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Autore: Ely79    26/08/2013    2 recensioni
Vorreste trasformare la vostra ridicola Urbanhare in un mostro capace di far sfigurare le ammiraglie del Golden Ring? Cercate più spinta per i vostri propulsori a vapore compresso? Spoiler e mascherine su disegno per regalare una linea più aggressiva al vostro mezzo da lavoro? Una livrea che faccia voltare ogni testa lungo le strade che percorrete? Interni degni di una airship da corsa, con quel tocco chic unico ed inimitabile?
Se cercate tutto questo, grande professionalità ed un pizzico di avventura, allora siete nel posto giusto: benvenuti alla "Legendary Customs".
[Ambientazione Steampunk]
Genere: Avventura, Commedia, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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L.C. -Cap. 11
11

Il rito della messa a punto della muscle-ship era uno dei pochi punti fermi nella vita di Clayton. A domeniche alterne, quando non era impegnato a fare il padre, trascorreva qualche ora nel silenzio dell’officina, dando una solenne ripassata alla Torran.
Quella mattina Port Serafine era stata travolta da un temporale coi fiocchi, che spazzava vigorosamente l’aria e i muri delle case con scrosci gelidi e folgori abbaglianti.
Clay, approfittando della piacevole frescura di quelle ore, si era infilato sotto al mezzo, dove un grosso fascio di tubi conduceva il vapore dalla camera di produzione alle turbine. Benché il libretto della casa consigliasse la pulizia di tali condotti ogni ventimila miglia, Clay preferiva controllarli ogni cinque-settemila. Dopo tutto, il suo gioiello era poco più giovane di lui, non era esattamente nuovo di concessionaria.
Aprì con estrema cautela la valvola di sicurezza montata sulla parte superiore dei tubi, che emise uno sbuffo prolungato mentre la pressione scendeva. Un gorgoglio segnalò la presenza di condensa all’interno.
Allungò la mano ma la dima di scavalco Mastrehön scivolò via, strisciando sul pavimento di cemento. Voltò la testa, scorgendo un’ombra muoversi nel riverbero delle lampade e dei fulmini. Facendo leva sui talloni, si trascinò avanti.
Accanto alla fiancata c’era Sandy, accoccolata in precario equilibrio sui tacchi. Rigirava con cautela il bypass, tenendolo per il dotto di collegamento ed osservandolo con quell’aria ipercritica che riservava agli attrezzi moderni impiegati su veicoli datati.
Clayton prese un profondo respiro, scacciando dalla mente l’immagine di lei che finiva a gambe all’aria, mostrandogli quale intimo indossasse.
«Ridammi quell’affare prima di spezzarti un polso» sbuffò tendendo la mano.
Lei si alzò, stringendo il pesante utensile fra le mani, decisa a stanarlo dal suo rifugio.
«Dobbiamo parlare» disse, solo apparentemente placida.
Clay aggrottò la fronte, fiutando guai. Quando Sandy voleva parlare, aveva poco da stare allegro. Anche quando l’aveva incastrato per il ballo aveva esordito così.
«Dove sono i bambini?» chiese, insospettito dalla quiete che li circondava.
«Con mia madre. È venuta a trovarci. Ti saluta e ti manda il suo pasticcio di vitello e formaggio» e indicò un contenitore di ceramica posato su uno dei carrelli da lavoro lì accanto.
Lui si morse l’interno delle guance per non correre ad addentarlo: il manicaretto di nonna Jane era famoso in tutta l’officina, tanto che persino Maria Pilar si era rifiutata di prepararlo, ricetta alla mano, per non offendere una tale meraviglia gastronomica.
«Saluta Jane e ringraziala per lo spuntino. Ora voglio finire qui» ribatté e fece per scivolare via, ma la punta aguzza di una scarpa s’infilò sotto il suo ginocchio, impedendogli il movimento.
«Donna, non è il momento» ringhiò, artigliando lo chassis della Torran.
«Esci, Clay» insisté.
«Ho detto che ho da fare» replicò irritato.
«Esci».
Il capofficina rimase immobile, sforzandosi di non stritolare il pianale dell’amata airship.
«Almeno fallo per i bambini» lo punzecchiò Sandy.
