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Autore: KeyLimner    26/08/2013    0 recensioni
L'umanità ha deciso, dopo tanto tempo passato a distruggere il suo pianeta sempre più martoriato, di adottare finalmente l'estrema misura che appare da tempo l'unica soluzione alla loro situazione insanabile: ritornare alle origini, nella Foresta. E gli abitanti di questa gigantesca Foresta - in particolare, la giovane e vivace Sole - diventano protagonisti, facendosi portavoci dell'incredulità del loro popolo di fronte all'assurdità dell'ultima Città rimasta sulla Terra.
Un futuro che è in realtà un ritorno al passato. Sarà una scelta giusta?
Genere: Fantasy, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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«Jared?».
Eccola. Era impossibile non riconoscere la sua voce. Lo sarebbe stato in qualunque altro luogo… e ancor più in quella grotta dove di certo a nessun altro sarebbe saltato in mente di venire a cercarlo.
Quella voce aveva un che di estremamente affascinante che non avrebbe saputo spiegare. Era piuttosto grave per una ragazza, e calda; sembrava vibrasse toccando profondità misteriose. E poi… il modo in cui pronunciava il suo nome! Non aveva mai sentito nessuno pronunciarlo a quel modo. Ci aveva messo un bel po’ a insegnarle ad articolare quelle due sillabe nel modo corretto, e ancora adesso lei sembrava avere qualche difficoltà: la “J” le usciva piuttosto strascicata, la “R” dura e sonora (non c’era stato verso di addolcirla), mentre la “D” risuonava in modo sordo. Tra le sue labbra, il nome che era abituato a sentire tante volte da non farci più neanche caso acquistava tutto un altro significato… gli sembrava nuovo, e inaspettatamente degno di interesse.
Tante cose di lei lo inquietavano, ma la sua voce… aveva il potere di farlo rabbrividire con un sussurro.
Mentre faceva quelle riflessioni, la vide apparire all’imboccatura della grotta in un bagno di luce. Come sempre, la guardò a lungo: non riusciva proprio ad abituarsi alla stranezza dei suoi tratti… alla pelle dal pallore inquietante… alla massa di capelli verdi come foglie di pino… agli occhi color ametista in cui gli riusciva impossibile fissare lo sguardo. La cosa che più di tutte lo disorientava era l’estraneità di quei tratti associata alle proporzioni di una familiarità sconcertante: conciliare le due cose richiedeva un grosso sforzo per la sua mente, che lo colmava spesso di un acuto senso di disagio.
Ritrovarsela davanti, a un soffio dal suo volto, dopo aver aperto gli occhi sul paesaggio sconosciuto della Foresta, era stato un vero e proprio shock.
«Chi sei!?», aveva bofonchiato, ma era parso subito chiaro che lei non poteva capirlo. L’aveva vista guardarlo con aria interrogativa e inclinare la testa con gli occhi (quegli occhi così strani… che sembravano frantumarsi in mille sfaccettature opalescenti che riflettevano in modo vario e imprevedibile la luce del sole) che lo fissavano curiosi. Era stato un attimo. Poi il suo corpo aveva dimostrato il proprio dissenso per lo sforzo di sollevarsi a sedere di colpo e il fianco si era destato con una fitta acuta. Le tenebre avevano presto inghiottito il suo campo visivo.
Quando si era svegliato nella penombra della grotta, solo e incapace di muoversi, era stato subito aggredito dalla paura. Dalla fasciatura con cui era stato medicato e dal giaciglio di foglie ed erba secca sul quale stava disteso, aveva presto intuito di essere stato portato in salvo da qualcuno, ma attorno a sé non vedeva anima viva, e per quanto si sforzasse era troppo debole persino per sporgersi a guardare fuori dall’angusta caverna. Si era dimenato non poco nel tentativo di alzarsi. La ferita bruciava in modo intollerabile in tutta risposta, ma l’aveva ignorata. Fortunatamente, la ragazza era tornata prima che si procurasse qualche danno serio.
Era rimasto paralizzato non appena l’aveva vista.
