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Autore: Niglia    01/08/2013    3 recensioni
North Yorkshire, settembre 1904.
Dopo la morte della madre, Emma viene spedita ad abitare insieme alla sua istitutrice presso la residenza in campagna acquistata recentemente dal padre, a trascorrere in serenità il lungo periodo del lutto. Qui si ritrova a fare i conti con una realtà ben diversa da quella a cui è abituata: niente servitù, niente distrazioni, nessuno con cui parlare al di fuori della donna che l’ha accompagnata.
Eppure il fascino di Pemberley Manor colpisce positivamente la sua nuova abitante: la magione, infatti, rimasta disabitata a causa di un terribile evento risalente a quindici anni prima, nasconde tra le sue mura molto più di quanto Emma abbia immaginato, e giorno dopo giorno si ritrova a scoprire sconcertanti segreti che sarebbe stato meglio non riportare alla luce.
Quello che non immagina, tuttavia, è che qualcosa di molto pericoloso la spia dall’oscurità…
[Una mia personale rivisitazione del tema Bella/Bestia, con vari accenni e spolverate dei miei adorati romanzi horror ottocenteschi.]
Genere: Dark, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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2.
The Aerie
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Il tempo sembrava trascorrere diversamente a Pemberley Manor: in mezzo a quelle lande desolate la vita era meno caotica e le giornate apparivano più lunghe, ma tutto sommato i primi giorni passarono in modo piuttosto sereno. Malgrado l’iniziale scetticismo, sia la signorina Radcliffe che Emma riuscirono ad abituarsi alla placida routine della campagna: entrambe avevano preso ad alzarsi presto per godere appieno delle mattine, dato che di sera faceva buio presto e non c’era molto da fare in casa, e presto iniziarono a sentir meno la nostalgia di Hambleton. D’altra parte, la magione offriva più distrazioni di ciò che si poteva pensare: la biblioteca era immensa, c’era una sala della musica e una galleria dov’erano state raccolte diverse opere d’arte – un vero tesoro per il conte di Grantham, se solo si fosse trovato là a sua volta – e un giorno Emma aveva scoperto il giardino d’inverno, ossia un intero salone adibito a serra dove piante di ogni genere e provenienza crescevano rigogliose tra sentierini di pietra e fontane con zampillo; Aramis aveva adorato quella sala. Aveva poi fatto persino un paio di belle giornate prive di vento e pioggia, durante le quali Emma aveva suggerito alla sua istitutrice di uscire nel parco per esplorare anche gli esterni della magione e prendere un po’ di salutare aria fresca: difatti, benché Pemberley fosse splendidamente elegante e curata in ogni piccolo dettaglio, c’era qualcosa – Emma non avrebbe davvero saputo dire che cosa – che pareva celarsi nelle pareti stesse, qualcosa di insano, che trasudava angoscia e tormento. Fuori, invece, avevano visto le aiuole intorno alla casa curate amorevolmente da Mr. Duncan, l’orticello coltivato sul retro, le stalle, persino i villini sul confine della proprietà che un tempo dovevano essere appartenuti ai garzoni e ai vari sovraintendenti che si occupavano del resto delle tenute di Pemberley, adesso tristemente abbandonati a loro stessi, rifugi per randagi e sporcizia.
Ben presto, dunque, l’iniziale impressione di selvaggio abbandono che aveva avvertito nel mettere piede a Pemberley svanì davanti alla palese cura che vi era dietro la pulizia e l’ordine che regnavano nelle ali della casa da loro abitate: non si poteva certo dire che Mrs. Duncan e la timida Lydia se ne restassero con le mani in mano. Eppure tutto ciò non riusciva ancora a scacciare quell’aura malsana che avvertiva ogniqualvolta varcava la soglia del castello.
A proposito di Lydia, Emma aveva infine appreso che la giovane cameriera tuttofare era priva del dono della parola. La signora Duncan, essendovi abituata, lo aveva dato per scontato e non aveva pensato di avvertire la padrona di quel piccolo dettaglio, così i primi tempi Emma aveva inteso il suo silenzio come una semplice forma di timidezza; una volta chiarito l’equivoco, tuttavia, la giovane lady si affrettò a chiedere scusa alla domestica se in qualche modo l’aveva offesa, ma quest’ultima si limitò ad arrossire violentemente senza neppure osare guardarla negli occhi, quasi che la colpa della sua condizione ricadesse su se’ stessa. Miss Radcliffe non aveva trovato di suo gradimento neppure quella notizia, e benché Emma volesse alla donna un bene infinito doveva ammettere di iniziare a trovarla un po’ troppo intollerabile.
Il mattino successivo al loro arrivo, mentre sedeva in sala da pranzo con miss Radcliffe, con la quale ne aveva già parlato mentre scendevano insieme al pianterreno, Emma aveva inoltre portato il problema degli specchi all’attenzione della governante che, con Lydia, serviva la colazione.
«Non ho potuto fare a meno di notare l’assenza di specchi, Mrs. Duncan», aveva esordito con serenità, come se la faccenda non fosse poi molto importante; non voleva che la donna lo prendesse come un’offesa o un insulto al suo lavoro dopo solo un giorno dal loro arrivo. «Mi chiedevo se c’è qualche motivo particolare o se si tratta solo di una coincidenza.»
