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Autore: hithisisfrollah    20/08/2013    3 recensioni
Deirdre sembra un nome difficile da portare. Finché non scopri che significa "pericolo". Probabilmente questa storia vi farà schifo. Vi consiglio di starne lontano se non avete pazienza, l'inizio è un'angoscia ed è lastricata da problemi ed incazzature, ma è la mia vita e ho deciso di raccontarla. Soprattutto perché verso la metà diventa divertente, grazie ad un tipo dal cognome bizzarro e la sua band di tipi loschi.
Genere: Demenziale, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chapter III – Sometimes Goodbye Is The Only Way

 

«Quindi hai ospitato un tizio random a casa tua dopo averlo salvato da un attacco di panico?» Jess chiese, palesemente sbalordita.
«Sì, Jess, proprio così.» risposi seccata dal suo tono sorpreso. Misi via uno scatolone di Jack Daniel’s che avevo appena svuotato, posizionando le bottiglie in fila sulla mensola alle mie spalle. Mancavano circa tre ore all’apertura del Blizzard.
Jess era seduta su un alto sgabello dall’altra parte del bancone, i gomiti piantati sulla superficie di vetro e le mani a reggerle la testa. Era il ritratto della bellezza. Non so se avete presente quelle ragazze che sono leggiadre e divertenti e spontanee e ogni loro gesto sembra il risultato della condensa di tutta la carineria del mondo. Beh, Jess era un’esponente massima delle categoria e, chissà come, era mia amica. Anzi, oserei dire che, per uno strano scherzo del destino, quelle come lei sono sempre amiche di quelle come me.
«Beh, stai facendo passi avanti. Da quant’è che non stai con qualcuno, piccola hobbit?» ridacchiò poi. Ecco, e le piaceva anche Il Signore Degli Anelli. Non mi sorprendeva che Will avesse una cotta per lei.
«Ma gli affari tuoi no, eh?» borbottai, facendola ridere di nuovo.
«Okay, quindi minimo un anno.» glissò, traendo le sue conclusioni da sola. Scossi la testa sospirando e decisi di lasciar correre.
«Era almeno carino questo tipo?» ripartii alla carica poco dopo.
Sbuffai, schiantando un ennesimo scatolone sul bancone. Mentre rimuovevo lo scotch dai bordi, mi tornarono in mente i suoi occhi. L’unica cosa che davvero avevo guardato, quella mattina. Era passata una settimana ormai, ma non un attimo senza che ripensassi a quella notte, al racconto di Alex, alle lacrime che davanti a me si era vergognato di versare. Un po’ anche al suo sorriso mesto.
«Era un tipo.» mi limitai a rispondere. Jess sembrò sospettosa, ma l’arrivo di Will la distrasse.
«Eccolo, il bello di mamma!» esclamai ritrovando il mio solito fare da stronza, tirandogli uno strofinaccio dritto in faccia.
«Vaffanculo, irlandese.» rise lui, rilanciandomelo.
 
