2.
The Aerie
Il tempo sembrava trascorrere
diversamente a Pemberley Manor: in mezzo a quelle lande desolate la
vita era
meno caotica e le giornate apparivano più lunghe, ma tutto
sommato i primi
giorni passarono in modo piuttosto sereno. Malgrado
l’iniziale scetticismo, sia
la signorina Radcliffe che Emma riuscirono ad abituarsi alla placida
routine
della campagna: entrambe avevano preso ad alzarsi presto per godere
appieno
delle mattine, dato che di sera faceva buio presto e non
c’era molto da fare in
casa, e presto iniziarono a sentir meno la nostalgia di Hambleton.
D’altra
parte, la magione offriva più distrazioni di ciò
che si poteva pensare: la
biblioteca era immensa, c’era una sala della musica e una
galleria dov’erano
state raccolte diverse opere d’arte – un vero
tesoro per il conte di Grantham,
se solo si fosse trovato là a sua volta – e un
giorno Emma aveva scoperto il
giardino d’inverno, ossia un intero salone adibito a serra
dove piante di ogni
genere e provenienza crescevano rigogliose tra sentierini di pietra e
fontane
con zampillo; Aramis aveva adorato quella sala. Aveva poi fatto persino
un paio
di belle giornate prive di vento e pioggia, durante le quali Emma aveva
suggerito alla sua istitutrice di uscire nel parco per esplorare anche
gli
esterni della magione e prendere un po’ di salutare aria
fresca: difatti,
benché Pemberley fosse splendidamente elegante e curata in
ogni piccolo
dettaglio, c’era qualcosa – Emma non avrebbe
davvero saputo dire che cosa – che
pareva celarsi nelle
pareti stesse, qualcosa di insano, che trasudava angoscia e tormento.
Fuori, invece,
avevano visto le aiuole intorno alla casa curate amorevolmente da Mr.
Duncan,
l’orticello coltivato sul retro, le stalle, persino i villini
sul confine della
proprietà che un tempo dovevano essere appartenuti ai
garzoni e ai vari
sovraintendenti che si occupavano del resto delle tenute di Pemberley,
adesso tristemente
abbandonati a loro stessi, rifugi per randagi e sporcizia.
Ben presto, dunque, l’iniziale
impressione di selvaggio abbandono che aveva avvertito nel mettere
piede a
Pemberley svanì davanti alla palese cura che vi era dietro
la pulizia e
l’ordine che regnavano nelle ali della casa da loro abitate:
non si poteva certo
dire che Mrs. Duncan e la timida Lydia se ne restassero con le mani in
mano. Eppure
tutto ciò non riusciva ancora a scacciare
quell’aura malsana che avvertiva
ogniqualvolta varcava la soglia del castello.
A proposito di Lydia, Emma aveva infine
appreso che la giovane cameriera tuttofare era priva del dono della
parola. La
signora Duncan, essendovi abituata, lo aveva dato per scontato e non
aveva
pensato di avvertire la padrona di quel piccolo dettaglio,
così i primi tempi
Emma aveva inteso il suo silenzio come una semplice forma di timidezza;
una
volta chiarito l’equivoco, tuttavia, la giovane lady si
affrettò a chiedere
scusa alla domestica se in qualche modo l’aveva offesa, ma
quest’ultima si
limitò ad arrossire violentemente senza neppure osare
guardarla negli occhi,
quasi che la colpa della sua condizione ricadesse su se’
stessa. Miss Radcliffe
non aveva trovato di suo gradimento neppure quella notizia, e
benché Emma
volesse alla donna un bene infinito doveva ammettere di iniziare a
trovarla un
po’ troppo intollerabile.
Il mattino successivo al loro
arrivo, mentre sedeva in sala da pranzo con miss Radcliffe, con la
quale ne
aveva già parlato mentre scendevano insieme al pianterreno,
Emma aveva inoltre portato
il problema degli specchi all’attenzione della governante
che, con Lydia,
serviva la colazione.
«Non ho potuto fare a meno di
notare l’assenza di specchi, Mrs. Duncan», aveva
esordito con serenità, come se
la faccenda non fosse poi molto importante; non voleva che la donna lo
prendesse come un’offesa o un insulto al suo lavoro dopo solo
un giorno dal loro
arrivo. «Mi chiedevo se c’è qualche
motivo particolare o se si tratta solo di
una coincidenza.»
Mrs. Duncan, come Emma aveva
immaginato, si era trovata in notevole difficoltà mentre
cercava di formulare
una risposta. «Ecco, milady, qui in campagna siamo molto
superstiziosi. Certe
credenze sono dure da estirpare, e… In assenza dei padroni,
vedete, ci siamo
presi la libertà di far sparire gli oggetti che ci
spaventano. Comunque, se lo
desiderate, farò del mio meglio per portarne uno in camera
vostra. E in camera
di miss Radcliffe, naturalmente», aveva aggiunto
frettolosamente voltandosi
verso l’istitutrice. «Devo solo rammentare dove li
ho conservati… La mia
memoria fa un po’ i capricci, e la casa è
così grande!, dovete perdonarmi.»