Mrs. Duncan, come Emma aveva immaginato, si era trovata in notevole difficoltà mentre cercava di formulare una risposta. «Ecco, milady, qui in campagna siamo molto superstiziosi. Certe credenze sono dure da estirpare, e… In assenza dei padroni, vedete, ci siamo presi la libertà di far sparire gli oggetti che ci spaventano. Comunque, se lo desiderate, farò del mio meglio per portarne uno in camera vostra. E in camera di miss Radcliffe, naturalmente», aveva aggiunto frettolosamente voltandosi verso l’istitutrice. «Devo solo rammentare dove li ho conservati… La mia memoria fa un po’ i capricci, e la casa è così grande!, dovete perdonarmi.»
La spiegazione, sempre se di tale si poteva parlare, non aveva soddisfatto la curiosità di Emma, né ebbe placato la sempre maggiore irritazione della signorina Radcliffe; e adesso, a distanza di sei giorni da quella conversazione, nessuna di loro aveva visto anche solo l’ombra di un piccolo specchio. L’istintiva vanità della ragazza le faceva odiare il fatto di doversi vestire senza poter controllare che l’abito le cadesse bene sui fianchi e che la gonna fosse decentemente drappeggiata, ma lamentarsi non sarebbe servito a procurarle uno specchio – era chiaro che la signora Duncan li aveva fatti sparire definitivamente, per quello che ne sapeva lei la donna poteva anche averli venduti – e soltanto l’idea di scomodare il padre per una simile faccenda la faceva vergognare: non voleva dargli l’impressione di essere incapace di cavarsela da sola, per quanto non fosse stata una sua decisione quella di andarsene a vivere in mezzo alla brughiera. Decise dunque di farne a meno, e pregò l’istitutrice di fare altrettanto.
Il terzo giorno, poi, Emma aveva fatto la conoscenza di Noah, il figlio dei signori Duncan. Quel mattino, con l’aiuto di Lydia, aveva indossato degli abiti più comodi ed era andata nelle stalle per vedere i cavalli – la governante le aveva detto che, oltre ai due mezzosangue che trainavano il calesse, ce n’erano altri due da sella, una vecchia giumenta che stava con loro da più di vent’anni e un magnifico Andaluso con un manto grigio chiazzato di bianco. Emma aveva trovato parecchio strana la presenza di un simile purosangue in un maniero disabitato – quei cavalli erano troppo eleganti per poter essere utilizzati come forza lavoro nelle campagne, in genere erano animali da corsa o da esibizione, che solo qualche eccentrico aristocratico avrebbe acquistato per tenerlo chiuso in una stalla – ma poteva anche darsi che fosse uno dei destrieri appartenuti alla vecchia famiglia che, diventato vecchio, non avesse altro destino oltre al macello che rimanere a pascolare nella quiete di una scuderia di campagna.
Era stato lì, nella stalla, che aveva incontrato il giovane figlio dei signori Duncan. Noah era un ragazzo pressappoco della sua età, alto, così magro che un vento appena più forte avrebbe potuto farlo volare via, con corti capelli biondo cenere e occhi grigi, perfettamente nella norma – non fosse stato, come Mrs. Duncan aveva già avuto modo di precisare, per la sua mente semplice. Ciò Emma lo avrebbe capito anche da sola: c’era qualcosa nel ragazzo, nel suo modo di muoversi, di rimanere sempre leggermente curvo, nei piccoli scatti che lo facevano somigliare a un topolino spaventato dalla sua stessa ombra, che indicava chiaramente come non si trovasse nella medesima dimensione di coloro che lo circondavano. In realtà, sembrava trovarsi in difficoltà tra i membri della sua specie, ragion per cui Emma non lo aveva mai visto gironzolare dentro casa, mentre era del tutto a suo agio con gli animali; probabilmente fu questo il motivo che lo spinse a non fuggire a nascondersi non appena Emma ebbe messo piede nella scuderia – la giovane era stata preceduta da uno scodinzolante Aramis, il quale ebbe inconsapevolmente il merito di trattenere Noah presso la sua padrona senza ch’egli venisse troppo spaventato da quel volto nuovo.
Scoprì che Noah non amava parlare, benché non fosse muto come Lydia: si esprimeva con frasi brevi, elementari, talvolta solo con mugugni o piccole parole, ma riusciva a farsi comprendere e a risultare amabile allo stesso modo. Erano rimasti insieme per un bel po’ – lui stava spazzolando il manto dei cavalli e aveva dato a Emma una setola per fare altrettanto, mentre Aramis giocava a infastidire gli altri animali che lo ignoravano con fare altezzoso – e quel lavoro parve aver fatto abituare Noah alla presenza della ragazza al punto che di tanto in tanto provava anche a parlarle, anche se solo per indicarle dove poteva trovare altri oggetti per la cura dei cavalli che potevano essere utili a entrambi. Emma lo aveva sorpreso un paio di volte a sollevare lo sguardo da ciò che stava facendo per guardarla di nascosto, per poi riabbassarlo immediatamente una volta resosi conto che anche lei lo guardava. Era come un bambino, timido e guardingo, ma non era sciocco; c’era qualcosa nei suoi occhi chiari che glielo rese subito caro.
