Incubo
[
Si svegliò di scatto. Erano le 8.05 di mattina. Accese la luce.
Respiro affannato, occhi sbarrati e terrorizzati, senso di vuoto e di solitudine. Paura.
Aveva appena fatto un incubo. Esattamente il secondo durante quella nottata di sonno. Un record. Di solito le capitava di fare un incubo a notte, mai di farne due, uno vicino all’altro poi. E mai si era sentita così spaventata. Una sensazione orribile. Era come se tutto il mondo le fosse caduto addosso, che non avesse nessuno vicino, trovarsi non sotto le lenzuola, ma sotto le acque di un fiume nero e freddo.
Si rilassò e poggiò di nuovo la testa sul cuscino. Ripensò all’incubo.
Si trovava a casa di
sua nonna assieme alla sua famiglia. Aveva in mano una busta, l’aprì. Ne tirò fuori una lettera.
Foglio bianco con sopra parole scritte in nero. Calligrafia ordinata e pulita.
La lesse.
Non sa esattamente
quello che c’era scritto, vide solo che la ragazza, la
sua alter-ego, la stava leggendo, però le parole, non riusciva a vederle.
Camille lesse la
lettera. Uno sguardo impietrito le si formò sugli
occhi. Una voce dietro le disse ‘Non leggere più. Lascia perdere. Se lo ignori non si
farà più sentire.’ Era suo fratello maggiore. Lei ubbidì e buttò via il foglio.
Un forte senso di
paura le attanagliò il cuore. E se quell’essere, non
l’avesse lasciata in pace? E se avesse continuato a
scrivere? E poi, ce l’aveva proprio con lei, o con
qualcun altro della sua famiglia? O con tutta la sua
famiglia?
Raggiunse gli altri in
salotto con questi dubbi sulla mente.
Cambio scena. Albergo.
Un grande, rosso, albergo. La hall era deserta, non si
sentiva nemmeno una vocina di bambino. Era tutto inquietamente silenzioso e
abbandonato. Perché si trovava là? Aveva forse
prenotato una camera? Probabile. Però non sapeva né
quando e né dove. Camille camminò. Avanzò per il corridoio.
Troppa tranquillità,
le faceva paura. Tanta, troppa, paura. Odiava tutta quella tranquillità e quel silenzio. Voleva andarsene da lì. Si girò verso la
porta, ma non c’era.
Il cuore le cominciò a
battere veloce, sembrava che le scoppiasse;
gli occhi, umidi, facevano trasparire terrore
puro;
il viso tirato, faceva capire che la ragazza
stava per scoppiare a piangere.
Cambio scena. Una
strada, lunga, grigia, con delle macchine parcheggiate affianco al marciapiede.
Anch’essa era silenziosa e deserta come l’albergo.
Qui non c’era Camille.
Gli occhi della sognatrice vedevano soltanto il paesaggio, ma non sé stessa.
La telecamera girava,
puntando gli alberi, le macchine, le case e poi di nuovo la strada.
Silenzio.
Deserto.
Paura.
Ad un certo punto, si
sentì un rumore. La telecamera inquadrò una macchina. Questa stava
parcheggiando e da essa scese un uomo. Avrà avuto
sulla trentina. Capelli castani corti, occhi dello stesso colore e portava gli
occhiali. Aveva un viso dai lineamenti duri e una sguardo
scuro. Camminò con passo veloce e bussò alla porta di una villetta
bianca. Aprì una donna bionda con occhi azzurri. Aveva una faccia sciupata,
provata dalla malattia. Il suo sguardo triste, appena vide l’uomo si rallegrò.
Lo abbracciò e lo fece entrare. Si sedettero sul divano e cominciarono a
parlare. Non si sentivano le parole.
Parlarono per cinque
minuti buoni poi, silenzio. Abbassarono la testa fissando il pavimento, si presero per mano come per volersi consolare a vicenda. Poi
buio.