La spiegazione, sempre se di tale
si poteva parlare, non aveva soddisfatto la curiosità di
Emma, né ebbe placato
la sempre maggiore irritazione della signorina Radcliffe; e adesso, a
distanza
di sei giorni da quella conversazione, nessuna di loro aveva visto
anche solo
l’ombra di un piccolo specchio. L’istintiva
vanità della ragazza le faceva
odiare il fatto di doversi vestire senza poter controllare che
l’abito le
cadesse bene sui fianchi e che la gonna fosse decentemente
drappeggiata, ma
lamentarsi non sarebbe servito a procurarle uno specchio –
era chiaro che la
signora Duncan li aveva fatti sparire definitivamente, per quello che
ne sapeva
lei la donna poteva anche averli venduti – e soltanto
l’idea di scomodare il
padre per una simile faccenda la faceva vergognare: non voleva dargli
l’impressione
di essere incapace di cavarsela da sola, per quanto non fosse stata una
sua
decisione quella di andarsene a vivere in mezzo alla brughiera. Decise
dunque
di farne a meno, e pregò l’istitutrice di fare
altrettanto.
Il terzo giorno, poi, Emma aveva
fatto la conoscenza di Noah, il figlio dei signori Duncan. Quel
mattino, con l’aiuto
di Lydia, aveva indossato degli abiti più comodi ed era
andata nelle stalle per
vedere i cavalli – la governante le aveva detto che, oltre ai
due mezzosangue che
trainavano il calesse, ce n’erano altri due da sella, una
vecchia giumenta che stava
con loro da più di vent’anni e un magnifico
Andaluso con un manto grigio
chiazzato di bianco. Emma aveva trovato parecchio strana la presenza di
un
simile purosangue in un maniero disabitato – quei cavalli
erano troppo eleganti
per poter essere utilizzati come forza lavoro nelle campagne, in genere
erano
animali da corsa o da esibizione, che solo qualche eccentrico
aristocratico
avrebbe acquistato per tenerlo chiuso in una stalla – ma
poteva anche darsi che
fosse uno dei destrieri appartenuti alla vecchia famiglia che,
diventato
vecchio, non avesse altro destino oltre al macello che rimanere a
pascolare
nella quiete di una scuderia di campagna.
Era stato lì, nella stalla, che
aveva incontrato il giovane figlio dei signori Duncan. Noah era un
ragazzo
pressappoco della sua età, alto, così magro che
un vento appena più forte
avrebbe potuto farlo volare via, con corti capelli biondo cenere e
occhi grigi,
perfettamente nella norma – non fosse stato, come Mrs. Duncan
aveva già avuto
modo di precisare, per la sua mente semplice. Ciò Emma lo
avrebbe capito anche
da sola: c’era qualcosa nel ragazzo, nel suo modo di
muoversi, di rimanere sempre
leggermente curvo, nei piccoli scatti che lo facevano somigliare a un
topolino
spaventato dalla sua stessa ombra, che indicava chiaramente come non si
trovasse
nella medesima dimensione di coloro che lo circondavano. In
realtà, sembrava
trovarsi in difficoltà tra i membri della sua specie, ragion
per cui Emma non
lo aveva mai visto gironzolare dentro casa, mentre era del tutto a suo
agio con
gli animali; probabilmente fu questo il motivo che lo spinse a non
fuggire a
nascondersi non appena Emma ebbe messo piede nella scuderia –
la giovane era
stata preceduta da uno scodinzolante Aramis, il quale ebbe
inconsapevolmente il
merito di trattenere Noah presso la sua padrona senza ch’egli
venisse troppo spaventato
da quel volto nuovo.
Scoprì che Noah non amava parlare,
benché non fosse muto come Lydia: si esprimeva con frasi
brevi, elementari,
talvolta solo con mugugni o piccole parole, ma riusciva a farsi
comprendere e a
risultare amabile allo stesso modo. Erano rimasti insieme per un bel
po’ – lui
stava spazzolando il manto dei cavalli e aveva dato a Emma una setola
per fare
altrettanto, mentre Aramis giocava a infastidire gli altri animali che
lo
ignoravano con fare altezzoso – e quel lavoro parve aver
fatto abituare Noah
alla presenza della ragazza al punto che di tanto in tanto provava
anche a
parlarle, anche se solo per indicarle dove poteva trovare altri oggetti
per la
cura dei cavalli che potevano essere utili a entrambi. Emma lo aveva
sorpreso
un paio di volte a sollevare lo sguardo da ciò che stava
facendo per guardarla
di nascosto, per poi riabbassarlo immediatamente una volta resosi conto
che
anche lei lo guardava. Era come un bambino, timido e guardingo, ma non
era sciocco;
c’era qualcosa nei suoi occhi chiari che glielo rese subito
caro.
Molto più tardi, quando Emma gli
chiese se voleva seguirla all’interno della casa,
poiché fuori iniziava a far
freddo, Noah la intimorì con una reazione che lei proprio
non si era aspettata:
il ragazzo sgranò gli occhi e scosse violentemente la testa,
più e più volte, coprendosi
le orecchie con le mani e fissandola come se d’improvviso
fosse terrorizzato da
lei. Indietreggiò fin quando non ebbe incontrato
l’ostacolo del muro, e lì
crollò a terra per poi rannicchiarsi su se’
stesso, tremante.
«Nonononononononono…»
Piagnucolava.