L’allusione era chiara: esci di lì, o staranno ancora con me. Per colpa della festa che si sarebbe tenuta quel venerdì sera al City Garden, Clay si era visto costretto ad un cambio di turno, così Junior e Bonnie sarebbero andati da lui solo il fine settimana successivo. Odiava servirsi della babysitter, anche se si trattava della figlia del suo secondo, che pure era una ragazza piuttosto in gamba. Quando stava con i suoi figli, voleva essere il solo a prendersene cura, cascasse il mondo.
«Donna, tu mi fai impazzire!» rimbrottò mettendosi a sedere sul pattino, gli avambracci sulle ginocchia. «Che c’è?»
Sandy prese qualche secondo per sfilarsi teatralmente la corta mantella che le copriva le spalle.
«Non deve più succedere» attaccò decisa.
«Cosa?»
«Mi hai baciata!» strillò.
E non solo. Almeno credo, aggiunse incerta tra sé, rimpiangendo di ricordare poco o nulla della serata, così da potergli sbattere in faccia ogni dettaglio.
«Hai le idee un po’ confuse, piccola» sogghignò con cattiveria lui, strattonando le dita con uno straccio nel tentativo di pulirle dall’unto. «Ci sono almeno una quarantina di persone pronte a giurare che chi si è trovato per primo la lingua in bocca sono stato io, non tu».
Ricordava fin troppo bene le labbra di Sandy che si posavano sulle sue guance, sulla fronte, sul collo e sui lobi delle orecchie, prima di puntare imperiose sulla sua bocca.
«Quindi sarei io la colpevole?» sibilò gettando via la mantellina, l’aria di chi era pronta persino a fare a pugni pur di avere ragione.
Clay si limitò a fare spallucce, continuando a strofinare le mani.
«Sempre e solo io, la colpevole. Logico» rispose gelida.
La sua voce si mescolò ad un tuono, il cui boato cercò inutilmente di nascondere frustrazioni che l’uomo non poté ignorare. Non le aveva rivolto accuse, ma sapeva fin troppo bene che nella sua testa quelle parole equivalevano a rivangare i motivi del divorzio. La colpa. Di chi era la colpa della loro rottura? Sua? Di Sandy? Di entrambi? Sapeva solo una cosa: gli unici a non avere colpe erano Bonnie e Junior, ed erano anche le sole, vere vittime.
«Avresti dovuto fermarmi. Impedirmi di… comportarmi da stupida. Dovevi dirmi di no e riportarmi a casa appena le cose hanno preso la piega sbagliata!» riprese, inghiottendo il groppo alla gola che cominciava a soffocarla.
Clay si alzò e le si piazzò davanti, meditando se dirle o meno come stavano le cose.
«Non mi andava» sbuffò avvilito, gettando la pezza su uno dei carrelli portattrezzi.
La donna lo fissò sconvolta. Sapeva che l’ex-marito non si era mai arreso alla separazione, ma che addirittura arrivasse ad approfittare delle sue debolezze per appagare le proprie era assurdo.
«Sì, mi hai sentito: non mi andava di fermarti» ripeté, levandosi a strattoni la canottiera. «Cazzo, Sandy, non puoi pretendere che non mi venga voglia di baciarti o di scoparti quando ti comporti così. Sembra che lo fai apposta, che tutto quello che è successo è stata solo una cazzo di buffonata per farci un dispetto! Vieni lì, ridi, scherzi, mi abbracci, mi baci, mi tocchi come se niente fosse! Mi hai chiamato Orso mentre mi infilavi la lingua in un orecchio!»
L’accenno a quel soprannome, usato solo nell’intimità della loro camera da letto, la fece avvampare di vergogna.
«Non puoi farmelo venire duro e pensare che ti lascerò fare senza reagire. Non sono di ferro» ribadì, prendendole la mano e portandosela sul cavallo dei pantaloni, già piuttosto teso.
Sandy non riuscì a scostarsi, provando uno strano languore.
«N-non può funzionare, Clay. Noi non… non possiamo» balbettò ad occhi bassi.
Non riesco a fidarmi fino in fondo di te, avrebbe voluto aggiungere, ma le parole rimasero bloccate in un cassetto della sua mente, chiuse a chiave da una coscienza alternativa che le impediva di allontanarsi da colui che era stato - e per certi versi, considerava ancora - il suo uomo.