Molto più tardi, quando Emma gli chiese se voleva seguirla all’interno della casa, poiché fuori iniziava a far freddo, Noah la intimorì con una reazione che lei proprio non si era aspettata: il ragazzo sgranò gli occhi e scosse violentemente la testa, più e più volte, coprendosi le orecchie con le mani e fissandola come se d’improvviso fosse terrorizzato da lei. Indietreggiò fin quando non ebbe incontrato l’ostacolo del muro, e lì crollò a terra per poi rannicchiarsi su se’ stesso, tremante.
«Nonononononononono…» Piagnucolava.
Emma non aveva idea di che cosa fare: non credeva di aver detto qualcosa di terribile, ed era preoccupata anche perché neppure i guaiti dispiaciuti di Aramis sembravano sortire sul giovane un qualche effetto calmante. Si chinò dunque accanto a lui, incerta, e alla fine gli posò una mano sulla spalla. «Ti chiedo scusa, Noah, non volevo spaventarti», mormorò piano, con dolcezza. «Non voglio obbligarti a fare qualcosa che non vuoi. Non piangere, per favore…»
A quelle parole – di cui la ragazza iniziava a dubitare che avesse inteso il senso – Noah si raddrizzò d’un colpo e si voltò verso di lei, con gli occhi arrossati e le lacrime che gli rigavano il viso. Le afferrò la mano con le sue e l’attirò verso di sé, stringendola tanto da farle male. «No. Tu. Casa… No», gracchiò, ansimando. Perfino i cavalli iniziarono a raschiare il terreno e a sbuffare, innervositi. Ignorandoli, Noah non le lasciò la mano e continuò a tirarla. «Stai qui. Con Noah. Niente casa… no», continuò a ripetere disperato, scrollandola ad ogni parola.
Adesso era lei che iniziava ad essere spaventata – non tanto per le sue parole, dato che non ne aveva compreso il significato, ma per l’apparente crisi isterica che Noah stava avendo. Come si sarebbe dovuta comportare per cercare di calmarlo? Non aveva alcuna esperienza… Inoltre la sua stretta era sempre più forte intorno alla sua mano, ed era impossibilitata anche ad andarsene per chiamare Mrs. Duncan – la donna avrebbe di certo saputo come tranquillizzare il figlio. Solo che lui non la lasciava! Noah aveva anzi nascosto il viso nel palmo aperto di Emma, continuando a balbettare cose senza senso e bagnandola di lacrime salate.
Fu il signor Duncan a trovarli, qualche minuto dopo. Egli era forse andato a chiamare suo figlio per cena, sapendo che l’avrebbe trovato nella scuderia, solo che di certo non si aspettava di trovarvi anche la giovane padrona; lo spettacolo che dovevano aver offerto ai suoi occhi opachi dovette essere ben strano, e misero.
«Milady!» Esclamò il custode, avvicinandosi a loro con un’andatura leggermente claudicante. «Milady, vi chiedo perdono… Buon Dio, Noah, smettila! Guarda me, figliolo, lascia andare lady Moore… Noah…» Fece, poggiando una mano decisa sulla spalla del ragazzo e riuscendo così ad attirare la sua attenzione. La sua voce era pacata e gentile e tuttavia risoluta, suadente, ed Emma si ritrovò ad ascoltarlo notevolmente sorpresa. «Va tutto bene, Noah, ci sono io. Puoi lasciare la mano di milady, Noah? Da bravo, le fai male.»
Forse fu quello a risvegliare il giovane da quella strana trance in cui era caduto. Liberò subito la mano di Emma e indietreggiò, spostando alternativamente lo sguardo da lei al padre con aria febbrile, intimidito e confuso. «Male? No, no, io bene, no male….» Replicò a mezza voce, gli occhi sgranati. Poi qualcosa scattò in lui, e un’espressione furiosa prese il posto di quella vacua. «Lui male! Lui, lui, lui
Emma non capiva che cosa stesse succedendo, ma sembrava averlo fatto Mr. Duncan. Alle parole accusatorie del figlio, infatti, egli era impallidito e aveva lanciato un’occhiata alla ragazza come a voler controllare la sua reazione, per poi prendere il volto di Noah tra le mani e obbligandolo, un po’ con le buone e un po’ con le cattive, a tacere e a dargli ascolto. «Sssht, Noah, non gridare, fai il bravo. Milady sta bene, milady è al sicuro, ma tu ti stai comportando male, vedi, molto male. Non si fa così, ricordi? Ricordi quello che ti dico sempre? Su, Noah, ripetilo. Ripetilo con me. Noah è bravo…»
Obbediente e all’improvviso del tutto calmo, il ragazzo pareva pendere dalle labbra del padre. «Noah è bravo…»
«Respira, figliolo, così, bravo. Dentro, fuori. Rilassati. Noah è bravo», insisté il signor Duncan.
«Noah è bravo», ripeté ancora l’altro, annuendo lentamente.
Emma era senza parole: non si era accorta nemmeno di star trattenendo il respiro, fin quando Noah non si fu voltato verso di lei, con un sorriso vacuo e timido sul volto, guardandola come se la vedesse per la prima volta. «Noah è bravo», le fece presente con aria soddisfatta, mentre il padre gli massaggiava la schiena per rasserenarlo.