Cambio scena. Locale.
Era pieno zeppo. C’era chi beveva e parlava e chi ballava col proprio partner. Anche qui non c’era Camille ma un uomo. Pure lui, come
l’altro, aveva almeno una trentina d’anni. Capelli castani lunghi e ricci, occhi
marroni. Assomigliava a Slash dei Guns N’ Roses. Aveva
una sguardo fiero e orgoglioso. Stava seduto sui
divanetti e si gustava una birra rossa. Osservava la folla. La musica non si sentiva.
Finita la birra, Slash
(così lo chiameremo) uscì dal locale. Il sole stava tramontando, l’uomo tolse i
suoi rainban dal colletto della camicia e se li mise addosso. Cominciò a
camminare senza una meta precisa. Andava avanti, dritto per la strada. La luce
rossastra del sole lo illuminava.
Passò un ora, o almeno così sembrava. Il sole ormai era tramontato
del tutto e Slash si trovò da solo nella strada
descritta prima. Si fermò in mezzo ad essa e si guardò
in giro. C’erano le stesse macchine di prima e la stessa
solitudine. Tirò fuori dalla tasca del giubbotto di pelle
un pacchetto di sigarette e ne prese una. L’accese. Aspirò tranquillo la nicotina, poi lasciò uscire dalla bocca
una piccola nuvola di fumo. Era teso e inquieto.
Una macchina
abbastanza vecchia di colore blu notte attirò la sua attenzione. Gli sembrava
di conoscerla. Si avvicinò alla vettura e guardò all’interno. Sì, la conosceva.
Quella macchina apparteneva ad un suo conoscente. Mise lo sguardo davanti a sé
e guardò la villetta bianca. Dalla finestra si vedevano due ombre. Forse l’uomo
era lì dentro, pensò. Si avvicinò e guardò
all’interno. Sì, era proprio lui. (Il nome di questo
“lui” è sconosciuto, sia Slash che la donna [che sembrerebbe la madre] non lo
dicono.)
Dopo aver guardato,
Slash si sedette sugli scalini davanti all’entrata. Continuò a fumare la sua
sigaretta in tranquillità, nonostante fosse preda di una grande
ansia.
Cambio scena. Di nuovo
l’albergo. Camille si trovava dentro una stanza insieme a delle persone. Più
precisamente, con lei c’erano una bambina e una ragazza coi
capelli lunghi biondi e gli occhi azzurri che avrà avuto vent’anni. La bambina
invece aveva i capelli castani che le arrivavano sulle spalle e gli occhi
azzurri. Avrà avuto dieci anni. Erano sdraiate sul letto matrimoniale e
parlavano. Come successe sulle scorse scene, la voce non si
sentiva. Dalla loro faccia si vedeva che erano felici, però, i loro
sguardi facevano trasparire un po’ di paura. Anche le
altre due, come Camille, erano rinchiuse dentro quell’albergo.
La stanza era
abbastanza grande. In mezzo ad essa c’era il letto e,
nei lati di questo, due comodini. Di fronte stava un grandissimo armadio di
legno chiaro. E basta. Questi erano gli unici oggetti
presenti. Il pavimento era coperto da una moquette rossa, invece i muri e il
soffitto erano rosa. Le tre ragazze chiacchieravano. Ma non ridevano. Non riuscivano. Avevano
gli occhi umidi, l’ansia le attanagliava lo spirito. Ad un certo punto, sentirono un tonfo. Le tre
girarono la testa verso la porta. Sui loro occhi si leggeva terrore. Camille si
alzò e, a passo di formica, avanzò fino alla porta. L’aprì piano, cercando di
non far rumore, e mise la testa fuori per guardare. Vuoto. Rimise la testa
dentro e chiuse la porta. Con la lentezza di prima ritornò nel letto.
Ore le due ragazze e
la bambina non parlavano più. Stavano zitte ad aspettare. Non sapevano cosa ma aspettavano.