Emma non aveva idea di che cosa
fare: non credeva di aver detto qualcosa di terribile, ed era
preoccupata anche
perché neppure i guaiti dispiaciuti di Aramis sembravano
sortire sul giovane un
qualche effetto calmante. Si chinò dunque accanto a lui,
incerta, e alla fine
gli posò una mano sulla spalla. «Ti chiedo scusa,
Noah, non volevo spaventarti»,
mormorò piano, con dolcezza. «Non voglio
obbligarti a fare qualcosa che non
vuoi. Non piangere, per favore…»
A quelle parole – di cui la
ragazza iniziava a dubitare che avesse inteso il senso – Noah
si raddrizzò d’un
colpo e si voltò verso di lei, con gli occhi arrossati e le
lacrime che gli
rigavano il viso. Le afferrò la mano con le sue e
l’attirò verso di sé,
stringendola tanto da farle male. «No. Tu.
Casa… No», gracchiò, ansimando. Perfino
i cavalli iniziarono a raschiare il
terreno e a sbuffare, innervositi. Ignorandoli, Noah non le
lasciò la mano e
continuò a tirarla. «Stai qui. Con Noah. Niente
casa… no», continuò a ripetere
disperato, scrollandola ad ogni parola.
Adesso era lei che iniziava ad essere
spaventata – non tanto per le sue parole, dato che non ne
aveva compreso il
significato, ma per l’apparente crisi isterica che Noah stava
avendo. Come si
sarebbe dovuta comportare per cercare di calmarlo? Non aveva alcuna
esperienza…
Inoltre la sua stretta era sempre più forte intorno alla sua
mano, ed era impossibilitata
anche ad andarsene per chiamare Mrs. Duncan – la donna
avrebbe di certo saputo
come tranquillizzare il figlio. Solo che lui non la lasciava! Noah
aveva anzi
nascosto il viso nel palmo aperto di Emma, continuando a balbettare
cose senza
senso e bagnandola di lacrime salate.
Fu il signor Duncan a trovarli,
qualche minuto dopo. Egli era forse andato a chiamare suo figlio per
cena, sapendo
che l’avrebbe trovato nella scuderia, solo che di certo non
si aspettava di
trovarvi anche la giovane padrona; lo spettacolo che dovevano aver
offerto ai
suoi occhi opachi dovette essere ben strano, e misero.
«Milady!» Esclamò il custode,
avvicinandosi a loro con un’andatura leggermente claudicante.
«Milady, vi
chiedo perdono… Buon Dio, Noah, smettila! Guarda me,
figliolo, lascia andare
lady Moore… Noah…»
Fece, poggiando
una mano decisa sulla spalla del ragazzo e riuscendo così ad
attirare la sua
attenzione. La sua voce era pacata e gentile e tuttavia risoluta,
suadente, ed
Emma si ritrovò ad ascoltarlo notevolmente sorpresa.
«Va tutto bene, Noah, ci
sono io. Puoi lasciare la mano di milady, Noah? Da bravo, le fai
male.»
Forse fu quello a risvegliare il
giovane da quella strana trance in cui era caduto. Liberò
subito la mano di
Emma e indietreggiò, spostando alternativamente lo sguardo
da lei al padre con
aria febbrile, intimidito e confuso. «Male? No, no, io bene,
no male….» Replicò
a mezza voce, gli occhi sgranati. Poi qualcosa scattò in
lui, e un’espressione
furiosa prese il posto di quella vacua. «Lui
male! Lui, lui, lui!»
Emma non capiva che cosa stesse
succedendo, ma sembrava averlo fatto Mr. Duncan. Alle parole
accusatorie del
figlio, infatti, egli era impallidito e aveva lanciato
un’occhiata alla ragazza
come a voler controllare la sua reazione, per poi prendere il volto di
Noah tra
le mani e obbligandolo, un po’ con le buone e un
po’ con le cattive, a tacere e
a dargli ascolto. «Sssht, Noah, non gridare, fai il bravo.
Milady sta bene,
milady è al sicuro, ma tu ti stai comportando male, vedi,
molto male. Non si fa
così, ricordi? Ricordi quello che ti dico sempre? Su, Noah,
ripetilo. Ripetilo
con me. Noah è bravo…»
Obbediente e all’improvviso del
tutto calmo, il ragazzo pareva pendere dalle labbra del padre.
«Noah è bravo…»
«Respira, figliolo, così, bravo. Dentro,
fuori. Rilassati. Noah è bravo»,
insisté il signor Duncan.
«Noah è bravo», ripeté ancora
l’altro,
annuendo lentamente.
Emma era senza parole: non si era
accorta nemmeno di star trattenendo il respiro, fin quando Noah non si
fu
voltato verso di lei, con un sorriso vacuo e timido sul volto,
guardandola come
se la vedesse per la prima volta. «Noah è
bravo», le fece presente con aria
soddisfatta, mentre il padre gli massaggiava la schiena per
rasserenarlo.
Anche lei annuì, leggermente perplessa,
accennando un sorriso a sua volta. Si accorse di essere ancora
accucciata per
terra solo quando Mr. Duncan, una volta in piedi, le porse una mano per
aiutarla a rialzarsi. «State bene, milady? Io… non
so davvero come scusarmi, il
comportamento di mio figlio è stato imperdonabile.
Spero… spero che non abbia
esagerato…» Fece, perdendo d’improvviso
l’atteggiamento deciso e risoluto che
aveva fino a pochi attimi prima. Emma non poté fare altro
che rassicurarlo che
andava tutto bene, che non aveva intenzione di dare conseguenze
all’accaduto e
che forse era meglio non parlarne neppure con Mrs. Duncan, se lui
voleva farle
la cortesia. Parlarono ancora un po’, brevemente, poi la
giovane si congedò e
rientrò nel maniero, con mille pensieri per la testa; non
capiva per quale
motivo si era spaventata di più – per la crisi di
Noah, per le strane parole
che aveva detto o per il modo in cui il padre sembrava avergli fatto
una sorta
di lavaggio del cervello solamente sussurrandogli
all’orecchio?