Un’Abitante della Foresta!
Subito, era stato preso da un attacco di panico. Tutti i racconti terribili che aveva sentito su quella gente dai costumi selvaggi avevano iniziato a girargli vorticosamente nella testa… e al pensiero che adesso era lì, con quella creatura pericolosa, potenzialmente letale, a pochi metri da lui - incapace sia di difendersi che di fuggire - il terrore lo aveva afferrato in una morsa stretta.
Quando lo aveva visto sveglio, anche la ragazza si era immobilizzata di colpo. Lo aveva osservato a lungo con quegli occhi più grandi del normale spalancati, presa alla sprovvista. Si erano studiati in silenzio per qualche minuto, senza azzardate il minimo movimento. Poi lei aveva sorriso in modo incoraggiante, come per cercare di rassicurarlo, e si era avvicinata a passi piccoli e lenti, senza staccare per un attimo gli occhi dal suo volto.
Quando si era inginocchiata al suo fianco, Jared aveva sentito il cuore battere ad un ritmo vertiginoso.
Ecco, è la mia fine, aveva pensato dentro di sé con una strana tranquillità. E in quel momento in lui non c’era il minimo dubbio al riguardo. Neanche più la paura trovava posto in quella lucida consapevolezza. Gli restava solo un vago senso di stordimento… come in un sogno.
La sconosciuta aveva sollevato il braccio, e Jared si era rannicchiato subito in attesa del colpo fatale. Ma lei, invece di colpirlo, si era portata la mano allo sterno. Un insieme di suoni incomprensibili era uscito dalle sue labbra.
«Come?!».
Lei aveva ripetuto la stessa parola, scandendo bene i suoni.
Mi sta dicendo il suo nome!, aveva realizzato Jared, sbalordito.
Ancora incredulo, aveva tentato di riprodurre il suono in modo incerto, caricando l’ultima sillaba di un tono interrogativo. Aveva sentito quei suoni alieni impastarglisi in bocca.
La ragazza aveva scosso il capo e aveva ripetuto ancora una volta il suo nome, pazientemente. Ancora una volta, il ragazzo non era riuscito a pronunciarlo nel modo corretto, incespicando nel tentativo, e allora lei aveva raccolto una pietra friabile da terra e con la scia di pietrisco bianco aveva disegnato sulla parete della grotta una palla circondata di raggi.
«Sole!», aveva esclamato di colpo Jared, attraversato da un lampo di comprensione. «Ti chiami Sole?».
Lei aveva guardato in alto con aria meditabonda.
«Sole…», aveva ripetuto, assaporando la parola.
«Sole», aveva detto nuovamente lui.
Il volto della giovane era stato acceso da un sorriso luminoso.
«Sole».
D’accordo. Dunque sarebbe stata “Sole”.
A quel punto, la ragazza - Sole -, indicò tutta seria il suo petto. Lui ci mise un po’ a capire che gli stava chiedendo come si chiamasse.
Un po’ esitante, aveva detto il proprio nome, e lei aveva cercato subito di replicarlo.
«J-Jar…».
«Jared», aveva ripetuto lui, spalancando la bocca per scandire bene.
C’erano voluti parecchi tentativi per farle pronunciare il nome in modo accettabile. Ad un tratto lei aveva messo il gesso nella sua mano e aveva indicato la parete di roccia su cui aveva disegnato il sole per esortarlo ad imitarla, ma lui - che non avrebbe saputo tradurre il proprio nome come aveva fatto lei - aveva scosso il capo in segno di diniego e aveva spinto la pietra verso di lei. Alla fine si era arreso a lasciare che dicesse il suo nome in quel suo modo strano.
Terminate le presentazioni, Sole aveva fatto qualche cenno insistente verso la sua fasciatura, e alla fine lui aveva capito che intendeva rinnovargli la medicazione. Dunque era stata lei a curarlo! Dopo un attimo di esitazione, aveva annuito facendole segno che poteva procedere.