«Vallo a dire al sorrisone di Bonnie» ringhiò indispettito, lasciandole la mano che ritrasse a fatica.
«Sapevi che era lì?» chiese, obbligandosi a guardarlo in faccia per non fissare il suo petto.
Nonostante i quarantasette anni, Clay aveva ancora un fisico notevole.
È bella come te, difficile non vederla, avrebbe voluto rispondere lui.
A dispetto delle diverse birre, era riuscito a scorgere la sua dolce nuvoletta che li spiava dalla porta. Vederla così felice gli aveva fatto torcere lo stomaco al punto tale che aveva finito col provocare deliberatamente Alexandra per avere una scusa per andarsene.
Non aveva voluto dare false speranze a Bonnie: per quanto amasse ancora sua madre, una parte di lui seguitava a puntare il dito sulle sue mancanze di allora.
«Sì, ma non credo si sia accorta che l’ho vista» rispose invece.
No, non se n’è accorta, ma ho il sospetto che non me l’abbia raccontata giusta, meditò Sandy, ripensando a ciò che la figlia le aveva rivelato il mattino precedente.
«Alexandra, potremmo… insomma…» cominciò Clay, incespicando nelle parole.
La donna conosceva quel tono. Voleva un’altra possibilità, tentare di nuovo. Ricominciare.
«No. Non riesco a… no» ribadì. «Adesso rivestiti, per favore».
«Perché?» domandò allargando le braccia con fare invitante. «Vuoi venire qui, piccola? Senza impegno?»
«Smettila, Clay».
Smettila o non riuscirò a staccarmi da te. Non insistere, non voglio, supplicò, ma si rese conto di mentire a sé stessa.
«Sarebbe tanto male un abbraccio? O hai paura di saltare di nuovo addosso a tutto questo ben di Dio?» scherzò l’uomo, passando le mani sul torace nudo e impolverato.
«Sei ingrassato» sviò, indicando le rotondità dei fianchi che sporgevano sopra la cintura.
«E anche se fosse?» replicò indispettito, battendosi il ventre che suonò come un tamburo.
Sapeva di aver preso peso, Bonnie gliel’aveva fatto notare allo sfinimento. Si era proposta di compilargli una tabella di esercizi e persino di pianificargli una dieta, per riavere un papà regolato a puntino. E quella strega di Charlotte si era offerta di darle una mano, se avesse ottenuto l’assenso dal genitore.
«Entrerai nel vestito venerdì sera, senza farmi fare figuracce, vero?»
«Mi hai messo alle costole i peggiori mastini sulla piazza. Sarà un miracolo se sopravvivrò alle loro lamentele» rimbrottò. «Scommetto che tu non hai avuto critiche».
«Ovvio» mentì spudoratamente lei.
Bonnie le aveva fatto venire il mal di testa cassando la quasi totalità degli abiti che aveva provato, indicandoli come “frivoli”, “chiassosi”, “pacchiani”, “sconvenienti”, “da arrampicatrice sociale” o peggio, “da sgallettata in cerca di losche compagnie”. Aveva ritenuto “appena entro il limite della decenza” quello prescelto. Dove li prendeva certi termini, a dodici anni? Che razza di letture faceva a scuola? E Charlotte aveva avuto la faccia tosta di convenire con sua figlia, quando le aveva mostrato le immagini dal catalogo di Lacombe. Per non parlare di Junior, che dopo averle visto indossare l’abito per gli ultimi ritocchi, le aveva detto di far togliere i lacci di cui era cosparso, perché facevano vedere quante gobbe di ciccia aveva.
«Che ti prende?» chiese lei, notando lo sguardo rapito di Clay.
«Niente» disse, fingendo di controllarsi le mani mentre invece ammirava estasiato la rotondità artificiale eppure invitante dei suoi seni, che facevano capolino dallo scollo dell’abito.
Anche se aveva sempre professato di preferire la versione naturale, Clay doveva ammettere che il chirurgo estetico aveva fatto un lavoro eccellente sulla ex-moglie. D’altra parte, dopo l’allattamento di Bonnie, Sandy si era ritrovata con “due stracci bagnati”, come li definiva allora. Era un problema per chi come lei aveva investito molto nella propria immagine.
«Cosa stavi pensando?» domandò, dandogli le spalle.