Anche lei annuì, leggermente perplessa, accennando un sorriso a sua volta. Si accorse di essere ancora accucciata per terra solo quando Mr. Duncan, una volta in piedi, le porse una mano per aiutarla a rialzarsi. «State bene, milady? Io… non so davvero come scusarmi, il comportamento di mio figlio è stato imperdonabile. Spero… spero che non abbia esagerato…» Fece, perdendo d’improvviso l’atteggiamento deciso e risoluto che aveva fino a pochi attimi prima. Emma non poté fare altro che rassicurarlo che andava tutto bene, che non aveva intenzione di dare conseguenze all’accaduto e che forse era meglio non parlarne neppure con Mrs. Duncan, se lui voleva farle la cortesia. Parlarono ancora un po’, brevemente, poi la giovane si congedò e rientrò nel maniero, con mille pensieri per la testa; non capiva per quale motivo si era spaventata di più – per la crisi di Noah, per le strane parole che aveva detto o per il modo in cui il padre sembrava avergli fatto una sorta di lavaggio del cervello solamente sussurrandogli all’orecchio?
«Sono stanca», si disse tra sé, mordendosi le labbra. «Sono stanca. Mi abituerò a tutto questo, è… è solo questione di tempo.»
Sperava di abituarsene prima di avere a sua volta un crollo di nervi.

Il pomeriggio seguente, entrando nella biblioteca accompagnata da Miss Radcliffe per continuare la lezione interrotta prima di andare a pranzo, le due donne trovarono la vetrata che si affacciava sul giardino – alta due metri, larga quattro, a due ante e con un vetro talmente pesante che per aprirla di solito serviva uno strano attrezzo che aveva il signor Duncan – completamente spalancata: la pioggia entrava trasversalmente all’interno della casa e aveva inzuppato il tappeto e parte dei divani, per non parlare del vento che aveva rovesciato i vasi spargendo terra e germogli sul prezioso parquet.
«Vado a chiamare Mrs. Duncan», esclamò subito Miss Radcliffe, girando sui tacchi e correndo via in un frusciare di gonne.
Emma si guardò intorno, per un attimo disorientata, poi posò i suoi libri su un mobiletto accanto alla porta e corse alla vetrata, cercando di richiuderla il più possibile non senza sforzo, per impedire che altri oggetti si rovinassero. Il vento, purtroppo, spingeva nel verso contrario al suo, e la giovane ebbe come unico risultato quello di bagnarsi a sua volta. Imprecò sotto voce: le scarpe le scivolavano sul pavimento bagnato e rendevano vani i suoi tentativi di chiudere quella maledetta porta. Testardamente, continuò a spingere e tirare: sembrava trovare conforto nello sforzarsi così tanto per fare qualcosa che, comunque, sapeva di non essere in grado di fare – era un modo come un altro per sfogarsi, e lo accolse con gratitudine. Riuscì persino a smuovere la porta di qualche centimetro, benché ciò le costasse una notevole fatica a causa dello stretto corpetto che le toglieva il respiro e del vestito che aveva assorbito parecchia acqua.
«Signorina, sono tornata con… oh, per l’amor di Dio! Signorina, spostatevi da lì, vi verrà un malanno!»
Emma ignorò la sua istitutrice, rivolgendosi a Mrs. Duncan che prendeva il suo posto dietro la vetrata. «Volevo dare una mano, Mrs. Duncan, ma le mie scarpe scivolano sul pavimento, e…» Tentò di giustificarsi, sinceramente dispiaciuta di non poter fare di più.
La governante scosse il capo, spingendo gentilmente via la sua padrona. «Milady, non preoccupatevi. Lasciate che ce ne occupiamo io e Lydia… Voi andate ad asciugarvi, fate come dice Miss Radcliffe. Siete completamente inzuppata», fece la donna, che sembrò avere molta più forza di quanto si sarebbe detto nel richiudere la pesante porta a vetri.
«Come mai era aperto? Sarà entrato qualcuno?»
La governante sembrò arrossire leggermente, ma poteva anche essere un rossore causato dallo sforzo. «Ecco, io… ho paura che sia stato mio figlio, milady. Noah non è… Lo sapete, l’avete incontrato anche voi… Non ragiona come tutte le altre persone, milady. Deve essersi dimenticato di richiudere la porta, basta un niente perché si distragga, e questo tempaccio avrà fatto il resto…»
Precedendo Miss Radcliffe, Emma l’interruppe. «Non importa, signora Duncan, sono cose che capitano. L’importante è che non si sia rovinato nulla… mi dispiace solo che adesso ci sia da mettere in ordine tutto questo macello.» Non disse che trovava strano che Noah potesse essere entrato in casa di sua spontanea volontà, visto come era parso terrorizzato quando lei glielo aveva domandato; non disse neppure che, se non era riuscita lei a smuovere quella porta, dubitava che potesse esserci riuscito un ragazzo col fisico delicato di Noah. C’erano parecchie cose che stava iniziando a tenere per sé, in realtà, e questo le metteva addosso una certa inquietudine.



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La notte, contrariamente alle precedenti, Emma non riuscì a dormire a causa di strani rumori.