La ragazza si era accovacciata al suo fianco e aveva preso a rovistare nella sua borsetta di foglie di fico intrecciate. Lui l’aveva osservata con interesse estrarre una serie di boccette e pomate e disporle con espressione concentrata ai suoi piedi. Lei aveva armeggiato per qualche momento con tutte quelle cianfrusaglie - del tutto sconosciute per lui - con le quali aveva l’aria di essere esperta, poi aveva rimosso delicatamente la benda che gli fasciava il fianco. Jared si era lasciato sfuggire un sospiro di sollievo quando una fantastica sensazione di freschezza lo aveva invaso, non appena le sue mani avevano cominciato a spalmare l’impiastro sulla sua pelle con tocco sapiente.
Una volta terminata l’operazione, Sole aveva sostituito la garza vecchia, impregnata di sangue secco, con un nuovo bendaggio, e si era alzata a sedere sulle ginocchia.
Si erano guardati a lungo. Uno sguardo carico di significati. In lei traboccava una grande curiosità, in lui un’inquieta e non ancora placata diffidenza.
Quella diffidenza non era ancora scomparsa del tutto.
Se fosse stato libero di muoversi, Jared sarebbe senz’altro fuggito… ma la sorte - per un qualche sfortunato capriccio - aveva voluto renderlo completamente dipendente da quella ragazza. Il fianco guariva lentamente, e se anche avesse avuto forze sufficienti per alzarsi, non avrebbe saputo curarsi senza l’aiuto di Sole. In qualunque momento la ferita avrebbe potuto riaprirsi, o infettarsi, e lui non avrebbe saputo che pesci prendere. Senza contare che non aveva idea di come muoversi nella Foresta. Né di dove andare. Senza una guida, si sarebbe senz’altro perso.
Guardò Sole che si avvicinava con il solito sorriso. I suoi occhi caddero immediatamente sul carico che portava tra le braccia, che ella depose dolcemente ai suoi piedi. Bacche. E una strana pagnotta di colore violetto, ripiena di una salsa giallognola dall’aspetto poco invitante.
Prese il pane con poca convinzione. Dopotutto, non aveva scelta. E aveva fame. Ma, sin dal primo morso, dovette ammettere che non era affatto male: aveva un sapore simile a quello del pane di segale, con un retrogusto di more (dovevano essere quelle a dare la colorazione violacea); non riuscì a identificare la composizione del ripieno, ma fra i vari aromi sconosciuti gli parve di distinguere quello del miele.
Mentre terminava il suo pasto, adocchiò nuovamente Sole, che sembrava non stancarsi mai di osservarlo e seguiva attentamente tutte le sue movenze.
Non posso nemmeno mangiare in pace…, pensò contrariato, sentendosi a disagio a masticare e deglutire con quegli occhi da falco sempre incollati addosso. Di tanto in tanto, lanciava occhiate fulminee al suo indirizzo, come per controllarla. La sensazione di inquietudine che provava ogni volta che il suo sguardo registrava il pallore mortale della sua pelle non accennava a scomparire. La cosa che gli risultava più sconvolgente era il fatto che sotto quella pelle non scorreva una goccia di sangue: trovava quel pensiero agghiacciante. E ancor più se ripensava a come ella maneggiava di continuo bende impregnate del suo sangue, a come quel sangue le imbrattava le mani di marmo - creando un macabro contrasto fra quel colore vivido e il bianco della sua pelle -, quando nelle sue vene (le si poteva chiamare vene?) non fluiva che una strana linfa incolore. Era assolutamente ripugnante. Ripensò con un brivido a quando, pochi giorni prima, l’aveva vista assaggiarlo. Lo stava medicando, come al solito; aveva appena spalmato la sua solita pomata sulla zona irritata attorno allo squarcio e stava per coprire di nuovo la ferita, quando, al momento di risistemare la garza al suo posto, si era improvvisamente bloccata. E adesso che c’è?, si era chiesto lui, vedendola fissarlo con una strana intensità. Poi lei - con la rapidità di un falco - aveva avvicinato la mano al suo fianco e l’aveva posata deliberatamente sulla ferita. Un gemito di dolore gli era sfuggito dalle labbra. Troppo sbigottito per fermarla, l’aveva guardata sollevare il dito insanguinato e ficcarselo in bocca sotto il suo sguardo incredulo. Per un po’ l’aveva osservata a bocca aperta mentre assaporava il suo sangue con aria assorta, incapace di alcuna reazione. Poi lei aveva arricciato il naso e, toltosi il dito di bocca, era scoppiata a ridere. A quel punto un’ondata di disgusto l’aveva assalito, e aveva dovuto voltarsi rapidamente per reprimere un conato di vomito.
