UNA NUOVA VITA, UNA NUOVA ALBA.
La
mattina successiva sembrava aver spazzato via i ricordi della sera che,
inequivocabilmente, nessuno dei quattro ragazzi sarebbe riuscito a dimenticare.
Era stato tutto così strano ma, al contempo, era come
se fossero diventati consapevoli di una realtà che, fino a quel momento, non li
aveva nemmeno sfiorati. E’ pur vero che non esiste alcuna persona che prova a
vedere i fatti sotto una luce diversa, sotto dei punti di vista diversi. Analogamente, anche i galerians non si erano mai
resi conto di cosa voleva veramente dire essere una vittima, delle
volte uccisa con la più spietata freddezza. Era come se Adhara gli
avesse donato qualcosa, come se gli avesse donato una parte di sé stessa.
Quest’ultima
si alzò piuttosto di buon ora, quando non era ancora
giunta l’alba. Riusciva a sentire che dentro di lei qualcosa stava cambiando.
Per la prima volta, dopo lunghi anni, si era destata da sola e gli incubi che sognava perennemente ogni notte erano spariti. Sapeva di
aver condiviso con gli altri una parte importante di sé e, con tutte le
emozioni che vorticavano nella testa, non riusciva a rendersi conto se, in
realtà, era sollevata oppure angosciata. Paura, sicurezza, dolore, gioia,
tristezza, consapevolezza. Il suo cervello, in quel momento era un’insieme di tutte queste cose.
Indecisa
su cosa fare, si indirizzò verso il piccolo e sudicio
balcone. Affacciandosi, vide la vita cittadina che si stava svegliando dal suo pacifico
sonno. Pian piano, tutti gli esseri umani, per loro natura
frenetici ed irrequieti, cominciavano ad andare al lavoro, sebbene fosse ancora
buio. Ma le strade erano così diverse da come le si
potevano vedere di giorno. Per la prima volta, dopo tanto tempo, si
fermò ad osservare ciò che la circondava.
Vide
le luci dei palazzi adiacenti che, a mano a mano, si accendevano. Sulle strade,
prima vuote e pericolosamente silenziose, cominciavano a riversarsi i
lavoratori. Una leggera brezza sembrava ripulire l’aria pesante e satura di
smog che caratterizzava l’intera Michelangelo City.
Per un momento, come un fulmine a ciel sereno, si ricordò del suo periodo
passato all’orfanotrofio. Fu sorpresa, sapeva bene che i galerians creati da un
corpo umano non avevano ricordi però arrivò tutto
senza il minimo preavviso.
Ricordò
i campi verdi spazzati dal vento, le tre vecchie sequoie che sembravano
osservarti dall’alto della loro imponenza. Il sole che ti
accarezzava dolcemente la pelle, mentre eri fuori a giocare. Sebbene la sua non fosse stata un’infanzia felice, riusciva
a ricordarsi soltanto i momenti piacevoli passati in compagnia delle suore. Era
come se la scatola rossa dei suoi ricordi si fosse aperta su una pagina scritta
in bella grafia, dove c’erano disegnati delle belle margherite.
D’un tratto provò un’infinita tristezza. Da quando abitava in città, non
si era più potuta fermare ad osservare le meraviglie
che la natura offriva. Non si era più emozionata nel vedere un tramonto, odiava
la neve e non le interessava vedere il cielo blu di una giornata estiva,
tappezzato qua e là di candide nuvole bianche.
Quando il sole cominciò a sorgere, segnando l’inizio di un nuovo
giorno, Adhara alzò gli occhi. Tutto il suo viso era circondato da un’aura di
placida tranquillità e i suoi capelli biondi, con la luce, avevano assunto degli
splendidi riflessi dorati. Talmente belli che potevano
sembrare irreali, talmente flessuosi da apparire come un cuscino di morbide
piume. I suoi occhi blu come il mare risplendevano
e, allo stesso tempo, infondevano speranza. Non sembrava più la malinconica e
irritante Adhara, ma appariva quasi come una visione, come quella di Venere che
nasce dalle acque. Delicata al punto di poterla
rompere anche solo sfiorandola.
“Ben
svegliata, sorella mia.” Disse Alhena, sorridendole dolcemente.
“Da
quanto sei qui?” Le domandò l’altra, continuando a fissare il vuoto.