All’inizio aveva pensato ad una finestra lasciata aperta – Lydia poteva averla chiusa male, e adesso lo spiffero che penetrava dall’esterno faceva frusciare le tende e tintinnare la catena del lampadario; ma, dopo essersi alzata e aver controllato che gli scuri della sua stanza fossero ben sigillati, comprese che i fruscii provenivano da qualche altra parte. Il fuoco nel camino era ormai spento, ma non avrebbe svegliato la giovane cameriera per farglielo riaccendere – non aveva tutto quel freddo da non poter resistere fino al mattino dopo. Indecisa sul da farsi, poiché quei sussurri continuavano senza che si capisse da dove provenissero – se fosse stata un po’ più superstiziosa non avrebbe esitato a credere che i fantasmi degli antichi proprietari si aggiravano tra le mura della magione per terrorizzarne gli abitanti – Emma si avvolse nella vestaglia e andò a sedersi sul gradino della finestra, accoccolandosi come un gatto, in attesa di riprendere sonno.
Fuori aveva smesso di piovere, ma dalle grondaie gocciolavano ancora pesanti lacrime di acqua sporca: il picchiettio non le dava fastidio, anzi, lo trovava relativamente rilassante. La piccola falce di luna era coperta da grosse nuvole grigie che ne attutivano il già debole chiarore, sicché dalla finestra non si poteva vedere nulla della territorio circondante la magione. Di tanto in tanto si udiva il tubare roco di gufi o civette, il frullio d’ali degli uccellini che si rifugiavano nelle grondaie o nel sottotetto, il ticchettio dell’orologio – rumori in un certo senso rassicuranti, che si aggiungevano ai sinistri mormorii della casa che l’avevano svegliata.
All’improvviso, però, i sussurri tacquero: al loro posto, nel silenziò venutosi a creare serpeggiò suadente un’inattesa e ben strana musica. Udendola, Aramis si svegliò e rizzò le orecchie, all'erta: Emma lo osservò mentre si alzava, sollevando il muso per odorare chissà cosa, per poi raggiungere la porta e iniziare a grattarla con gli artigli, uggiolando e muovendo nervosamente la coda. Attese una manciata di secondi con la speranza che la musica tacesse e il cucciolo tornasse a dormire, ma essa invece continuava, e anzi se possibile diventava sempre più nitida. Sentendosi il cuore in gola, Emma scivolò giù dal ripiano della finestra, posando i piedi nudi sul legno freddo del pavimento e mettendosi in piedi; fissava la porta della stanza, titubante – avrebbe forse dovuto suonare il campanello e far accorrere Lydia o Mrs. Duncan per chieder loro chi avesse avuto la brillante idea di mettersi a suonare a mezzanotte passata? – e torturando il morbido cinto che le teneva chiusa la vestaglia.
Mentre decideva che fare, se rimanere nella sua stanza in attesa che tornasse il silenzio o se andare alla ricerca della fonte di quella musica, Emma rammentò una cosa che le aveva detto proprio la signora Duncan la prima notte in cui aveva dormito a Pemberley, e che in un primo momento non aveva degnato di particolare attenzione – se si escludeva l’educata curiosità con cui aveva ascoltato tutto ciò che le era stato detto e di cui ricordava solo la metà, stanca com’era dal viaggio – facendola passare in secondo piano.
«Permettetemi di darvi un consiglio, milady», aveva esordito la donna, con un misto di esitazione ed apprensione, prima che la giovane seguisse Lydia al piano superiore. «Non fatevi cogliere dal sonno in qualsiasi altra stanza del castello che non sia la vostra. Se avete piacere di trattenervi in biblioteca o nella serra fino a tardi, benché io ve lo sconsigli siete libera di farlo, ma non addormentatevi – affrettatevi a raggiungere la vostra camera! Pemberley è immensa ed antica, e noi della servitù siamo troppo pochi per poter essere sempre accanto a voi qualora ne aveste bisogno. Per cui, seguite il mio suggerimento, e usate questa cautela. Dormirei molto più serenamente sapendovi al sicuro nella vostra stanza, e anche voi, credetemi.»
Ora, Emma non capiva che cosa potesse esserci di male nell’addormentarsi su uno dei divani della biblioteca o in qualsiasi altra stanza della magione – fatto che peraltro le capitava spesso a casa, vista la sua abitudine di leggere fino a tarda notte o di scendere nelle cucine alla ricerca di uno spuntino notturno; e non vedeva neanche perché dovesse aver bisogno dei domestici a un’ora così tarda. L’avvertimento della governante sembrava più che altro una scusa per chiederle, in modo non tanto velato, di non aggirarsi per il castello una volta che tutti erano addormentati: sembrava quasi che la signora Duncan temesse i fantasmi, a giudicare da come si comportava! Ad ogni modo Emma non aveva intenzione di disobbedire alle loro regole, né tantomeno di ignorare volutamente i consigli che le erano stati dati: si trattava solo di voler scoprire da dove provenisse la musica e per quale motivo qualcuno, e soprattutto chi, si fosse messo a suonare il pianoforte nelle prime ore del mattino.
La musica proveniva dal pianterreno. Non appena aprì la porta della camera, affacciandosi sul corridoio, Emma udì le note musicali di quella sinfonia che non aveva mai udito prima giungere attutite dal piano inferiore, fatto che le confermò di non aver immaginato nulla. Inspirò ed espirò a fondo, poi, dopo essersi assicurata che Aramis non la seguisse, richiuse la porta della stanza alle sue spalle e avanzò lungo il corridoio, odiando il vecchio parquet che scricchiolava al suo passaggio. Le note tremolanti parevano uscire dalle pareti stesse… Era un’idea ridicola, ma si sarebbe potuto dire che i muri cantassero! Man mano che avanzava la musica acquisiva volume, spessore, tanto che la giovane si domandò come facessero gli altri abitanti della casa a non udire nulla e non andare a controllare.