Una volta terminato di consumare il suo magro pranzo, Sole si decise finalmente a liberarlo della prigione del suo sguardo, e solo allora tirò fuori una pagnotta identica alla sua dalla borsa e prese a piluccarla a sua volta. Chissà in che modo riusciva a trarne energia, si chiese Jared ascoltando il suono che i suoi denti producevano triturando la mollica morbida. Era vero che quelle creature erano in grado di svolgere il processo di fotosintesi come le piante, come aveva sentito spesso dire? E, se la risposta era sì, non era forse l’energia che ricavavano da quel processo sufficiente a soddisfare le loro esigenze biologiche? Pensò con un misto di fascino e ripulsa ai frammenti di cibo che scendevano giù per il suo esofago fino allo stomaco, e poi alle sostanze che attraversavano le pareti sottili dell’intestino e entravano nella circolazione, dove venivano trasportate ai vari organi immerse in quel liquido biancastro… ma fu costretto a troncare in fretta quell’immagine prima di sentirsi male.
Cercò di pensare a qualcos’altro per distrarsi mentre anche Sole finiva di mangiare, e alla fine la sua mente cadde sulla propria famiglia. Chissà che cosa stava pensando adesso suo padre… Lo immaginò mentre metteva sottosopra tutte le stazioni di polizia nel raggio di un chilometro per sollecitare le ricerche, e sperò ardentemente che riuscisse a rintracciarlo in qualche modo… anche se non avrebbe saputo come. Sorrise al pensiero dei commissari spaesati di fronte ai suoi temibili scatti d’ira.
Non vorrei essere nei loro panni…
Ormai erano almeno sei giorni che mancava da scuola, rifletté. I suoi insegnanti dovevano averlo dato per disperso. Si figurò con una fitta di acuta nostalgia il volto di Alice… la scorbutica Alice, con cui era stato compagno di banco fin dall’inizio dell’anno, e che spesso non sopportava per il suo modo dispotico di allargarsi occupando tutta la superficie del banco e ascoltare la musica a tutto volume (con quelle sue cuffie infernali nascoste sotto la felpa di una o due taglie più grande), impedendogli di seguire le lezioni per il frastuono che facevano. Gli mancava persino Albert… quel secchione insopportabile, che passava tutto il tempo con la mano alzata quasi a voler toccare il soffitto (tanto che a volte Jared si chiedeva con disprezzo se facesse qualche esercizio per allenare i suoi muscoli a star tesi tanto tempo).
Che cosa non avrebbe dato per trovarsi di nuovo fra quei banchi tanto odiati…
Non aveva la più pallida idea di dove accidenti fosse capitato.
Una volta, quando Sole non c’era, aveva provato a raccogliere le forze per strisciare fino all’entrata della caverna, ma fuori non aveva visto che un oceano infinito di verde. Il suo sguardo aveva vagato per un po’ smarrito per quella moltitudine di alberi… e alla fine se ne era tornato al suo posto con la coda fra le gambe, aspettando docilmente il ritorno della sua custode.