«Sono stanca», si disse tra sé,
mordendosi le labbra. «Sono stanca. Mi abituerò a
tutto questo, è… è solo
questione di tempo.»
Sperava di abituarsene prima di avere a sua volta
un crollo di nervi.
Il pomeriggio seguente, entrando
nella biblioteca accompagnata da Miss Radcliffe per continuare la
lezione
interrotta prima di andare a pranzo, le due donne trovarono la vetrata
che si
affacciava sul giardino – alta due metri, larga quattro, a
due ante e con un
vetro talmente pesante che per aprirla di solito serviva uno strano
attrezzo
che aveva il signor Duncan – completamente spalancata: la
pioggia entrava
trasversalmente all’interno della casa e aveva inzuppato il
tappeto e parte dei
divani, per non parlare del vento che aveva rovesciato i vasi spargendo
terra e
germogli sul prezioso parquet.
«Vado a chiamare Mrs. Duncan»,
esclamò subito Miss Radcliffe, girando sui tacchi e correndo
via in un frusciare
di gonne.
Emma si guardò intorno, per un
attimo disorientata, poi posò i suoi libri su un mobiletto
accanto alla porta e
corse alla vetrata, cercando di richiuderla il più possibile
non senza sforzo,
per impedire che altri oggetti si rovinassero. Il vento, purtroppo,
spingeva
nel verso contrario al suo, e la giovane ebbe come unico risultato
quello di
bagnarsi a sua volta. Imprecò sotto voce: le scarpe le
scivolavano sul
pavimento bagnato e rendevano vani i suoi tentativi di chiudere quella
maledetta porta. Testardamente, continuò a spingere e
tirare: sembrava trovare
conforto nello sforzarsi così tanto per fare qualcosa che,
comunque, sapeva di
non essere in grado di fare – era un modo come un altro per
sfogarsi, e lo
accolse con gratitudine. Riuscì persino a smuovere la porta
di qualche
centimetro, benché ciò le costasse una notevole
fatica a causa dello stretto
corpetto che le toglieva il respiro e del vestito che aveva assorbito
parecchia
acqua.
«Signorina, sono tornata con… oh,
per l’amor di Dio! Signorina, spostatevi da lì, vi
verrà un malanno!»
Emma ignorò la sua istitutrice,
rivolgendosi a Mrs. Duncan che prendeva il suo posto dietro la vetrata.
«Volevo
dare una mano, Mrs. Duncan, ma le mie scarpe scivolano sul pavimento,
e…» Tentò
di giustificarsi, sinceramente dispiaciuta di non poter fare di
più.
La governante scosse il
capo, spingendo gentilmente via la sua
padrona. «Milady, non preoccupatevi. Lasciate che ce ne
occupiamo io e Lydia…
Voi andate ad asciugarvi, fate come dice Miss Radcliffe. Siete
completamente
inzuppata», fece la donna, che sembrò avere molta
più forza di quanto si
sarebbe detto nel richiudere la pesante porta a vetri.
«Come mai era aperto? Sarà
entrato qualcuno?»
La governante sembrò arrossire
leggermente, ma poteva anche essere un rossore causato dallo sforzo.
«Ecco, io…
ho paura che sia stato mio figlio, milady. Noah non
è… Lo sapete, l’avete
incontrato anche voi… Non ragiona come tutte le altre
persone, milady. Deve
essersi dimenticato di richiudere la porta, basta un niente
perché si distragga,
e questo tempaccio avrà fatto il resto…»
Precedendo Miss Radcliffe, Emma
l’interruppe. «Non importa, signora Duncan, sono
cose che capitano.
L’importante è che non si sia rovinato
nulla… mi dispiace solo che adesso ci
sia da mettere in ordine tutto questo macello.» Non disse che
trovava strano
che Noah potesse essere entrato in casa di sua spontanea
volontà, visto come
era parso terrorizzato quando lei glielo aveva domandato; non disse
neppure
che, se non era riuscita lei a smuovere quella porta, dubitava che
potesse
esserci riuscito un ragazzo col fisico delicato di Noah.
C’erano parecchie cose
che stava iniziando a tenere per sé, in realtà, e
questo le metteva addosso una
certa inquietudine.
La notte, contrariamente alle
precedenti, Emma non riuscì a dormire a causa di strani
rumori.
All’inizio aveva pensato ad una
finestra lasciata aperta – Lydia poteva averla chiusa male, e
adesso lo
spiffero che penetrava dall’esterno faceva frusciare le tende
e tintinnare la
catena del lampadario; ma, dopo essersi alzata e aver controllato che
gli scuri
della sua stanza fossero ben sigillati, comprese che i fruscii
provenivano da
qualche altra parte. Il fuoco nel camino era ormai spento, ma non
avrebbe
svegliato la giovane cameriera per farglielo riaccendere –
non aveva tutto quel
freddo da non poter resistere fino al mattino dopo. Indecisa sul da
farsi,
poiché quei sussurri continuavano senza che si capisse da
dove provenissero –
se fosse stata un po’ più superstiziosa non
avrebbe esitato a credere che i
fantasmi degli antichi proprietari si aggiravano tra le mura della
magione per
terrorizzarne gli abitanti – Emma si avvolse nella vestaglia
e andò a sedersi
sul gradino della finestra, accoccolandosi come un gatto, in attesa di
riprendere sonno.