«Niente» insisté, questa volta soffermandosi sulla curva del fondoschiena, che svettava a coronamento di due gambe magnifiche, sostenendo un vaporoso cuscinetto di crinolina e pizzi; uno sbuffo di vapore alla sommità del fumaiolo di un piroscafo.
«Clayton?»
«Pensavo che non potevano dirti nulla per forza di cose» ringhiò.
«Solidarietà femminile?» malignò, commettendo l’errore di rifilargli una delle sue migliori occhiate tutte malizia e sottintesi da sopra la spalla.
Clayton abbandonò ogni proposito di trattenersi e l’agguantò, stringendosela addosso. Poco importava che la tornure gli trafiggesse il fianco: aveva bisogno di darle una lezioncina, anche facendosi male. Poggiò pesantemente la mano sinistra sulla sua coscia, sollevando l’abito oltre la fascia della giarrettiera, fin quando poté sentire la sua pelle su tutto il palmo.
Sandy rimase immobile, artigliandogli il braccio mentre lo fissava con la coda dell’occhio.
Non lo fare, non lo fare, non lo fare! ripetevano entrambi nelle loro teste, spaventati dall’abisso che avevano di fronte. Sentivano che se avessero fatto un altro passo, avrebbero distrutto tutto quello che ancora li univa.
Alla fine, con un enorme sforzo di volontà, il capofficina allentò la presa, non prima di averle mormorato all’orecchio:
«Sei troppo bella per suscitare critiche».

***

Il lunedì pioveva ancora ed erano annunciati temporali almeno fino a mercoledì. La temperatura nell’officina era decisamente gradevole ed invogliava ad effettuare quei lavori che normalmente avrebbero liquefatto i meccanici in pochi minuti.
Pancake era intento alla manutenzione di uno dei ponti quando, frugando in cerca di una fascetta di rinforzo, rimase impietrito.
«Iron!» urlò furibondo.
Il fratello accorse preoccupato, temendo servisse un medico o chissà che. Tanta foga non era tipica di Delmar.
«Portala. Via. Ora» scandì Pancake, additando disgustato nel cassetto.
«Quella?» domandò perplesso Iron, indicando a sua volta.
Gettata tra scatole di bulloni e rivetti, c’era una calza trasparente. Non capiva perché dovesse occuparsi di raccogliere l’immondizia altrui.
«Portala via dal mio carrello, schifoso pervertito!» strillò, facendo voltare No Way e Hito che si trovavano all’altro capo dell’officina.
«Ehi, piano fratellone o ti daranno della checca isterica» scherzò l’altro. «E comunque, perché quella roba dovrebbe essere mia?»
La faccia tonda di Pancacke si accartocciò quasi fosse stata passata in un macchinario per il sottovuoto.
«Quanta altra gente conosci che viene qui dentro con queste addosso?» l’accusò tremando di rabbia.
«Io non porto quelle calze sotto ai pantaloni da lavoro. Primo perché con un reggicalze così bello, andrebbero fatte vedere e non nascoste. Ci vorrebbe uno dei vestitini sexy di Sandy» disse, pentendosene subito dopo aver visto lo sguardo del fratello assottigliarsi fin quasi a scomparire nelle sopracciglia. «Secondo: calze di seta? In questi scarponi? Forse non hai idea di quanto costino. Rovinarle in questi ferri da stiro sarebbe incivile anche per uno come te».
Pancake quasi sbiancò per l’insinuazione.
«Cosa vorresti dire? Io sono normale! Sei tu il finocchio!» tuonò, agitando le braccia in una danza flaccida.
«E per finire,» riprese Iron, raccogliendo l’indumento e stendendolo con cura tra le dita, «ti pare che possa infilare la mia gamba… destra - sì, direi la destra -, in un affarino così sottile? Dì un po’, ma lo vedi quanto sono grosso o hai bisogno di una visita dall’oculista?»
Affatto colpito dall’evidenza dello sbaglio, Pancake non rispose, limitandosi a fissarlo con odio.
«Del, questa è una calza da donna. Donna fisiologicamente parlando. Le mie sono…» insisté Iron, sperando di riuscire ad impiegare a suo favore l’insolito ritrovamento.
Il fratello era di tutt’altro avviso.
«Vaffanculo!» ruggì piantandolo in asso.