 
La serata procedette tranquilla come al solito, tanta gente, tanti drink e musica tecno e house a palla. Will si destreggiò in alcune dimostrazioni da vero barman e io fui addirittura capace di non versare i cocktail addosso a nessuno. Un record per me. Mi aspettavo minimo un aumento.
Verso mezzanotte il locale era diventato soffocante, stavamo a fatica dietro a tutti gli ordini.
«Due vodka con ghiaccio, per favore.» sentii dire, mentre ancora finivo un drink. Annuii e soffiai un «Arrivano».
Alzai lo sguardo e persi un battito. Due occhi scuri, resi ancora più profondi dalle luci soffuse del locale, mi scrutarono con sorpresa.
«Hey.» fece Alex.
«Ciao.» quasi mormorai, incespicando e rischiando di rovesciare la bottiglia di vodka.
Dissimulai e preparai i due bicchieri. «Ecco.»
Alex portò il suo alle labbra e bevve un sorso.
Non parlammo, ci lanciavamo occhiate furtive. Iniziai a chiedermi se si stesse pentendo di avermi raccontato tutte quelle cose. Se volesse solo far finta di non conoscermi, per dimenticare quella notte.
Quando il DJ mise su uno degli ultimi tormentoni, il bancone si svuotò e tutti si riversarono sulla pista da ballo.
Alex restò seduto di fronte a me e io cercai di ignorare il fatto che continuasse a guardarmi.
«Pensi che berrai quella vodka o dovrò farlo io?» ridacchiò, e nascose il suo mezzo sorriso prendendo un altro sorso dal suo bicchiere.
«Non posso bere mentre sono in servizio. Grazie per il pensiero, comunque.» dissi.
Asciugai un paio di bicchieri, la vodka restò lì a pochi centimetri dal gomito di Alex.
«Perché sei qui?» chiesi a bruciapelo. «Anzi… perché sei qui da solo
Alex si toccò distrattamente il cappellino che portava ben calcato in testa. Poi scosse la testa.
«In questa settimana ho pensato tutto il tempo a quella notte. E mi sono ricordato di questo locale. Ci sono passato davanti oggi e ho pensato di entrarci. A dire il vero non pensavo ci lavorassi.» spiegò tenendo lo sguardo fisso sul suo bicchiere.
Rimasi in silenzio, e Alex fece lo stesso.
Prima che potessi ripensarci, afferrai il bicchiere di vodka e la buttai giù d’un fiato. Alex mi rivolse un sorriso divertito.
«Grazie del drink. Spero solo non mi licenzino ora.» gli dissi, guardandomi in giro. Non sapevo esattamente perché avessi deciso di bere, forse volevo solo finirla con quel silenzio.
«Quando stacchi?» chiese Alex, distrattamente.
Controllai il mio orologio. «Tra mezz’ora.»
«Ti aspetto, allora.» fece lui, poggiando i gomiti sul bancone e guardandomi con un piccolo sorriso.
«Perché?»
Lui scrollò le spalle. «Non voglio tornare a casa.»
 