Fuori aveva smesso di piovere, ma
dalle grondaie gocciolavano ancora pesanti lacrime di acqua sporca: il
picchiettio
non le dava fastidio, anzi, lo trovava relativamente rilassante. La
piccola
falce di luna era coperta da grosse nuvole grigie che ne attutivano il
già
debole chiarore, sicché dalla finestra non si poteva vedere
nulla della
territorio circondante la magione. Di tanto in tanto si udiva il tubare
roco di
gufi o civette, il frullio d’ali degli uccellini che si
rifugiavano nelle
grondaie o nel sottotetto, il ticchettio dell’orologio
– rumori in un certo
senso rassicuranti, che si aggiungevano ai sinistri mormorii della casa
che l’avevano
svegliata.
All’improvviso, però, i sussurri
tacquero: al loro posto, nel silenziò venutosi a creare
serpeggiò suadente un’inattesa
e ben strana musica. Udendola, Aramis si svegliò e
rizzò le orecchie, all'erta: Emma lo osservò
mentre si alzava, sollevando il muso per odorare chissà
cosa, per poi raggiungere la porta e iniziare a grattarla con gli
artigli, uggiolando e muovendo nervosamente la coda. Attese una
manciata di secondi con la speranza che
la
musica tacesse e il cucciolo tornasse a dormire, ma
essa
invece continuava, e anzi se possibile diventava sempre più
nitida. Sentendosi
il cuore in gola, Emma scivolò giù dal ripiano
della finestra, posando i piedi
nudi sul legno freddo del pavimento e mettendosi in piedi; fissava la
porta
della stanza, titubante – avrebbe forse dovuto suonare il
campanello e far
accorrere Lydia o Mrs. Duncan per chieder loro chi avesse avuto la
brillante
idea di mettersi a suonare a mezzanotte passata? – e
torturando il morbido cinto
che le teneva chiusa la vestaglia.
Mentre decideva che fare, se
rimanere nella sua stanza in attesa che tornasse il silenzio o se
andare alla
ricerca della fonte di quella musica, Emma rammentò una cosa
che le aveva detto
proprio la signora Duncan la prima notte in cui aveva dormito a
Pemberley, e
che in un primo momento non aveva degnato di particolare attenzione
– se si
escludeva l’educata curiosità con cui aveva
ascoltato tutto ciò che le era
stato detto e di cui ricordava solo la metà, stanca
com’era dal viaggio – facendola
passare in secondo piano.
«Permettetemi di darvi un
consiglio, milady», aveva esordito la donna, con un misto di
esitazione ed
apprensione, prima che la giovane seguisse Lydia al piano superiore.
«Non
fatevi cogliere dal sonno in qualsiasi altra stanza del castello che
non sia la
vostra. Se avete piacere di trattenervi in biblioteca o nella serra
fino a
tardi, benché io ve lo sconsigli siete libera di farlo, ma
non addormentatevi –
affrettatevi a raggiungere la vostra camera! Pemberley è
immensa ed antica, e
noi della servitù siamo troppo pochi per poter essere sempre
accanto a voi
qualora ne aveste bisogno. Per cui, seguite il mio suggerimento, e
usate questa
cautela. Dormirei molto più serenamente sapendovi al sicuro
nella vostra
stanza, e anche voi, credetemi.»
Ora, Emma non capiva che cosa
potesse esserci di male nell’addormentarsi su uno dei divani
della biblioteca o
in qualsiasi altra stanza della magione – fatto che peraltro
le capitava spesso
a casa, vista la sua abitudine di leggere fino a tarda notte o di
scendere
nelle cucine alla ricerca di uno spuntino notturno; e non vedeva
neanche perché
dovesse aver bisogno dei domestici a un’ora così
tarda. L’avvertimento della governante
sembrava più che altro una scusa per chiederle, in modo non
tanto velato, di
non aggirarsi per il castello una volta che tutti erano addormentati:
sembrava
quasi che la signora Duncan temesse i fantasmi, a giudicare da come si
comportava! Ad ogni modo Emma non aveva intenzione di disobbedire alle
loro regole,
né tantomeno di ignorare volutamente i consigli che le erano
stati dati: si
trattava solo di voler scoprire da dove provenisse la musica e per
quale motivo
qualcuno, e soprattutto chi, si fosse
messo a suonare il pianoforte nelle prime ore del mattino.
La musica proveniva dal
pianterreno. Non appena aprì la porta della camera,
affacciandosi sul
corridoio, Emma udì le note musicali di quella sinfonia che
non aveva mai udito
prima giungere attutite dal piano inferiore, fatto che le
confermò di non aver
immaginato nulla. Inspirò ed espirò a fondo, poi,
dopo essersi assicurata che Aramis non la seguisse,
richiuse la porta della stanza
alle sue spalle e avanzò lungo il corridoio, odiando il
vecchio parquet che
scricchiolava al suo passaggio. Le note tremolanti parevano uscire
dalle pareti
stesse… Era un’idea ridicola, ma si sarebbe potuto
dire che i muri cantassero!
Man mano che avanzava la musica acquisiva volume, spessore, tanto che
la
giovane si domandò come facessero gli altri abitanti della
casa a non udire
nulla e non andare a controllare.