La tristezza, la rabbia e la brama che permeavano ogni singola nota della misteriosa composizione la fecero rabbrividire, ma malgrado ciò non si perse d’animo e percorse tutto l’andito, raggiungendo le scale e scendendo, in punta di piedi, i gradini resi silenziosi da uno spesso tappeto. Era una musica che non credeva potesse appartenere a nessuno dei compositori di cui aveva letto né a opere a cui aveva assistito – e sì che lei si vantava di esserne una modesta appassionata e conoscitrice. L’intera situazione era, nel suo insieme, parecchio grottesca: aveva accantonato l’idea di qualcuno dei domestici come suonatore notturno senza neanche prenderla seriamente in considerazione, però insomma, chi altri poteva essersi infiltrato a Pemberley solo per avere il piacere di suonare il pianoforte della biblioteca?
Intanto, il componimento continuava. Emma aveva percorso rapidamente la Galleria delle Ossa – da lei stessa così ribattezzata per via dei macabri trofei di caccie passate che abbellivano le pareti bianche, creando dei giochi di ghirigori ed eleganti decori con le spoglie piccole e grandi delle prede appartenute ai vecchi proprietari – cercando di non lasciarsi spaventare dalle ombre che la sua fiammella gettava sulle tetre mura; tibie, artigli, corna e teschi di cervi, daini e volpi parevano allungarsi verso di lei come a volerla ghermire, mentre la musica per contro pareva incalzare e diventare più ossessiva ad ogni suo passo.
Infine raggiunse la sua meta. Si fermò poco distante dalla porta a due ante della biblioteca, gli occhi sgranati, la pelle dei suoi piedi nudi ricoperta di piccoli brividi a causa del gelo che regnava nel corridoio. In quel punto la musica era ormai chiara e distinta, come se si fosse trovava dietro le spalle del pianista: poteva quasi avvertire la furia con cui i tasti venivano premuti, un suono sordo e ritmico che fungeva da sottofondo alla melodia, e la curiosità di sapere chi stesse suonando e per quale motivo la colpì con lo stesso impeto che l’aveva spinta a lasciare la sua camera da letto per inseguire quello che a tutti gli effetti avrebbe potuto essere un semplice frutto del suo sonno.
Nella foga di risolvere quel mistero andò ad inciampare miseramente su di uno sgabello posto accanto alla soglia, e lo stridio che esso fece sulle assi del pavimento ove il tappeto non arrivava fece cessare la musica con un tonfo brusco e dissonante. Emma trattenne il fiato, pietrificata, cercando di udire il più piccolo rumore, ma ormai tutt’intorno a lei non c’era altro che un profondo silenzio. Attese ancora qualche minuto, poi prese coraggio e si avvicinò alla porta della biblioteca, afferrando la maniglia e abbassandola lentamente, sperando che lo scatto della serratura non fosse troppo rumoroso.
Le sue precauzioni si rivelarono inutili: la biblioteca era vuota. L’unico segno che qualcuno c’era stato davvero poteva essere, eventualmente, il coperchio del pianoforte sollevato sui tasti e lo sgabello in velluto leggermente spinto all’indietro – dettagli che Emma poté notare avanzando di qualche passo all’interno della sala, la candela ben in alto davanti a lei a proiettare un po’ di luce nella penombra. Girò lentamente su sé stessa, facendo attenzione a che la fiamma tremolante non si spegnesse, ma chiunque fosse stato il musicista misterioso, sempre se non l’aveva sognato, doveva essersene andato. Le parve di udire un fruscio alle proprie spalle, forse persino un alito d’aria, ma quando si voltò fu quasi delusa nel constatare che, davvero, non c’era nessun altro oltre lei.
«È la stanchezza», mormorò, cercando di convincersene. La sua voce quasi delusa parve rimbombare come un’eco nel silenzio, e un brivido – l’ennesimo – le corse giù lungo la schiena. Non c’era più nulla da fare, ormai, così non le rimase che ritornare a letto.

Fece dei sogni strani, che forse sarebbe più corretto definire incubi. Dapprima si trovò nuovamente a casa sua, ad Hambleton Abbey, ma tutto era nero e cupo e l’unica cosa che sfuggiva alle tenebre era il sarcofago in pregiato legno di noce della lady di Grantham ancora privo di coperchio, posto al centro di un enorme salone che non seppe riconoscere. Il suo subconscio aveva ricostruito con dovizia di dettagli ciò che un tempo era stata sua madre, nel giorno precedente la messa funebre – i capelli corvini elegantemente acconciati, per l’ultima volta, dalla sua cameriera personale, i gioielli che le erano stati messi durante il ciclo delle visite, l’elegante abito color panna con ricami neri sulle maniche e sul colletto, persino il leggero filo di maquillage sul volto cereo e spettrale – eppure pareva anche averne aggiunti di altri. C’era infatti, in un angolo della sala, un enorme organo a canne, di quelli che si vedono nelle chiese, e dal quale proveniva una musica straziante: la stessa, in effetti, che aveva udito nella biblioteca di Pemberley. Il compositore era di spalle, nulla più che un’ombra scura che pareva ondeggiare seguendo le note, ma c’era qualcosa che la spinse in quella direzione, forse curiosità o forse la magia di quello che avrebbe potuto definire solo un tetro requiem.