“In
fondo, ha così importanza saperlo? Quello che conta non è sapere da quanto…ma
come sono stata qui.” Si appoggiò al ballatoio. “Ti do
fastidio, se guardo il sole assieme a te?”
Fece
cenno di no con la testa. Rimasero per alcuni minuti così, l’una accanto
all’altra, mentre quella grossa palla gialla che era il sole, lentamente, si
stava alzando dallo zenit. Alhena chiuse gli occhi, cercando di scacciare il
freddo mattutino che, lentamente, si impossessava
delle sue membra.
“Ti
ricordi?” Esordì allora Adhara.
“Cosa?” Chiese, incrociando le braccia al petto.
“Anche quel giorno c’era un’alba così bella. Così bella da
togliere il fiato. Ma quell’alba, per noi, avrebbe
significato smettere di esistere, smettere si esistere come persone, come
esseri umani. Nessuna di noi sapeva se avrebbe visto il tramonto, se sarebbe
giunta la notte eterna. Ma forse, se siamo ancora qui,
qualcuno lassù in cielo non si è dimenticato della nostra vita. Perché, in
fondo, al mondo ci siamo anche noi due.”
Lo
sguardo di Alhena diventò improvvisamente mesto.
Sapeva bene a cosa faceva riferimento la sorella. Si ricordava, come se fosse
stato ieri, cosa era successo in quella piovosa mattina di dicembre. Lei ed
Adhara erano scappate dall’orfanotrofio e, dopo tanto
vagare, erano giunte alla conclusione di dire basta a quella squallida vita che
facevano. Quella mattina avevano deciso di diventare galerians, per dimenticare
quello che era e quello che sarebbe stato.
“Non
potrei mai dimenticare. Quel giorno, che noi chiamavamo ‘avvenire’, è diventato la mia persecuzione. Da un po’ di tempo mi
capita di riflettere a questo proposito e, ogni volta, giungo
alla conclusione che sarebbe stato meglio morire piuttosto che diventare
quella che sono. In fondo non rimpiango le mie scelte, perché quando le ho
fatte ero sicura, ma se prima di farle avessi saputo…magari il mio futuro
sarebbe stato diverso.” Abbassò la testa, spostando
alcuni ciuffi di capelli dagli occhi.
“Io
non credo che sia così. A quel tempo eravamo due ragazzine che si chiedevano
cosa aveva da offrire il mondo. E, per quanto ci
sforzassimo, la risposta era sempre la stessa: niente. Questo mondo continua a
non offrirci niente di veramente concreto, ma ci siamo guadagnate un posto in esso. Con sangue e sudore.”
“Forse
hai ragione.” Sospirò, sorridendo. “Però vorrei tanto non essere mai diventata
la bestia che sono.”
“Anche io Alhena, anche io vorrei tanto non essere diventata
così. Perché, prima di diventare un galerian, io non ero così dannatamente
cinica e fredda.” Dalla sua voce emergeva tutto l’odio
che poteva provare per Nova, per quella macchina che non aveva fatto altro che darle una vita di schiavitù, dove l’unico dono era quello di
adorarla e servirla. Improvvisamente, sentì la mano di Alhena
sulla sua spalla.
“Questa…è
la nostra alba. Ogni giorno mi sento bene nel sapere che qualcuno ha creato
tutto questo, tutta questa incredibile meraviglia. E se dobbiamo lottare per qualcosa che non sia la nostra
missione, allora lottiamo per questo mondo, perché qualcuno non faccia lo
stesso errore che abbiamo fatto noi. Ricordati, Adhara, che anche se non lo
dico spesso, ti voglio bene.” Sorrise, poi le diede un
bacio sulla guancia.
“Anche io ti voglio…bene, sorella mia.” Ricambiò quel
semplice gesto con tutto l’affetto di cui era capace.
Erian
aveva assistito a tutta la scena. Si era svegliata presto perché desiderava
andare in biblioteca a cercare qualche informazione sulla Straub High School e, passando davanti al balcone, le aveva viste.
Non sapeva perché si era fermata ed aveva ascoltato ma,
sentire quelle parole uscire dalle loro labbra, l’avevano resa irrequieta.
Loro, che più di chiunque altro, erano famose per la loro
crudeltà, erano in realtà due semplici sorelle capaci di emozionarsi di
fronte ad una stupida alba? Andò via, cercando di scacciare
quei brutti pensieri che, inconsciamente, avevano già preso posto nel
suo cuore.
CONTINUA…