La tristezza, la rabbia e la
brama che permeavano ogni singola nota della misteriosa composizione la
fecero
rabbrividire, ma malgrado ciò non si perse d’animo
e percorse tutto l’andito,
raggiungendo le scale e scendendo, in punta di piedi, i gradini resi
silenziosi
da uno spesso tappeto. Era una musica che non credeva potesse
appartenere a
nessuno dei compositori di cui aveva letto né a opere a cui
aveva assistito – e
sì che lei si vantava di esserne una modesta appassionata e
conoscitrice. L’intera
situazione era, nel suo insieme, parecchio grottesca: aveva accantonato
l’idea
di qualcuno dei domestici come suonatore notturno senza neanche
prenderla
seriamente in considerazione, però insomma, chi altri poteva
essersi infiltrato
a Pemberley solo per avere il piacere di suonare il pianoforte della
biblioteca?
Intanto, il componimento
continuava. Emma aveva percorso rapidamente la Galleria delle Ossa
– da lei stessa
così ribattezzata per via dei macabri trofei di caccie
passate che abbellivano
le pareti bianche, creando dei giochi di ghirigori ed eleganti decori
con le spoglie
piccole e grandi delle prede appartenute ai vecchi proprietari
– cercando di
non lasciarsi spaventare dalle ombre che la sua fiammella gettava sulle
tetre
mura; tibie, artigli, corna e teschi di cervi, daini e volpi parevano
allungarsi verso di lei come a volerla ghermire, mentre la musica per
contro
pareva incalzare e diventare più ossessiva ad ogni suo passo.
Infine raggiunse la sua meta. Si fermò
poco distante dalla porta a due ante della biblioteca, gli occhi
sgranati, la
pelle dei suoi piedi nudi ricoperta di piccoli brividi a causa del gelo
che
regnava nel corridoio. In quel punto la musica era ormai chiara e
distinta, come
se si fosse trovava dietro le spalle del pianista: poteva quasi
avvertire la
furia con cui i tasti venivano premuti, un suono sordo e ritmico che
fungeva da
sottofondo alla melodia, e la curiosità di sapere chi
stesse suonando e per quale motivo la colpì con lo stesso
impeto che l’aveva spinta a lasciare la sua camera da letto
per inseguire
quello che a tutti gli effetti avrebbe potuto essere un semplice frutto
del suo
sonno.
Nella foga di risolvere quel
mistero andò ad inciampare miseramente su di uno sgabello
posto accanto alla soglia,
e lo stridio che esso fece sulle assi del pavimento ove il tappeto non
arrivava
fece cessare la musica con un tonfo brusco e dissonante. Emma trattenne
il
fiato, pietrificata, cercando di udire il più piccolo
rumore, ma ormai
tutt’intorno a lei non c’era altro che un profondo
silenzio. Attese ancora
qualche minuto, poi prese coraggio e si avvicinò alla porta
della biblioteca,
afferrando la maniglia e abbassandola lentamente, sperando che lo
scatto della
serratura non fosse troppo rumoroso.
Le sue precauzioni si rivelarono
inutili: la biblioteca era vuota. L’unico segno che qualcuno
c’era stato
davvero poteva essere, eventualmente, il coperchio del pianoforte
sollevato sui
tasti e lo sgabello in velluto leggermente spinto
all’indietro – dettagli che
Emma poté notare avanzando di qualche passo
all’interno della sala, la candela
ben in alto davanti a lei a proiettare un po’ di luce nella
penombra. Girò
lentamente su sé stessa, facendo attenzione a che la fiamma
tremolante non si
spegnesse, ma chiunque fosse stato il musicista misterioso, sempre se
non
l’aveva sognato, doveva essersene andato. Le parve di udire
un fruscio alle
proprie spalle, forse persino un alito d’aria, ma quando si
voltò fu quasi
delusa nel constatare che, davvero, non c’era nessun altro
oltre lei.
«È la stanchezza», mormorò,
cercando di convincersene. La sua voce quasi delusa parve rimbombare
come
un’eco nel silenzio, e un brivido –
l’ennesimo – le corse giù lungo la
schiena.
Non c’era più nulla da fare, ormai,
così non le rimase che ritornare a letto.
Fece dei sogni strani, che forse
sarebbe più corretto definire incubi. Dapprima si
trovò nuovamente a casa sua,
ad Hambleton Abbey, ma tutto era nero e cupo e l’unica cosa
che sfuggiva alle
tenebre era il sarcofago in pregiato legno di noce della lady di
Grantham ancora
privo di coperchio, posto al centro di un enorme salone che non seppe
riconoscere. Il suo subconscio aveva ricostruito con dovizia di
dettagli ciò
che un tempo era stata sua madre, nel giorno precedente la messa
funebre – i capelli
corvini elegantemente acconciati, per l’ultima volta, dalla
sua cameriera
personale, i gioielli che le erano stati messi durante il ciclo delle
visite, l’elegante
abito color panna con ricami neri sulle maniche e sul colletto, persino
il
leggero filo di maquillage sul volto cereo
e spettrale – eppure pareva anche averne aggiunti di altri.
C’era infatti, in
un angolo della sala, un enorme organo a canne, di quelli che si vedono
nelle
chiese, e dal quale proveniva una musica straziante: la stessa, in
effetti, che
aveva udito nella biblioteca di Pemberley. Il compositore era di
spalle, nulla
più che un’ombra scura che pareva ondeggiare
seguendo le note, ma c’era
qualcosa che la spinse in quella direzione, forse curiosità
o forse la magia di
quello che avrebbe potuto definire solo un tetro requiem.