Si allontanò ballonzolando peggio del solito, le braccia che ciondolavano inerti lungo i fianchi. Sbatté contro un paio di carrelli, mandandoli a spasso tra i mezzi appena portati in officina.
«Del!» lo chiamò, ma questi alzò entrambi i medi, sbraitando:
«Fottiti! E sta’ zitto!»
«Che gli prende?» chiese Hito, sopraggiungendo con Jack.
Il verniciatore aveva la faccia tirata in una composta rassegnazione, ma era evidente il suo disappunto. Charlotte gli aveva appena imposto di non fumare entro le mura della “Legendary”, il che equivaleva alla pena capitale.
«Si è messo in testa che questa è mia» sospirò Iron mostrando loro la calza.
No Way sollevò esasperato la tesa della coppola.
«Razza di deficiente… ha di nuovo aperto il mio carrello!» sbadigliò prendendo l’autoreggente e gettandola nel cassetto, su cui campeggiava la targhetta con il suo nome.
«E tu te ne vai in giro con delle calze di seta tra gli attrezzi?»  rimbrottò Hito, passando una mano tra i capelli in cerca di un’inesistente sigaretta.
«Souvenir d’amour?» cinguettò Iron, sbattendo le ciglia.
«No. Souvenir della cameriera».
I colleghi si scambiarono un’occhiata interrogativa, non avendo recepito alcuna differenza.
Jack si stese supino sul tavolo lì accanto, stropicciandosi un occhio.
«La nostra cameriera ogni tanto le compra ma finisce sempre col ritrovarsele spaiate per un motivo o per un altro. Così le ho chiesto di darmele» spiegò stiracchiandosi.
«E si può sapere perché?» s’informò nervosamente Hito, la cui carenza di nicotina già sfiorava livelli astronomici.
Jack sbadigliò e sorrise allo stesso tempo.
«Hai presente la valvolina a due vie del differenziale? Dopo il primo test la smonto, prendo la calza, ci infilo una biglia di piombo, la spingo nella valvola e pulisco entrata e uscita. Non sai quanti residui di lavorazione e lubrificante si accumulano. Con questo trucchetto vengono via che è una meraviglia, e ora che si intasano di nuovo… Linda fa in tempo a darmi un’altra calza!»

***

Pancake entrò nello spogliatoio sbattendo la porta.
«Stronzo. Stronzo e pervertito» rampognò spalancando l’armadietto e cominciando a frugare tra i vari contenitori di scorte alimentari che vi teneva.
«Grazie. Ora posso sapere che ho fatto?» fece una voce.
Socchiudendo un poco l’anta vide Boy, seduto in fondo alla stanza. Il suo turno cominciava alle nove, ma arrivava sempre prima in officina e aspettava lì, leggendo le strisce di fumetti del FlyinGazette o, secondo l’ipotesi di Patch, masturbandosi con le foto di Sandy.
«Non ce l’ho con te. È solo… porca troia, ho fame. Cazzo, mi ha fatto venire fame! Bastardo» brontolò, cacciando di nuovo la testa nell’armadietto.
«Scusa, ho perso il conto, Bidone. A quanto stai?» ridacchiò il ragazzo. «Allora non sei così buono come sembri».
Il carrozziere si raddrizzò, masticando una caramella mou e andò a sedersi accanto all’apprendista.
«Vuoi?» chiese, allungandogli una scatola di latta da cui arrivava un odore indefinibile.
«Che roba è?»
«Pancake alla vaniglia con sciroppo d’acero, ai mirtilli e noccioline, alla banana, alla ciliegia e cannella, all’ananas e pera sciroppata» elencò scorrendoli come le pagine di un libro, per proseguire con i rimasugli sul fondo. «Biscotti d’avena con uvetta e canditi… barretta all’anice… muffin alla menta e al whisky… questa… » e leccò un pezzetto dall’aria poco appetibile, «crostata al rabarbaro».
«Tutti insieme?» domandò Boy schifato.
«Chiaro. Scegli, non fare complimenti» l’invitò, allungando la scatola con un gran sorriso.
Il ragazzo sentiva di voler vomitare, non certo fare complimenti: quella roba sembrava uscita da una discarica dove aveva stazionato per un paio di secoli almeno.
