
sportiva non voleva darmi una risposta. Dal mio labbro inferiore zampillava una
piccola cascata di acqua piovana, uno sciacquio convulso, lo scavalcarsi e il
ribollire della voce del diluvio. In me, silenzio.
Avevo creduto che non potesse capitare a me, avevo creduto
che non potesse capitare a lui, e adesso era invece capitato a noi.
Mossi i primi passi verso il muretto contro cui ero
abituato a vederlo seduto. Era davvero vuoto, era davvero spoglio. Non c’erano
i suoi occhi profondi e luminosi, non c’era la sua voce nostalgica ad
accogliermi, dolce come blues, e non c’erano nemmeno quelle sopracciglia folte
e quel volto scuro e segnato e quello zuccotto nero. Non c’era lui. Amos se
n’era andato.
Avrei voluto dirgli che avevo cominciato a dividere la
polvere in tre striscioline anziché in quattro. Avrei voluto dirgli ancora un
sacco di cose, ma il tempo si era mosso troppo in fretta, il mondo aveva
tossito e cominciato a girare per il verso opposto, ed io ero rimasto indietro,
come un cucciolo di tartaruga troppo lento per raggiungere il mare.
3.
Chicago, otto anni dopo
«E poi, Eddie?», mi incalza Daniel, con gli occhi cerulei e
luminosi. «Poi cos’è successo?»
«Niente», è la mia placida risposta, le dita incrociate sulle
ginocchia accavallate e un sorriso tiepido ad arricciarmi gli angoli della
bocca. «Non l’ho mai più rivisto e dubito che sia ancora a New York.»
«Forse è qui a Chicago.»
Scuoto la testa. «Credo che qualcuno si sia fermato nella
sua corsia d’emergenza e gli abbia dato un passaggio.»
«Gesù?»
«O qualche suo angelo», concludo, lasciando trasparire
questa volta una punta di dolce ironia. Il bambino seduto sulla poltrona di
fronte a me prova un timido sorriso e stringe le labbra. Lo osservo un momento,
poi mi sfilo gli occhiali da vista e me li appoggio in grembo. «Sai perché ti
ho raccontato questa storia, Danny?»
Daniel Pangborn ci pensa, si arrende, fa no con la
testolina bionda. Ha nove anni, un padre violento, una madre prigioniera, una
sorella vittima, un passato carnefice.
«C’è un Amos per tutti noi», gli spiego, e la mia voce è
paziente e disponibile, lo sguardo morbido, confidenziale. «C’è un Amos per
tutti, per ogni occasione, per ogni problema, per ogni tempo. Forse è una
persona a te vicina, forse lontana, forse ancora da conoscere o forse ancora da
concepire, ma c’è. Ho conosciuto il mio Amos in un momento di stallo e se ne è
andato solo quando stavo ormai tornando indietro, come se avesse fatto il suo
dovere e non avesse altro da dirmi. Sai perché sei qui?»
«Il papà è cattivo.»
«E sai perché?»
«Non ci vuole bene?»
«Ve ne vuole, Danny, credimi. È che il tuo papà ha un
brutto passatempo.»
«L’alcol.»
Mi complimento con un sorriso e annuisco. «Papà ha bisogno
di un Amos.»
«Per imboccare un’uscita.»
«E per non far coda al casello per troppo tempo. Lo
capisci?»
Cenno affermativo dal fronte opposto.
Mi prendo qualche secondo di pausa e la mia espressione si
vela di premurosa fierezza. «L’Amos per papà è la comunità di recupero in cui è
stato inserito. Parlerà con persone che potranno aiutarlo, sentirà un mucchio
di storie e se vorrai potrai andarlo a trovare due volte al mese.»
«Anche tu sei entrato in un centro per disintossicarti?»
«Affermativo. Poi mi sono trasferito, ho studiato, ho
trovato un lavoro di cui vado fiero.»
«Potrò raccontargli la storia del Non Può Capitare a Me?»
«Permesso accordato, campione», gli concedo con un sorriso,
e allungo la mano per lasciargli un leggero pizzicotto sulla guancia. Daniel si
ritrae soffocando una risata; mi è stato affidato dall’ente per cui lavoro ed è
grazie a lui se ho capito che studiare psicologia è servito a qualcosa.
«Ti piace parlare con le persone?», mi chiede poi.
Sollevo le spalle mentre mi alzo e mi rimetto gli occhiali.
«Altrimenti non farei questo lavoro.»
«Dev’essere stato difficile passare dallo sportello di un
fast-food alla poltrona di un ufficio.» Mi guarda ancora, lasciando dondolare
le gambe avanti e indietro con un’irresistibile curiosità e voglia di vivere
nelle iridi. A quelle parole, il mio sorriso acquista una marcia in più.
«C’è una sostanziale differenza fra il parlare dietro a dei
riquadri e farlo invece senza elementi intermedi, Danny.»
«Cioè?», mi chiede mentre si alza a sua volta.
Giro dietro la scrivania, ne approfitto per sistemare la
targhetta che si è rovesciata – “Psych. Eddie
Bloom”, recita – e quando torno a guardarlo sto ancora sorridendo.
«Il silenzio», rispondo. «Il silenzio ha un gusto diverso.»
4.
Fuori dal luogo in cui lavoro, un palazzo anonimo su una
strada fra tante in una città tanto viva, trovo molto spesso un mendicante seduto
sul lato del marciapiede che improvvisa piccoli quadretti con gli acquerelli.
Non lo conosco, non ci ho mai parlato, ma qualcosa gli lascio sempre, a volte
un pasto, a volte una di quelle monetine che controllo sempre di avere nella
tasca prima di uscire di casa. Per intenzione, esatto.
Anche oggi, ore diciassette, otto anni dopo, io, Eddie
Bloom, psicologo, marito e padre, mi chino per lasciare a quell’uomo un po’ dei
miei sforzi. La monetina volteggia nell’aria e ricade con un suono ovattato nel
cappellino, e la mia mano rimane sollevata ancora un poco, giusto il tempo di
gettare un saluto e di sfoderare un sorriso, in un gesto di meravigliosa,
disarmante semplicità.
«A te, capo, e alle tue piccole opere», lo saluto. «Chicago
non è mai stata così bella da guardare.»
Quando gli passo accanto non dipinge mai, come un artista chiuso
nel più creativo dei silenzi, quel silenzio muto, inascoltato, quello dei
grandi. Mi allontano lungo il marciapiede alzando gli occhi, guardando il mondo
attorno a me muoversi, pensando a Rose, oh dolce Rose, che mi aspetta a casa
con il suo abbraccio caldo e la pelle profumata.
Solo allora sento che il mendicante ha sollevato lo sguardo
su di me e mi sta guardando mentre mi allontano. Forse sta sorridendo, ma è
un’assenza di suoni ancora troppo densa per me e non sento quello che mormora,
non lo sento dire: “Non c’è molto di interessante da guardare, in quest’angolo
di Chicago.”
Non c’è nulla di male. Può capitare a tutti di lasciarsi sfuggire una frase. Può capitare anche a me.