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Autore: MartixHedgehog    06/09/2013    2 recensioni
In questa storia Sonic è un giovane riccio di dodici anni che corre per cercare libertà e solitudine: libertà da un mondo crudele e opprimente in cui regna la legge del più forte; solitudine da uno zio un po' strampalato e soprattutto da dei coetanei che lo maltrattano e con cui non è mai entrato in sintonia. Ma la sua vita cambia quando nella valle dove abita arriva un altro riccio che potrebbe essere suo fratello da tanto gli somiglia, con quel pelo turchese e i suoi luminosi occhi azzurri... che però, a differenza sua, è costretto su una sedia a rotelle. Un riccio che non può correre, che non potrà mai assaporare quel vento di libertà che tanto gli piace inseguire. Un riccio così diverso da lui che non potranno mai intendersi, pensa Sonic. E invece ben presto tra i due nasce qualcosa: un'amicizia profonda, che saprà insegnargli che esistono tanti modi di correre, e che anche chi non ci riesce può imparare a sognare, a vivere, a trovare la felicità.
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Sonic the Hedgehog
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 8
In cui Sonic riceve un regalo inaspettato
 
«Domani verifica a sorpresa!»
 
L’orribile realtà si abbatté sulla 2^B come un’enorme quercia colpita da un fulmine, ma il silenzio attonito che ne seguì non durò più di tre secondi.
 
«Ma come, prof! Domani ne abbiamo già un’altra!»
 
«E dopodomani un’altra ancora! Cos’abbiamo fatto di male?»
 
«Se cominciamo l’anno così, alla fine ci dovrete raccogliere col cucchiaino!»
 
Questi furono solo alcuni dei frammenti di lamentele che arrivarono alle orecchie di Sonic, che a dispetto del disappunto se ne rimase in silenzio, limitandosi a scuotere la testa e ad alzare gli occhi al cielo. Una verifica a sorpresa, dopotutto, significava un pomeriggio passato a studiare... e studiare difficilmente è compatibile col trovarsi al campo con Zephir.
 
«Accidenti!», ringhiò a denti stretti rivolto al porcospino azzurro che sedeva accanto a lui. «Con tutte queste verifiche non riusciremo ad avere un pomeriggio libero fino a venerdì!»
 
Per tutta risposta, Zephir si volse a guardarlo con gli occhi spalancati: «Vuoi dire che vorresti rifarlo davvero? Intendo un pomeriggio come ieri...»
 
«Certo che sì!», esclamò Sonic, convinto. «Perché? A te non è piaciuto?»
 
«Sì, assolutamente!», annuì con forza Zephir. «È solo che credevo... Insomma, non sei obbligato a stare al mio passo, se non ne hai voglia. Il mio era solo un esperimento, ma non devi mica sentirti costretto a...»
 
«E chi si sente costretto!», replicò Sonic, giocoso. «Io mi sono divertito, ieri! Non ci avrei mai creduto, ma è stato... bello! Non avevo mai provato a camminare e basta... ma ho scoperto che non è poi così male! Mi piacerebbe rifarlo, anzi!»
 
Il sorriso del suo amico pareva sciogliersi dalla felicità.
 
«Grazie, Sonic!», bisbigliò, quasi con le lacrime agli occhi. «Lo sapevo che mi avresti capito!»
 
«Volete farmi la cortesia di abbassare il volume, miei cari esserini spinosi?»
 
I due ricci si zittirono immediatamente, al richiamo di Miss Aegolius.
 
«Bene. Come dicevo, razza di marmaglia, potete lamentarvi quanto vi pare, ma non mi farete cambiare idea. Domani ci divertiremo tutti in compagnia di un memorabile questionario a risposte aperte sul nobile triangolo... e vedremo se dopo questo avrete ancora voglia di farmi arrabbiare. Mi sono spiegata, cari i miei adorati organi vestigiali?»
 
Al suo fianco, Sonic sentì Zephir soffocare una risatina: ormai anche lui doveva avere una buona panoramica di tutto il repertorio di insulti con cui la Aegolius usava apostrofarli.
 
C’era davvero poco da scherzare, tuttavia: era risaputo che Sonic detestava la scuola con tutta l’anima – e con essa, naturalmente, tutte le verifiche e le interrogazioni –, ma sapere che avrebbe dovuto rinunciare a un pomeriggio con Zephir per rimanere tappato in casa a ripassare era una cosa che lo faceva uscire dai gangheri. E tutto perché i suoi compagni di classe non avevano fatto altro che chiacchierare dall’inizio dell’ora…
 
«Non è giusto, però», riprese Sonic, stringendo i pugni in preda alla frustrazione.
 
«Vedrai che ce la caveremo!», disse Zephir, sorridendo incoraggiante.
 