Quello che gli provocava il maggior sconcerto era che non sapeva come diavolo era finito in quel posto sperduto. Non ricordava assolutamente nulla. Rammentava di essere stato in un parco deserto al tramonto, mentre le ultime luci del crepuscolo svanivano all’orizzonte e una cupa penombra calava lentamente sulle giostre abbandonate. Ci andava spesso: soprattutto ultimamente, sentiva di trovarsi davvero a suo agio soltanto nella solitudine; quando era completamente solo, era come se la tensione che lo teneva sempre imbrigliato quando era fra le altre persone cadesse di colpo. Si rendeva conto del peso che essa aveva esercitato su di lui solo allora, quando ne era finalmente libero. E facendosi cullare da quella dolce sorpresa, poteva lasciare andare la sua mente alle riflessioni… perdersi nella contemplazione estatica di ciò che lo circondava.
Ma per quanto si sforzasse… da qualunque angolazione lo guardasse… in quello scenario continuava a percepire una nota stonata. Un dettaglio fondamentale che la sua mente non riusciva a catturare, che denotava la presenza di qualcosa di profondamente sbagliato. E lo spasmodico tentativo di captare quel dettaglio - sempre conclusosi in un fallimento - lo riempiva di inquietudine.
Era appunto perso in queste ponderazioni quando accadde il mistero. Si dondolava avanti e indietro su un’altalena scassata (riusciva a entrarci a malapena, il che gli ricordava - e non poteva lasciarsi attraversare da questo pensiero senza provare una punta di amarezza - che stava crescendo), con lo sguardo perso tra le sagome spettrali delle giostre in controluce. Sotto la luce cupa del crepuscolo, il loro profilo sembrava coronarsi d’un’aura surreale, aveva osservato affascinato.
Mentre quel pensiero sfociava nelle solite considerazioni sul senso della vita, la sua attenzione era stata catturata da un rumore improvviso alle sue spalle. Si era voltato di scatto. Si era scrutato attorno alla ricerca della fonte del rumore, ma il suo sguardo non aveva individuato nulla. Quindi, credendo si fosse trattato di una suggestione, era tornato a guardare dritto innanzi a sé. In quel momento, era stato colpito da una violenta fitta alla nuca.
E poi…
Aggrottò le sopracciglia in un accesso di frustrazione.
Non ricordava più nulla!
Per quanto si spremesse le meningi, non gli riuscì di cavare nient’altro dalla sua testa. All’immagine del parco si sovrapponeva direttamente quella della Foresta, e di Sole che lo fissava con aria curiosa. In mezzo, c’era solo un oceano di nero… inframezzato da una matassa confusa di ricordi dalla quale non gli riusciva di cavare nulla.
Scagliò rabbiosamente la pietra che aveva stritolato fino a quel momento.
Sole sobbalzò. Lo guardò con aria interrogativa, sorpresa dal suo scatto d’ira. Lui si limitò a scuotere violentemente la testa in tutta risposta. Ci si metteva pure lei. Se solo avesse potuto parlarle in qualche modo… magari avrebbe saputo dargli qualche spiegazione. Quantomeno, avrebbe potuto fornirgli una descrizione un po’ più precisa dello stato in cui l’aveva trovato, per aiutarlo a vederci chiaro. Ma tutte quelle parole erano imprigionate nella sua testa, irraggiungibili. Come lei: così vicina… eppure irraggiungibile. Un intero sistema di simboli, suoni e gesti li separava. Dannazione!
Si mise a braccia conserte.
Guardò per un po’ le braci spente del falò con aria imbronciata. Del fuoco che le aveva accese non c’era più traccia. Scrutò con lo sguardo fra i granelli di carbone che cospargevano la roccia, come cercando fra di essi il guizzo arancione di una scintilla, e si rese conto che cominciava a sentire freddo. Si sfregò le braccia per generare un po’ di calore, chiedendosi in che modo avrebbe potuto comunicare a Sole quella sua esigenza.
In quel momento ebbe un’illuminazione.
«Sole?».
La ragazza si voltò al suo richiamo.
Lui si alzò a sedere sui calcagni, e trattenendo a stento l’entusiasmo indicò il braciere e disse, con aria concentrata: «Fuoco».
Sole inizialmente non capì e aggrottò la fronte, emettendo un grugnito interrogativo.
Il giovane non si scompose. «Fuooo-co», ripeté, scandendo bene. «Fuoco. Sole… fuoco».