Passarono dieci minuti
e sentirono l’urlo d’un uomo. Le tre, terrorizzate, si
abbracciarono. Camille, nonostante la paura, decise di andare a vedere nel
corridoio chi avesse urlato. Col cuore in gola si alzò
e, lentissima, andò alla porta e l’aprì. Le gambe le si
paralizzarono e le ci volle moltissima volontà per fare un passo fuori.
Ci riuscì. Guardò alla sua sinistra. Niente. Guardò alla sua destra e vide una
porta aperta. Era terrorizzata, le gambe le tremavano tantissimo, ma riuscì ad
andare avanti. Raggiunse la porte e girò lo sguardo
all’interno. Vide la schiena di un uomo. Con flebile voce Camille gli chiese
che fosse successo. L’uomo si girò. Era il conoscente di Slash. I capelli
corti, di solito in ordine, erano tutti disordinati e gli occhi castani, erano
barrati dalla paura. Gli occhiali stavano giusti sulla punta del naso, mancava
poco che cadessero. L’uomo guardò Camille e non fiatò. Le si
mise affianco e alzò l’avambraccio, mettendo la mano alta col pollice
che indicava l’interno della stanza. Camille andò a guardare e ciò che vide le
fece venire un senso di nausea. Davanti a sé, sopra il letto matrimoniale,
stava il cadavere di una donna sulla quarantina, la madre dell’uomo. Lo sguardo fisso al soffitto, il sangue che le usciva da tutto il
corpo e tantissimi coltelli infilzati sull’addome e sul petto. Camille
non riuscì a resistere, corse fuori e vomitò. Ma ciò
che la spaventò di più non era il cadavere, ma ciò che l’assassino scrisse sul
muro rosa col sangue della vittima. Con una calligrafia ordinata e pulita,
scrisse ‘ voi siete i prossimi ’ . con
gli occhi barrati dall’orrore, tornò nella sua stanza, mentre l’uomo cominciò a
girovagare per il corridoio.
Camille raccontò alle
altre due ciò che aveva appena visto. La bambina si mise a piangere, la giovane
donna si trattenne, ma voleva piangere pure lei, Camille, invece, rimase
impassibile seduta sul letto. Adesso sapeva cosa stava aspettando. La morte. Ormai
ne era certa. Quel giorno, lei e le due amiche,
sarebbero morte. A questo pensiero, Camille non versò una lacrima, non le
venivano. Non riusciva a piangere. Se questo era il suo
destino, allora che venga. Rimase in uno stato apatico per almeno
mezz’ora poi, qualcosa dentro di lei riuscì ad animarla ed urlò a gran voce che
avrebbe cambiato il suo destino e non sarebbe morta. Cercò di convincere le sue
amiche ad uscire dalla camera ma non fu cosa semplice.
Riuscì a convincere solo la bambina, la giovane donna preferì
rimanere dentro la stanza, aspettando la morte. Camille e la bambina uscirono e cominciarono a girare per il corridoio. C’era un
silenzio disumano. Dalle stanze non usciva neppure un sospiro. Avevano una fifa
nera addosso ma continuarono. Il corridoio era
lunghissimo, sembrava infinito, non finiva mai. C’erano vari incroci, questo
fece capire alle due che quello non era un albergo normale. Aveva un solo
piano, lunghissimo, pieno di corridoi. Era facile perdersi, ed era ancor più facile finir preda dell’assassino.
Sentirono un urlo.
All’improvviso apparve l’uomo di prima che urlò alle due di scappare via. Le
due obbedirono e cominciarono a correre dalla parte da cui venivano. Camille si
girò per vedere cosa ci fosse dietro e lo vide. Un uomo dai lunghi capelli grigi con metà faccia coperta dalla
frangia. Il corpo longilineo e un set di coltelli tenuti nella cinta.