Eppure, prima che potesse fare un
solo passo, una voce rimbombò nel salone, pietrificandola.
«Non ti avvicinare,
Emma. Sta’ lontana da lui.»
Emma conosceva quella voce, la conosceva
bene; terrorizzata si voltò piano, vittima di
quell’odiosa lentezza tipica
degli incubi, e ciò che vide le fece spalancare la bocca in
un grido muto. Sua madre,
o ciò che era diventata, sedeva rigidamente
all’interno del feretro, il viso
immobile rivolto verso la figlia, gli occhi chiusi, la bocca che si
apriva a
fatica, un improvviso sudario che le avvolgeva le spalle a
mo’ di peplo. «Sta’
lontana da lui. Lontana, lontana, lontana…»
Ripeté lady Grantham, sollevando pesantemente un braccio ad
indicare l’informe
figura che non aveva smesso un solo istante di intonare quella lugubre
melodia.
Gli occhi di Emma si fissarono
sulle dita scheletriche della donna, sugli anelli che pendevano dalle
ossa scarne
come se fossero stati infilati su dei rametti secchi, e quando
tornarono poi
sul suo volto ecco che la carne era sparita, e al suo posto
c’era soltanto un’orrenda
sostanza cadente, decomposta. Labbra, naso e palpebre erano sparite, e
ciocche
sottili e fragili di capelli neri le ricadevano sugli occhi, grigi e
opachi ma
che conservavano ancora qualcosa dell’azzurro che lei stessa
aveva ereditato.
Poi la bocca si aprì in una
voragine scura, e lei sentì di nuovo quelle parole,
pronunciate con una voce
che pareva giungere dalle profondità stesse
dell’inferno. «Lontana, lontana, lontana!»
Strillò, ma neanche stavolta
produsse un solo suono. Venne risucchiata
nell’oscurità, e quando riaprì gli
occhi il sole invadeva la sua camera da letto passando dalle imposte
spalancate.
Emma interruppe all’improvviso la
lettura delle Lettres persanes e
infilò un dito in mezzo al volume, prima di chiuderlo e
posarselo in grembo.
Miss Radcliffe, che tanto per tenersi occupata stava rammendando della
biancheria seduta sul divano lì accanto, sollevò
lo sguardo dal suo lavoro e lo
posò sulla ragazza, perplessa.
«Perché vi siete fermata,
signorina? C’è qualche parola che non capite o
forse Voltaire ha cessato di
interessarvi?» Domandò, aggrottando la fronte.
Il tono vagamente severo dell’istitutrice
strappò un breve sorriso a Emma, che tuttavia
tornò seria fin troppo in fretta.
«No, miss. È solo…
C’è qualcosa di cui vorrei parlarvi fintanto che
siamo sole.»
Quelle parole parvero conquistare
l’intero interesse della donna, che abbandonò il
suo ricamo e si avvicinò un
po’ di più alla sua allieva. «Dovrei
preoccuparmi, signorina?» Mormorò,
abbassando d’istinto il tono della voce.
«Non lo so, miss Radcliffe.»
Brevemente le raccontò la vicenda
del pianoforte della notte prima, di quella musica sconosciuta che non
riusciva
a togliersi dalla testa – l’istitutrice
giurò e spergiurò di non aver udito
nulla, e anzi di aver dormito come un sasso fin quando Lydia non
l’aveva
svegliata come al solito, alle sette di quel mattino – e di
come, nel rientrare
in camera sua, si sentisse stranamente osservata, quasi che qualcuno la
spiasse
da dietro le tende o dalle pareti stesse. Ritenne più
opportuno tenere l’incubo
per sé, per quanto l’avesse messa di malumore, e
non ne fece parola.
«Chi potrebbe aver avuto accesso
alla biblioteca in piena notte?» Domandò miss
Radcliffe a mezza voce, iniziando
seriamente a preoccuparsi per quell’ennesimo mistero.
«Se anche fossero stati i
Duncan, o Lydia, che motivo avrebbero avuto di fuggire non appena vi
avessero
sentito? A meno che non fosse quel ragazzo, quel
giovane…»
«Noah, dite?» La ragazza non era
molto convinta.
«Sì, precisamente. Potrebbe aver
temuto che voi lo rimproveraste per essere ancora in giro a
quell’ora e per
avervi svegliata, no?»
Emma doveva ammettere che quella
possibilità non le era neanche passata per la testa
– un po’ perché non pensava
che Noah potesse essere capace di suonare e un po’
perché, forse,
inconsciamente voleva che tra quelle mura ci fosse una sorta di mistero
da svelare. Se non altro l’avrebbe
rassicurata sul fatto di non essere pazza… «Non
so, miss… Potrebbe essere»,
disse comunque, scrollando appena le spalle.
La loro conversazione si
interruppe quando la porta si aprì ed entrò
Lydia, portando un secchio con
dell’altra legna per attizzare il fuoco; Emma riprese quindi
a leggere ad alta
voce, faticando più del solito in quella lingua che in
genere riusciva a ben
padroneggiare, e pose fine alla recita solo dopo che la domestica ebbe
lasciato
nuovamente la stanza, rapida ed efficiente.
«Non credo che la ragazza avrebbe
potuto raccontare ad altri ciò che avrebbe
sentito», le fece allora notare miss
Radcliffe, stranamente rigida nella sua postazione.