Un lampo di comprensione attraversò gli occhi della ragazza, seguito dall’eccitazione. Si avvicinò carponi, in fretta, e guardando prima le braci, poi Jared, cercò subito di imitarlo: «Fo… foco?».
«Fuoco. Fuoco».
«Fuu… oco».
«Sì. Esatto. Fuoco. Brava, Sole! Fuoco! Fuoco!».
Ovviamente, ella non poté capire quelle ultime parole, ma non parve curarsene, tutta contenta di quell’unico vocabolo appena conquistato. Si alzò in piedi di scatto e si guardò freneticamente attorno per trovare il suo acciarino. Lo prese, e cominciò a sfregarlo in modo impaziente, fino a cavarne una scintilla. Quando riuscì a farla attecchire sullo stoppino di una piccola torcia e la fiamma divampò nelle sue mani, si voltò di nuovo verso di lui e indicò le lingue cremisi con aria febbrile.
«Fuoco?».
Lui annuì. Aveva capito.
La giovane prese a saltellare tutt’intorno come una pazza, sventolando il suo trofeo.
«Fuoco! Fuoco! Fuoco! Sole, fuoco!».
Jared rise.
Quando si fu calmata, le fece cenno di avvicinarsi, e con aria seria ripeté ancora la parola “fuoco”, indicando prima la fiaccola e poi lei. Dopo un po’ Sole afferrò, e pronunciò una parola che nella sua lingua doveva essere l’equivalente di “fuoco”. Jared la ripeté un po’ di volte finché lei non lo ritenne accettabile. Poi la ragazza si guardò intorno alla ricerca di qualcos’altro. Il suo sguardo cadde sull’acciarino che aveva gettato a fianco a sé, la prima cosa che le capitò sotto tiro. Glielo tese, impaziente.
«Acciarino», disse lui, e lei ripeté a pappagallo. Poi cominciò a porgergli una serie di altri oggetti a raffica, e Jared ogni volta disse la parola corrispondente. «Pietra. Bastone. Bisaccia. Casa… no, no, anzi… grotta. Caverna».
Dopo un po’, la giovane si bloccò e parve fermarsi a riflettere su qualcosa.
«Che c’è, Sole? Cosa vuoi chiedermi?».
Lei indicò sé stessa. «Sole». Poi indicò lui. «Jared». E lo guardò in attesa.
Lui non capì. Scosse la testa.
La ragazza sbuffò. Alzò gli occhi al cielo, arrovellandosi il cervello, poi si illuminò. Si mise una mano sul petto. «Sole… Sole?».
«Non capisco… mi dispiace».
Lei allora fece un gesto eloquente in direzione del suo inguine. «Jared». Dopodiché, si indicò il seno e disse ancora una volta il proprio nome.
Finalmente il ragazzo capì e ridacchiò imbarazzato. «Ragazzo… ragazza…», farfugliò, indicando rispettivamente sé stesso e lei. «Uomo… donna».
«Uomo… ragazzo?», ripeté lei, come chiedendo quale delle due alternative fosse quella corretta.
«Vanno bene entrambi… Tutti e due giusti! Ragazzo», disse ancora, e sollevò la mano ad una certa altezza, non troppo elevata, poi, alzandola di più, fece: «Uomo».
«Ahhh».
Sole parve comprendere. Quindi puntò il dito verso di lui. «Ragazzo?».
«Sì. Ragazzo».
La giovane scoppiò a ridere. «Jared, ragazzo. Sole, ragazza».
«Brava. Proprio così».
«Uomo, donna… donna, uomo. Ragazzo, ragazza».
«Sei sveglia!», ridacchiò Jared.
«Jared, ragazzo. Sole, ragazza», ripeté ancora una volta Sole… ma stavolta un lampo di malizia le accese gli occhi.
Il giovane afferrò dopo qualche istante… e arrossì violentemente.
Prima che potesse ribattere, Sole  si alzò e andò a caccia di altri oggetti da sottoporre al suo esame.
La lezione era iniziata.
  
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