«Come se avessi accettato» disse, riprendendo a trafficare con un congegno.
«Che fai?»
«Niente. Piccole riparazioni intanto che il vecchio prende le consegne dal boss. Sai com’è: è lunedì, bisogna vedere cosa c’è da fare e io sono troppo coglione per capire discorsi da prima elementare» borbottò risentito. «C’è quel cazzo di motore della Sodia 110 che aspetta da una settimana di essere aperto per capire che c’è che non va, quello del Cealer da potenziare, la caldaia del OE Plus perde,… montagne di cose, ma non le posso fare da solo perché sono piccolo e scemo!» motteggiò imitando Pepper MillionCry, un personaggio dei fumetti sempre intento a piangersi addosso.
«Ci siamo passati tutti, Boy. È la gavetta. Pazienta e fregherai il posto a Ozone» lo rassicurò Pancake, assestandogli una pacca sulla spalla che lasciò un segno appiccicoso di zuccheri e grassi coagulati.
Sentendo il ragazzo parlare a quel modo gli tornò in mente Lamar, i suoi primi mesi in officina, la sua frustrazione nel vedersi assegnati lavori banali o di routine. Rivedeva suo fratello brontolare per una possibilità. Rivedeva il solo fratello che aveva avuto. Un fratello maschio.
«Però non ho capito cos’è quell’affare» riprese per distrarsi.
«È il timer di mia madre. O meglio, del forno del panificio dove lavora. Si è bloccato, ma se aspettano il tecnico possono chiudere bottega».
«Non mi hai mai dato l’indirizzo di quel fornaio, lo sai?» ridacchiò l’altro.
Boy infilò il mignolo tra le rotelle, facendo attenzione a non spostarle o piegarle.
«Dove ti sei nascosto, bastardo maledetto?» chiamò sottovoce.
«Quattro méit» gli rammentò il collega, abbuonandogli le precedenti uscite in segno di mutua comprensione.
Lui sembrò non sentirlo, intento com’era a rovistare tra gli ingranaggi.
«Ah, eccolo» disse ad un tratto, quasi avesse davanti agli occhi l’oggetto della ricerca.
Mosse ancora un poco il polso, aggiustando il contatto sul danno, e prese un profondo respiro. Impallidì un poco e cominciò a sudare, al punto che i capelli si riempirono di minuscole gocce che ruscellarono sulla faccia e sulla nuca. Lo sguardo si fece assente, vuoto, simile a quello di un cieco.
Con un brivido d’orrore, Pancake vide uno dei piercing sul sopracciglio destro di Boy vibrare, torcersi e inabissarsi sotto la pelle. Si mosse come un minuscolo insetto lungo la guancia, formando un monticello che sparì rapido sotto la mascella e scese giù, sulla gola. Sparì nella camicia da lavoro e riapparve per un istante sulla mano del giovane, guizzando verso l’interno dell’orologio.
Trascorsero ancora alcuni secondi, durante i quali non accadde apparentemente nulla. Jessie ebbe un tremito, rapido e violentissimo. Poi, un rivolo si sangue colò fra le lancette, raccogliendosi nel vetro emisferico.
Il meccanico prese un secondo respiro, recuperando colore sulle guance, ed osservò il timer.
«Fantastico… adesso mi toccherà smontarlo e pulirlo. Almeno funziona» constatò, ascoltando il ticchettare ritmico. «Che ti prende, Pancake?»
La faccia del collega era una maschera d’orrore allo stato puro.
«Pancake?»
«Cosa cazzo hai fatto?» biascicò, gli occhi sbarrati.
Boy ricordò solo in quel momento la miriade di raccomandazioni che Ozone gli aveva fatto riguardo il mostrare le sue capacità, soprattutto a persone come Pancake.
«L’ho… aggiustato» si schermì.
«Il coso… sulla faccia… è andato via! È… lì!» ansimò stravolto, indicando il congegno.
«S-sì. Il perno della carica si era…» bofonchiò, sempre più a disagio.
«Cosa sei? Cosa sei?» urlò ripugnato.
Jessie boccheggiò, incapace di trovare le parole giuste per spiegare a Pancake cosa aveva visto.
«Lontano da me! Sparisci!» latrò balzando in piedi e rovesciando una cascata di dolci moribondi.
   
 
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