No, quello non era un uomo, era un demone. Camille corse,
tenendo per mano la bambina corse il più possibile. Girò in un corridoio
e poi in un altro ancora, cercando di sviare il demone. Ci riuscì. Non lo
avevano più alle calcagna. Aprì la porta di una stanza e vide dentro un
bambino. Pure lui si stava nascondendo. Disse alla bambina che aveva con sé di
stare chiusa in camera con lui, mentre lei sarebbe andata a cercare una via di
scampo. La bambina cercò di fermarla ma non ci riuscì.
Camille cominciò a correre per gli infiniti corridoi. Tornò nel corridoio in
cui era prima e passò davanti alla stanza in cui era nascosta prima di
cominciare a scappare. La porta era aperta. Aveva paura di entrare, sapeva già
la scena che le spettava di vedere, ma varcò comunque
la soglia e vide il cadavere dell’amica grondante sangue e pieno di coltelli.
Si mise una mano davanti la bocca e si sedette per terra. Aveva perso tutte le forze.
Guardò il muro e lesse la frase ordinata di prima. Chiuse gli occhi. Scivolando
col sedere all’indietro, uscì dalla stanza. Si alzò e cominciò a correre come
una forsennata. Girò per i vari corridoi. Voleva trovare al più presto una via
di fuga ma incappò nel demone. Si fermò. Lo guardò con
occhi barrati e fece retromarcia. Non aveva più fiato nei polmoni ma corse come
non aveva mai fatto. Il demone alle sue spalle, non la mollava. Lei era la sua
preda. Andò sempre dritta, sperava che il corridoio non fosse infinito come
sembrava e alla fine le sue speranze si esaudirono. Trovò la fine. C’era una
rampa di scale e su queste era seduto l’uomo di prima. Lei corse verso di lui,
e lo superò. Il demone stava camminando, tranquillo, leccava un coltello e gustava
già la prossima uccisione. Camille arrivò al piano di sopra e vide un corridoio
identico. Sentì un
urlo provenire da sotto, l’uomo era stato ucciso. Dei
passi piano, piano venivano verso di lei. Si rimise a correre. Arrivata
a metà corridoio si voltò e lo vide. Aveva un sorriso maligno sulla bocca e gli
occhi, che fino a quel momento non riuscì a vedere,
erano impossessati di una luce sinistra. La ragazza non aveva più forze, e
cadde in ginocchio. Abbassò la testa. Il demone si stava avvicinando. Camille
cominciò a piangere. Le lacrime che aveva trattenuto dentro di sé, uscirono.
Aveva paura, tanta. Non voleva morire. Però ormai
mancava poco. Cominciò a piangere più forte e urlò:
Il demone si fermò a cinque centimetri dalla sua testa e per la prima volta
parlò:
Camille, quando urlò
‘Vivere’ alzò la testa e incrociò gli occhi del demone. Non avevano più quella
luce sinistra e il sorriso maligno era sparito. Non aveva nessun coltello in
mano e la guardava. In quell’attimo Camille vide in lui un uomo, e non più un
demone.
L’assassino si girò e
cominciò a camminare verso le scale. Camille se ne stette in ginocchio in mezzo
al corridoio, a fissarlo mentre si allontanava.
Il ricordo finì e Camille, ancora avvolta da paura e ansia, spense la luce e chiuse gli occhi. Si addormentò poco dopo, con un sorriso sulle labbra. L’incubo ormai era passato, e non sarebbe più tornato.
-the end-
Buona sera a tutti. Era
da tantissimo che non scrivevo qualcosa. Bene. Questa fic è nata dall’incubo
che ho fatto sta mattina. Mi ha spaventata talmente
tanto che lo ricordo perfettamente. Ovviamente, non era così ben descritto, era
a pezzi e io, ho cercato di descrivere il meglio possibile le scene che ho
visto.
Spero che vi piaccia!
I commenti sono sempre
ben accetti e ne aspetto di tutti i tipi, da quelli
positivi alle critiche costruttive.
Un saluto dalla vostra
Glox.