Appena infilai il chiodo di pelle e salutai Will, Alex mi fu accanto e uscimmo dal locale ancora stracolmo di gente.
Decidemmo di fare una passeggiata per il centro, “così come due vagabondi”, aggiunsi io. E lasciammo cadere un ennesimo silenzio tra noi, continuando a calpestare lentamente l’asfalto.
Tutto sembrava così naturale nella sua innegabile anormalità. Camminavamo a pochi centimetri di distanza, le mani affondate nelle tasche e lo sguardo perso. Le luci tutte intorno mi distraevano, mi facevano quasi credere che fossimo lì per un motivo.
«Mi piace il tuo nome.» disse Alex di punto in bianco. «Tu non sei americana, vero?»
Scossi la testa. «Sono irlandese. Da qualcosa come sette generazioni. E grazie, comunque.» ridacchiai.
«Wow.» disse, impressionato. «E come sei finita nel Maryland?»
«Come mai tutte queste domande, Alex?» chiesi a mia volta, guardandolo con un sopracciglio inarcato.
Lui guardò davanti a sé e respirò un po’.
«Tu sai più cose di me di quante ne sappiano molte delle persone che vedo ogni giorno. E, sorprendentemente, non mi è pesato parlartene. Ti ho guardato e ho capito che potevi comprendere.» mi sorrise ancora. «Adesso voglio conoscerti, Deirdre.»
Lo guardai negli occhi, mi fermai a cercare un barlume di scherzo nel suo sguardo. Un luccichio di malizia, qualcosa che lo smascherasse e mi desse una buona ragione per girare i tacchi e dimenticarmi di lui.
Ma c’era solo un respiro trattenuto dietro quelle iridi scure. Mi accorsi che ci eravamo fermati uno di fronte all’altra lì, in mezzo alla strada, senza parlare.
Abbassai la testa e ripresi a camminare, seguita da Alex.
«Non c’è molto da dire su di me. Dopo il liceo ho deciso che la mia città mi stava stretta e l’America mi è sembrata l’unica soluzione.» mormorai.
«Io sono stato in Irlanda. Non riesco a pensare che qualcuno voglia andarsene da lì.»
«A volte le persone ci sorprendono.»
«Suppongo di sì.» mormorò Alex, riprendendo poi a guardare davanti a sé, come a cercare di mettere a fuoco qualcosa di molto lontano. «Ma perché lavori in quel posto? Non penso proprio che fosse la tua idea di “sogno americano”.»
Non lo disse con la sfumatura di cattiveria che ci si aspetterebbe accompagnasse una domanda così. Lo disse con un pizzico di preoccupazione e curiosità.
Ma io non ero sicura di volergli raccontare. Non ancora, almeno.
«Per ora mi va bene.» dissi e scrollai le spalle. Poi mi venne in mente una sua domanda, una delle tante confuse che mi aveva rivolto quella mattina. Quindi tu non sai chi sono?
«E tu, che lavoro fai?» chiesi, prima che potesse farlo lui.
Alex quindi ridacchiò. «Si vede che non sei di qui.» mi guardò un secondo e poi riprese: «Ho una band con i miei tre migliori amici.»
Persi un battito. O forse un paio.
«E tu suoni?»
«E canto.» disse, con orgoglio.
Abbassai la testa, sorridendo a mia volta. Ecco perché era stato in Irlanda, era in tour.
«Ti piace la musica?» mi domandò, un po’ dubbioso.
Scoppiai a ridergli in faccia. «Ma che domanda è?» e ricominciai a ridere, quasi non riuscivo a smettere.
Alex si unii, imbarazzato.
«Dire che mi piace la musica è un eufemismo.» gli risposi, quando riacquistai un minimo di controllo.
Alex mi sorrise, felice. Incredibile come, avendo tirato in ballo l’argomento, entrambi avessimo acquistato sicurezza.
«Cantami qualcosa.» sbottai, voltandomi verso di lui con un gran sorriso.
Lui sgranò gli occhi, scuotendo la testa. «No e no. Cosa dovrei cantarti poi, scusa?»
«E va bene,» dissi sbuffando e alzando un po’ gli occhi al cielo. «Comincio io e tu mi segui se conosci la canzone.»
Stetti un po’ a pensare, sfogliando album per album nella mia testa. Poi mi decisi.
«Starry nights, city lights coming down over me»
Alex rise un po’ e, con sguardo sorpreso, mi seguii. «Skyscrapers and stargazers in my head.»
Quando le nostre voci si unirono, sentii un piacevole calore sulle guance e lo stomaco accartocciarsi.   
«Are we we are, are we we are the waiting unknown?» cantammo insieme. Alex aveva una voce bellissima.
Continuammo a ripetere quel ritornello per non so quanto, ridendo e facendo credere alle persone che ci passavano accanto che eravamo ubriachi.
Alla fine altre risate troppo fragorose presero il sopravvento sulla canzone e ci fermammo a riprendere fiato.
«Perciò ti piacciono i Green Day.» disse, fingendo un certo distacco.
Annuii. «Sono la mia band preferita.»
«Anche la mia. Mi hanno ispirato a metter su la mia band.» confessò Alex con un sorriso.
Abbassando la testa, lo sguardo mi cadde sul mio orologio, che segnava le tre e dieci del mattino.
«Merda, è tardi.» imprecai sottovoce.
«Scusami, ti ho trattenuto un sacco.» disse Alex, infilandosi di nuovo le mani in tasca, imbarazzato.
Gli rivolsi un piccolo sorriso, era così carino tutto impacciato.
«Non preoccuparti. Mi sono divertita.» lo rassicurai, imitando il suo gesto.
«Almeno lascia che ti accompagni a casa, Deirdre.» si offrii subito dopo, allungando il braccio sfiorando il mio.
«Non posso lasciare la macchina al locale, domani devo tornarci e-»
«Ti posso venire a prendere io.» si offrii di nuovo Alex, stoppandomi.
Non sapevo cosa dire, né cosa fare. Alex era carino, divertente e adoravo come pronunciava il mio nome. Eppure ero restia a lasciarlo avvicinare a me fino a questo punto. Una spina incuneata in fondo alle mie intenzioni le fece deviare. Un dolore familiare iniziò a far capolino dalle costole.
«N-non ce n’è bisogno. Grazie davvero, o-ora devo andare.» lo salutai frettolosamente, sgusciando dall’angolo creato dalla nostra vicinanza e avviandomi a passo spedito nella direzione da cui eravamo arrivati.
 
 
Appena aprii la porta di casa, il buio e il vuoto mi ridiedero il benvenuto. Mi appoggiai al mobile all’entrata e respirai profondamente.
«Hai fatto bene. È stata la scelta giusta.» sussurrai a me stessa.
Mi trascinai fino al divano, dove mi raggomitolai e lasciai che il vuoto nel petto mi divorasse un altro po’.     
Lo sapevo, ripensai a denti stretti. Non ero fatta per stare con qualcuno. Non potevo distruggere tutto di nuovo. Non potevo distruggere Alex.
Il dolore mi cullò verso un sonno di soli incubi. 

  
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