Eppure, prima che potesse fare un solo passo, una voce rimbombò nel salone, pietrificandola. «Non ti avvicinare, Emma. Sta’ lontana da lui.»
Emma conosceva quella voce, la conosceva bene; terrorizzata si voltò piano, vittima di quell’odiosa lentezza tipica degli incubi, e ciò che vide le fece spalancare la bocca in un grido muto. Sua madre, o ciò che era diventata, sedeva rigidamente all’interno del feretro, il viso immobile rivolto verso la figlia, gli occhi chiusi, la bocca che si apriva a fatica, un improvviso sudario che le avvolgeva le spalle a mo’ di peplo. «Sta’ lontana da lui. Lontana, lontana, lontana…» Ripeté lady Grantham, sollevando pesantemente un braccio ad indicare l’informe figura che non aveva smesso un solo istante di intonare quella lugubre melodia.
Gli occhi di Emma si fissarono sulle dita scheletriche della donna, sugli anelli che pendevano dalle ossa scarne come se fossero stati infilati su dei rametti secchi, e quando tornarono poi sul suo volto ecco che la carne era sparita, e al suo posto c’era soltanto un’orrenda sostanza cadente, decomposta. Labbra, naso e palpebre erano sparite, e ciocche sottili e fragili di capelli neri le ricadevano sugli occhi, grigi e opachi ma che conservavano ancora qualcosa dell’azzurro che lei stessa aveva ereditato.
Poi la bocca si aprì in una voragine scura, e lei sentì di nuovo quelle parole, pronunciate con una voce che pareva giungere dalle profondità stesse dell’inferno. «Lontana, lontana, lontana!»
Strillò, ma neanche stavolta produsse un solo suono. Venne risucchiata nell’oscurità, e quando riaprì gli occhi il sole invadeva la sua camera da letto passando dalle imposte spalancate.


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Emma interruppe all’improvviso la lettura delle Lettres persanes e infilò un dito in mezzo al volume, prima di chiuderlo e posarselo in grembo. Miss Radcliffe, che tanto per tenersi occupata stava rammendando della biancheria seduta sul divano lì accanto, sollevò lo sguardo dal suo lavoro e lo posò sulla ragazza, perplessa.
«Perché vi siete fermata, signorina? C’è qualche parola che non capite o forse Voltaire ha cessato di interessarvi?» Domandò, aggrottando la fronte.
Il tono vagamente severo dell’istitutrice strappò un breve sorriso a Emma, che tuttavia tornò seria fin troppo in fretta. «No, miss. È solo… C’è qualcosa di cui vorrei parlarvi fintanto che siamo sole.»
Quelle parole parvero conquistare l’intero interesse della donna, che abbandonò il suo ricamo e si avvicinò un po’ di più alla sua allieva. «Dovrei preoccuparmi, signorina?» Mormorò, abbassando d’istinto il tono della voce.
«Non lo so, miss Radcliffe.»
Brevemente le raccontò la vicenda del pianoforte della notte prima, di quella musica sconosciuta che non riusciva a togliersi dalla testa – l’istitutrice giurò e spergiurò di non aver udito nulla, e anzi di aver dormito come un sasso fin quando Lydia non l’aveva svegliata come al solito, alle sette di quel mattino – e di come, nel rientrare in camera sua, si sentisse stranamente osservata, quasi che qualcuno la spiasse da dietro le tende o dalle pareti stesse. Ritenne più opportuno tenere l’incubo per sé, per quanto l’avesse messa di malumore, e non ne fece parola.
«Chi potrebbe aver avuto accesso alla biblioteca in piena notte?» Domandò miss Radcliffe a mezza voce, iniziando seriamente a preoccuparsi per quell’ennesimo mistero. «Se anche fossero stati i Duncan, o Lydia, che motivo avrebbero avuto di fuggire non appena vi avessero sentito? A meno che non fosse quel ragazzo, quel giovane…»
«Noah, dite?» La ragazza non era molto convinta.
«Sì, precisamente. Potrebbe aver temuto che voi lo rimproveraste per essere ancora in giro a quell’ora e per avervi svegliata, no?»
Emma doveva ammettere che quella possibilità non le era neanche passata per la testa – un po’ perché non pensava che Noah potesse essere capace di suonare e un po’ perché, forse, inconsciamente voleva che tra quelle mura ci fosse una sorta di mistero da svelare. Se non altro l’avrebbe rassicurata sul fatto di non essere pazza… «Non so, miss… Potrebbe essere», disse comunque, scrollando appena le spalle.
La loro conversazione si interruppe quando la porta si aprì ed entrò Lydia, portando un secchio con dell’altra legna per attizzare il fuoco; Emma riprese quindi a leggere ad alta voce, faticando più del solito in quella lingua che in genere riusciva a ben padroneggiare, e pose fine alla recita solo dopo che la domestica ebbe lasciato nuovamente la stanza, rapida ed efficiente.
«Non credo che la ragazza avrebbe potuto raccontare ad altri ciò che avrebbe sentito», le fece allora notare miss Radcliffe, stranamente rigida nella sua postazione.