Emma scosse piano la testa. «Avrebbe
comunque potuto scrivere, per quello che ne sappiamo. E comunque,
signorina
Jane, non vorrei davvero rischiare.» Erano poche le occasioni
in cui Emma si
rivolgeva alla sua istitutrice chiamandola per nome, e quando
ciò accadeva in
genere era perché la giovane aveva bisogno di poter
instaurare un dialogo più confidenziale
con l’altra donna che aveva contribuito alla sua crescita.
«So che può
sembrarvi sciocco, ma ho l’assurda sensazione che i domestici
ci stiano
nascondendo qualcosa», aggiunse in un sussurro, tamburellando
con le dita sulla
dura copertina del libro.
«Beh, di sicuro non si può dire
che siano stati molto loquaci da quando siamo
arrivate…» Convenne l’istitutrice,
mordendosi un labbro. «Ma pensate che rischierebbero
l’impiego per mentire al
loro datore di lavoro? E mentire su che cosa, ad ogni modo?
Sì, la faccenda
degli specchi era strana, e continuo a credere che un filo di rigore in
più non
farebbe male, ma da qui a dire che ci stanno nascondendo
qualcosa!...»
«C’è dell’altro»,
proseguì Emma
con insistenza, interrompendo l’obiezione teoricamente logica
della donna. «Questa
mattina, quando mi sono svegliata… dovete sapere che ieri
notte ho chiuso la
porta a chiave una volta rientrata dalla biblioteca… Ecco,
c’era un carillon
sul comodino di fianco al mio letto. Un carillon che non avevo mai
visto, e che
vi posso assicurare che ieri sera non ci fosse! È di quelli
piccoli e rotondi
che sembrano dei portagioie, con il coperchio dorato e intarsiato che
si
solleva; la carica era già stata data, così
quando ho sollevato il coperchio le
figurine di un uomo e una donna, in posizione di walzer, hanno iniziato
a
muoversi in tondo seguendo la musica… La
stessa musica che ho udito suonare dalla biblioteca, miss
Radcliffe, su
questo posso giurare e mettere la mano sul fuoco!»
«Questo è già più
strano»,
mormorò miss Radcliffe, gli occhi leggermente più
spalancati del solito ma non
terrorizzata come invece Emma si era aspettata. «E siete
sempre dell’idea di
non parlarne con vostro padre? So che non volete disturbarlo,
signorina, ma voi
stressa siete preoccupata…»
«Ma non abbiamo nessuna prova,
miss! Niente di niente, e lui non mi crederà.
Penserà che sono ancora sconvolta
dalla morte di mia madre», cosa peraltro
vera, altrimenti come spiegare l’orribile sogno della notte
prima?, «e comunque
potrebbe licenziare i signori Duncan solo per farmi stare tranquilla. E
se mi
sbagliassi al riguardo, miss, credete che potrei dormire serena sapendo
di aver
rovinato loro la vita a causa di una mia discutibile
congettura?»
«E allora che cosa suggerite di
fare, signorina?»
Eccolo, il problema. Che cosa
suggeriva di fare, lei? Aspettare e vedere che cos’altro
sarebbe successo? Adesso
che ci pensava alla luce del giorno, le stranezze della notte prima
apparivano
come semplici scherzi della sua mente, e se avesse dato retta al
buonsenso e
alla logica se ne sarebbe vergognata e avrebbe cercato di non pensarci
più; ma
ciò non cancellava il fatto che qualcuno prima si fosse
introdotto a Pemberley –
l’idea che potessero essere stati i domestici a suonare non
riusciva proprio ad
attecchire nelle sue elucubrazioni – e poi nella sua camera
da letto, chiusa a chiave, per chissà
quanto tempo
e per fare chissà che cosa, oltre a lasciarle
l’inquietante dono del carillon. Insomma,
se non proprio spaventata Emma era perlomeno allarmata. Non poteva
contare su
suo padre, doveva fare a meno dei consigli e del conforto che usava
darle sua
madre, era spaventata e non c’era nessuno,
all’infuori di miss Radcliffe, con
cui parlare e sfogarsi; scrivere una lettera a Caledon, poi, era fuori
discussione – non c’era ancora
un’intimità simile, con il suo futuro marito, da
spingerla a contattarlo in un caso del genere. Dunque come comportarsi?
«Sinceramente,
miss, non ne ho la
più pallida idea.»
_______________________________________________
Angolo Autrice.
Eccoci con il secondo
capitolo! Ho fatto il prima possibile,
considerando che il caldo remava contro di me :D
Parlando della storia, sto
ancora ingranando: piano piano
stiamo facendo conoscenza con i nostri personaggi nonché con
la misteriosa
abitazione che fa da sfondo all’intera vicenda. Presto ne
sapremo sempre di
più, non ci vorrà molto prima che i nostri eroi
prendano la situazione in pugno
e decidano di indagare :D Il genere noir-macabro-grottesco-eccetera
è ancora
nuovo per me, spero di riuscire a renderlo almeno un quarto di quanto
vorrei! In
caso contrario, si accettano suggerimenti ù__ù
Anyway!
Ci tengo a ringraziare
tutti coloro che hanno iniziato a
leggere questa storia, che l’hanno già aggiunta ai
Preferiti e ai Seguiti
dandomi quello sprint in più per continuare a scrivere. Un
grazie particolare
va a Sylphs, Homicidal Maniac e
Se7f per
aver recensito lo scorso capitolo <3
Alla prossima, care! Per
oggi that’s all, folks ;D
Baci baci, la vostra
Niglia.