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Autore: ness6_27    17/08/2013    0 recensioni
[To Love-Ru - Trouble -]
[To Love-Ru - Trouble -]Io sono un’assassina. Niente potrà cambiare questo dato. O almeno credo. Io sono stata la assassina più temuta dell'universo, e penso di poter essere ancora definita tale. Vengo chiamata Oscurità d'Oro, perché io porto con me la lucerna dell'oscurità. O almeno, la portavo, prima che la stella di questo pianeta, che qui chiamano Sole, me la spegnesse. [...] Voglio studiare da vicino questo pianeta con le sue tradizioni, i suoi modi, e tutte quelle cose che lo rendono un pianeta tanto particolare da colpirmi così.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Si era fatto piuttosto tardi. Era ormai calata la sera. I due ragazzi uscirono dall'izakaya pieni, avendo mangiato le prelibatezze di quel ristorante. Rito non si era accorto di averci messo così tanto tempo.
Rito: «Cavolo, è notte. Ci siamo attardati assai.»
A dire il vero non avevano mangiato per tutto il tempo. Semplicemente dopo il pasto stesero molto tempo a parlare, avendo avuto il consenso dei proprietari del locale, praticamente vuoto quella sera. Parlarono di un sacco di cose più o meno frivole, continuarono il discorso su Mishima...Rito non si scordò delle parole dette da Yami fuori dal ristorante, quelle parole che causarono in lei tutto quello sgomento. Cercò di saperne di più da lei. Lei negò, sviò, disse fandonie. Non voleva dirgli tutte quelle cose. Non in quel momento almeno. Ma Rito non mollò di certo. Anche fuori dal ristorante si chiese che le era successo. Decise però di lasciarle un attimo di pace e incominciò un altro discorso.
Rito: «Tu che devi fare ora?»
Yami: «Nulla in particolare.»
Rito: «Non dormi?»
Yami: «Non dormo ormai da un bel po' di anni. Se mi addormento, divento vulnerabile, posso essere uccisa in qualsiasi momento, o peggio, posso essere controllata, perché anche la mente si addormenta.»
Rito: «Non mi sembra un buon motivo per non dormire.»
Yami: «Io non ne ho bisogno, punto.»
Lei disse queste parole, ma in realtà era da un bel po' che nelle ore notturne lei provava una certa sensazione di spossatezza che le rendeva gli occhi pesanti. Succedeva quando lei rimaneva fuori dalla sua navicella durante la notte. Dentro la sua nave spaziale, lei, colpita da tutte quelle luci che il veicolo possiede, rimaneva desta e si buttava in tutta una serie di scartoffie, o in racconti, o in resoconti delle sue missioni. Cominciava a provare rabbia per quei resoconti. Nella sua scrittura vedeva l'odio. Tra le righe di un testo scritto in caratteri non comprensibili all'uomo, lei intravedeva l'indifferenza e il suo astio nei confronti di tutto, di tutti, dell'universo intero. Quando invece restava fuori nelle ore notturne il cielo buio, e le luci di una città metà assonnata e metà scatenata dalla movida giovanile la facevano perdere nei suoi pensieri, una cosa che lei non aveva mai fatto prima di venire qui. Non le era mai capitato di passare al vaglio della sua memoria un ricordo per analizzarlo. La cosa la trovò insolita, ma all'inizio la ritenne solo una inutilità, una perdita di tempo e anche di energia. Si sforzava nel fare questa cosa. Come se non fosse una cosa normale. Poi notò che nel fare questa azione lei poteva osservare un ricordo da più punti di vista, soppesare pro e contro di un gesto passato, stabilire se questo fosse giusto o meno. Scoprì che poteva pure ipotizzare se un evento fosse andato in un altro modo, e scoprì che poteva immaginare tutto quello che voleva. Una cosa simile, ma con limiti ben più ampi, la sapeva fare, ed era un'arte che aveva affinato da più e più tempo: l'arte di prevedere gli avversari. Usare l'immaginazione però la affaticava, era una cosa che davvero non era solita fare. E quando lo faceva di notte la testa le si faceva pesante, gli occhi piano piano si chiudevano soli e lei finiva in un dormiveglia tormentato. Se lei rimaneva fuori con Rito, quella sera non sarebbe stata diversa.
Rito: «Beh, io dovrei passare dal konbini. Ma posso andarci quando voglio, facciamoci una passeggiata invece.»
Yami: «Preferirei di no.»
Rito: «Come mai?»
Come mai? Forse la paura di provare quella forma di stanchezza davanti a Rito la impauriva? La prendeva come una debolezza e non voleva sentirsi debole davanti a lui. Rito cercò di scuoterla punzecchiando l'orgoglio.
Rito: «Non avrai certo paura di andare in giro di notte qui. O forse hai paura del  buio?»