Emma scosse piano la testa. «Avrebbe comunque potuto scrivere, per quello che ne sappiamo. E comunque, signorina Jane, non vorrei davvero rischiare.» Erano poche le occasioni in cui Emma si rivolgeva alla sua istitutrice chiamandola per nome, e quando ciò accadeva in genere era perché la giovane aveva bisogno di poter instaurare un dialogo più confidenziale con l’altra donna che aveva contribuito alla sua crescita. «So che può sembrarvi sciocco, ma ho l’assurda sensazione che i domestici ci stiano nascondendo qualcosa», aggiunse in un sussurro, tamburellando con le dita sulla dura copertina del libro.
«Beh, di sicuro non si può dire che siano stati molto loquaci da quando siamo arrivate…» Convenne l’istitutrice, mordendosi un labbro. «Ma pensate che rischierebbero l’impiego per mentire al loro datore di lavoro? E mentire su che cosa, ad ogni modo? Sì, la faccenda degli specchi era strana, e continuo a credere che un filo di rigore in più non farebbe male, ma da qui a dire che ci stanno nascondendo qualcosa!...»
«C’è dell’altro», proseguì Emma con insistenza, interrompendo l’obiezione teoricamente logica della donna. «Questa mattina, quando mi sono svegliata… dovete sapere che ieri notte ho chiuso la porta a chiave una volta rientrata dalla biblioteca… Ecco, c’era un carillon sul comodino di fianco al mio letto. Un carillon che non avevo mai visto, e che vi posso assicurare che ieri sera non ci fosse! È di quelli piccoli e rotondi che sembrano dei portagioie, con il coperchio dorato e intarsiato che si solleva; la carica era già stata data, così quando ho sollevato il coperchio le figurine di un uomo e una donna, in posizione di walzer, hanno iniziato a muoversi in tondo seguendo la musica… La stessa musica che ho udito suonare dalla biblioteca, miss Radcliffe, su questo posso giurare e mettere la mano sul fuoco!»
«Questo è già più strano», mormorò miss Radcliffe, gli occhi leggermente più spalancati del solito ma non terrorizzata come invece Emma si era aspettata. «E siete sempre dell’idea di non parlarne con vostro padre? So che non volete disturbarlo, signorina, ma voi stressa siete preoccupata…»
«Ma non abbiamo nessuna prova, miss! Niente di niente, e lui non mi crederà. Penserà che sono ancora sconvolta dalla morte di mia madre», cosa peraltro vera, altrimenti come spiegare l’orribile sogno della notte prima?, «e comunque potrebbe licenziare i signori Duncan solo per farmi stare tranquilla. E se mi sbagliassi al riguardo, miss, credete che potrei dormire serena sapendo di aver rovinato loro la vita a causa di una mia discutibile congettura?»
«E allora che cosa suggerite di fare, signorina?»
Eccolo, il problema. Che cosa suggeriva di fare, lei? Aspettare e vedere che cos’altro sarebbe successo? Adesso che ci pensava alla luce del giorno, le stranezze della notte prima apparivano come semplici scherzi della sua mente, e se avesse dato retta al buonsenso e alla logica se ne sarebbe vergognata e avrebbe cercato di non pensarci più; ma ciò non cancellava il fatto che qualcuno prima si fosse introdotto a Pemberley – l’idea che potessero essere stati i domestici a suonare non riusciva proprio ad attecchire nelle sue elucubrazioni – e poi nella sua camera da letto, chiusa a chiave, per chissà quanto tempo e per fare chissà che cosa, oltre a lasciarle l’inquietante dono del carillon. Insomma, se non proprio spaventata Emma era perlomeno allarmata. Non poteva contare su suo padre, doveva fare a meno dei consigli e del conforto che usava darle sua madre, era spaventata e non c’era nessuno, all’infuori di miss Radcliffe, con cui parlare e sfogarsi; scrivere una lettera a Caledon, poi, era fuori discussione – non c’era ancora un’intimità simile, con il suo futuro marito, da spingerla a contattarlo in un caso del genere. Dunque come comportarsi?
«Sinceramente, miss, non ne ho la più pallida idea.»




















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Angolo Autrice.
Eccoci con il secondo capitolo! Ho fatto il prima possibile, considerando che il caldo remava contro di me :D
Parlando della storia, sto ancora ingranando: piano piano stiamo facendo conoscenza con i nostri personaggi nonché con la misteriosa abitazione che fa da sfondo all’intera vicenda. Presto ne sapremo sempre di più, non ci vorrà molto prima che i nostri eroi prendano la situazione in pugno e decidano di indagare :D Il genere noir-macabro-grottesco-eccetera è ancora nuovo per me, spero di riuscire a renderlo almeno un quarto di quanto vorrei! In caso contrario, si accettano suggerimenti ù__ù
Anyway!
Ci tengo a ringraziare tutti coloro che hanno iniziato a leggere questa storia, che l’hanno già aggiunta ai Preferiti e ai Seguiti dandomi quello sprint in più per continuare a scrivere. Un grazie particolare va a Sylphs, Homicidal Maniac e Se7f per aver recensito lo scorso capitolo <3
Alla prossima, care! Per oggi that’s all, folks ;D
Baci baci, la vostra
Niglia.
   
 
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