Yami sapeva che tutte queste cose non erano vere, e non c'era bisogno che le dimostrasse a Rito. Ma perché non appena udii quelle parole si mosse immediatamente accettando la proposta di Rito?
Yami: «Andiamo.»
Incominciarono a passeggiare e arrivarono ben presto in riva ad un fiume, quello dove Rito e Sairenji si ritrovavano spesso. A tutti e due li colpì lo stesso bisogno. Quello di pensare. Rito pensò ai suoi incontri con Sairenji. Quanto quegli incontri erano colmi di dolcezza, fiducia e intesa? Lui era lì solo per lei, solo per cercare di portarle il sorriso, di comprendere cosa le piacesse o meno. Lei era lì solo per Rito, far sì che lui riuscisse finalmente a dichiararsi e per  spronarlo nei suoi obiettivi. Quegli incontri volevano dire tanto, ma tanto. Yami invece rifletteva su quella passeggiata che stava compiendo con Rito e della sua stanchezza. Quella stanchezza diventava un impedimento sempre più forte in lei, giorno dopo giorno, incominciava a non svanire più, e Yami pensava che questa stanchezza non sarebbe passata a meno che lei non avesse dormito. Ma lei non voleva dormire. La parte più atavica di lei le diceva che non doveva dormire. Ad un certo punto nemmeno si accorse di aver messo male un piede e di essere sul punto di cadere. Rito riuscì ad accorgersi in tempo della cosa e riuscì a sorreggerla.
Rito: «Stai bene?»
Yami: «Sì, sto bene...»
Ma Yami non stava bene, o almeno così credeva. Magari era solo senza forze.
Rito fece accomodare Yami su una panchina e la lasciò riposare lì.
Yami: «Vai a prendere quello che devi al konbini nel mentre.»
Rito: «Non ce n'è bisogno. Aspetto qui mentre tu ti riprendi.»
Yami: «Io sto bene!»
Yami sì alzò indispettita. Rito le fece cenno di sedersi.
Rito: «Ma almeno siediti!»
Yami: «Ma a te cosa interessa di quello che ho?!»
Rito: «È..è da un po' che sei strana. Certe volte non ti fai sentire per giorni e certe volte vai da Mikan come se non la vedessi da un secolo. Certe volte ti vedo in biblioteca leggere, ma hai uno sguardo talmente preoccupato che mi sembra tu stia pensando completamente ad altro.»
Yami: «Sono affari tuoi quello che penso o faccio?»
Rito: «No, ma io mi preoccupo...e poi, mi sembri sempre più...»
Yami: «Più che?!»
Rito: «Stanca.»
Yami spalancò gli occhi fissando Rito. I suoi capelli librarono in aria, e ci volle un secondo perché arrivasse un pugno in faccia a Rito. Ma Rito riuscì a opporsi leggermente e non cadde come capitava di solito, semplicemente barcollò un po' più indietro.
Rito: «Non riesci più a darmi un pugno decente? Non hai più forza?»
Yami: «Non sono cazzi tuoi! L'ho fatto apposta, e se vuoi te lo do seriamente un pugno, che ti farà rimangiare la stronzata che hai appena detto!»
Il viso di Rito si riempì di un misto di preoccupazione e di stupore. Yami senza forza? Yami che parla in questo modo? Yami...che Yami è questa? Di certo Rito non riconosceva Yami nella ragazza bionda che aveva davanti, e perse la pazienza.
Rito: «Me ne vado. E non intendo dire al konbini. Me ne vado e basta. 'Notte.»
Rito, con la testa bassa, girò i tacchi e si avviò verso il konbini. Voleva ancora fare la spesa, ma dopo voleva semplicemente tornare a casa. Cosa aveva fatto per meritarsi tutto questo? Lui si preoccupava e riceveva solo scortesia. Non capiva che con quella sua preoccupazione metteva a disagio le persone, ad un certo punto. O forse questo lo capiva, ma era confuso, perché questa non era semplice scortesia.
Yami: «Ma tu che cazzo devi capire?!»
Yami urlò contro la figura ormai lontana di un ragazzo moro che con passo silenzioso si allontanava deluso. Yami sapeva della delusione di Rito, ma questa è nata dalla sua incapacità di comprendere quello che lei prova in questo momento. «È semplicemente - pensava - un umano di merda.» Yami cercò di calmarsi. Era stanca. Tanto, troppo stanca. Si sedette sulla panchina di prima e incominciò a respirare profondamente. Cos'era quella sensazione? Qualcosa  le stava riempiendo gli occhi, e voleva uscire. Voleva rigargli le guance. Lei cercava di calmarsi, voleva che tutto questo non accadesse. Non sapeva precisamente perché, qualcosa le diceva fosse sbagliato. Ma lei non riusciva a trattenere quelle che già sapeva si chiamassero lacrime. Incominciarono a rigarle il viso. Prima una, solitaria sulla guancia destra, poi una compagna sulla sinistra. Non scoppio proprio a piangere. Singhiozzò. Fece scendere alcune lacrime successive alle prime due e poi riuscì a calmarsi. Restò sdraiata su quella panchina per un bel po'. 
 
Rito aveva appena finito di fare la spesa. Uscì dal konbini con l'umore più nero di prima. Si avviò rapidamente verso casa. La notte era annuvolata fin da quando lui e Yami uscirono dall'izakaya. Ma il tempo di entrare al konbini e uscire il tempo era decisamente peggiorato. Aveva incominciato a piovere talmente forte che il livello dell'acqua del fiume era salito sopra una certa soglia, e, benché distante dai livelli di guardia e lontanissimo da rompere gli argini, poteva destare una certa preoccupazione. Lui era senza alcuna protezione dall'acqua, e cercò di velocizzare per arrivare subito a casa. Salì su uno dei ponti che sovrasta il fiume. Si trovava su quello che per lui era il lato destro, quando un'arancia cadde a terra e piano piano si diresse verso il centro. «Ci voleva anche questa sfiga.» pensò Rito mentre si avviò per raccogliere il frutto. Era piuttosto buio e non si accorse che nel prendere l'arancia la stava per schiacciare. Per evitare di fare ciò, spostò il piede, ma perse l'equilibrio. L'altro piede cercò un punto di appoggio nell'asfalto bagnato e sporco, e scivolò. Il sacchetto della spesa fece il resto, attorcigliandosi tra le sue gambe. Cadde all'indietro. La salvezza fu il muro di protezione che si trovava alle sue spalle. Ma quel muro era in pietra, ed era ormai rovinato dalle intemperie di chissà quanti anni. Lo sorresse un attimo, per poi sfracellarsi sotto di lui. Restò in equilibrio tra il ponte e il vuoto. Ma l'equilibrio era molto precario, Rito sapeva che se non faceva qualcosa sarebbe caduto di sotto. Mise una mano su quello che rimaneva del muro di protezione, tentando di tirarsi su. Il ponte in cambio gli restituiva macerie, ma nessun supporto. Ad un certo punto Rito cedette. Non che cadde di sotto. Era stanco, infreddolito e deluso, e Rito non era mai stato particolarmente coraggioso. Semplicemente la situazione divenne insostenibile per lui e perse conoscenza. Allora, il suo corpo apparentemente senza vita incominciò a scivolare di sotto. E più il baricentro si spostava, più velocemente lui si avvicinava alla caduta, secondo una maledetta legge fisica. Non poteva più far nulla, era incosciente, e come tale cadde nel fiume. La corrente era molto forte, e in pochi secondi lui si allontanò di molto dal ponte. Era finito a pancia in giù e incominciò a inghiottire, fino a quando il bisogno di aria non gli aprì i polmoni, che si riempirono di acqua. Ciò causò la sua morte. Lo avrebbero ritrovato qualche tempo dopo, freddo, col viso smorto e pallido. Lo avrebbero ritrovato senza vita, avrebbero ritrovato un cadavere, magari immobile nel suo rigor mortis. Mikan avrebbe pianto per giorni, e Yami le sarebbe stata vicino, probabilmente. Le avrebbe raccontato di quando da bambini lui la supportava nei momenti di tristezza, di come si divertivano a fare le ragazzate, di come cercavano di passare il tempo nei lunghi periodi in cui i genitori non vi erano, di come lei provasse qualcosa per suo fratello, forse non biologico, che non era probabilmente semplice affetto fraterno. Avrebbe fatto tutto questo con le lacrime agli occhi. Le lacrime sarebbero finite sulla tuta di Yami, e si sarebbero sporcate di un liquido corporeo dopo chissà quanto tempo. Questa sarebbe stata la sua fine.
 
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Note dell'autore.
Questo capitolo non doveva originariamente finire così. Doveva essere molto più ampio e trattare temi diversi. Mi sono accorto nella scrittura che incominciavo a incentrarmi sempre su "altro" e che per trattare i temi originali del capitolo avevo parlato di "cose che capitano", come le incomprensioni, o le cadute da un ponte. E mi sono detto:"Ma perché non far finire il capitolo così, con queste cose che capitano?" Ecco qui, un capitolo molto più snello dei precedenti, un po' più frivolo, tolta la morte di Rito. Non vi lascio a dire molto sul prossimo capitolo, dico solo che è probabilmente quello finale, e che credo ci impiegherò molto a scriverlo. Per il resto, lasciate un commento se vi va(anche se finora non ce n'è stato uno, non mi stancherò mai di ripeterlo), e stay tuned! A presto! 
P.S. La formattazione di questo capitolo è un po' differente da quella dei capitoli precedenti. Questo perché ho usato un altro editor di testi. Desidererei sapere se è più gradita questa formattazione o quella precedente.
  
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