Anche Sonic non poté fare a meno di sorridere. Di certo il suo profondo odio per la scuola andava a braccetto con l’antipatia per lo studio, ma per fortuna dopo un anno era chiaro che la Aegolius abbaiava tanto (strano ma vero, per una civetta!) e non mordeva quasi mai… e passata quella piccola crisi – anche se presumibilmente ne sarebbero seguite altre – avrebbe potuto ancora passare del tempo insieme a Zephir.
 
Era insolito poter chiamare qualcuno amico dopo così tanto tempo, almeno per lui… però non avrebbe mai creduto che fosse così piacevole e al tempo stesso rassicurante.
 
*       *       *
 
Per fortuna le due verifiche di inizio anno passarono senza mietere troppe vittime. In entrambi i casi il migliore – manco a dirlo – si rivelò Zephir, cosa che scatenò mormorii di malcontento in tutta la classe. Ma non in Sonic: certo, il voto che aveva ricevuto lui impallidiva al confronto con quello, a due cifre, del suo amico, ma la sottile invidia che nei primi giorni Zephir aveva suscitato in lui era del tutto svanita.
 
Ora c’era soltanto una profonda ammirazione, che sembrava moltiplicarsi a ogni nuova “conquista” di Zephir. E poi, se bastava a far schiattare d’invidia i suoi compagni, gli andava benissimo anche di avere un amico un po’ secchione.
 
Poi ritornò il venerdì, ovvero il giorno di educazione fisica.
A Sonic non sembrava vero che fosse già passata una settimana da quando lui e Zephir si erano finalmente chiariti e, per così dire, avevano stretto una sorta di “patto di amicizia”.
 
Quel giorno la lezione non si svolse il modo tanto diverso dal precedenti, ma qualcosa di differente ci fu lo stesso: Sonic si aspettava che il suo amico dal manto azzurro trascorresse quelle due ore con il muso incollato al suo romanzo, e invece, con sua grande sorpresa, Zephir lo seguì mentre si dirigeva verso la fine della palestra e passò un’ora abbondante a recuperare i palloni che occasionalmente Sonic non riusciva ad acchiappare dopo aver tirato al canestro.
 
Fu una lezione di ginnastica decisamente piacevole; forse la più piacevole che avesse mai fatto: non c’erano più soltanto lui e il suo pallone – visto che tutti gli altri compagni non lo degnavano di uno sguardo –; ora c’era anche Zephir che, strano ma vero, trovava più interessante chiacchierare con lui, piuttosto che dedicarsi a uno dei suoi “mattoni”.
E poi, ora che ci pensava, persino i canestri gli venivano meglio, con Zephir accanto che tifava in diretta, come se stesse assistendo a una partita di prima serie.
 
Solo quando Miss Cheetah richiamò i suoi alunni a rapporto per fare un esercizio tutti insieme, Zephir se ne ritornò a malincuore al suo posto.
Meno di un minuto dopo, il riccio color cobalto lo vide così immerso nel suo libro che nemmeno una cannonata lo avrebbe distratto.
 
Ora sì che lo sentiva, quel bizzarro pizzicorino che gli premeva da sotto lo sterno. Era invidia, per caso? Perché lui, Sonic, non riusciva a trovare cosa ci fosse di divertente (o anche solo di piacevole) in un libro, mentre per il suo amico era forse la cosa più preziosa al mondo? Lui doveva riuscirci, doveva assolutamente capire cosa c’era (se c’era) di così bello in un libro. Quando ne aveva parlato la prima volta con Zephir, però, non era andata troppo bene. Come poteva fare?
 
«Non distrarti, Sonic Hedgehog! Tieni dritte quelle ginocchia! Seriamente, ragazzi, avevo una bisnonna che era più sciolta di voi!»
 
Il giovane riccio ritornò in un batter d’occhio sull’attenti, sentendo la voce tonante della professoressa e arricciando il naso, senza farsi vedere, per l’ennesimo insulto gratuito. Si trovava in una posizione alquanto scomoda – gambe divaricate, schiena piegata in avanti fino allo spasimo e le mani che molleggiavano attaccate al pavimento. Decisamente non la posa ideale per riflettere, anche considerando che il suo sottocoda stava iniziando a bruciargli in un modo spaventoso (per non parlare di quello dei suoi compagni, a giudicare dalle loro espressioni sofferenti).
 
Uffa, mi toccherà aspettare fino all’uscita!, pensò tra sé con disappunto. Ora che Zephir non gli era più accanto, quella stupida lezione si stava rivelando di una pesantezza insopportabile. Chissà se il suo amico non avesse per caso il super potere di andare avanti nel tempo e di far suonare la campanella in anticipo?
 
Per fortuna, la tanto attesa fine della lezione arrivò, in un modo o nell’altro.
Sonic si sfilò le scarpe da ginnastica in un batter d’occhio e si rimise le sue solite, quelle rosse e bianche. Fuori dallo spogliatoio dei ragazzi lo attendeva Zephir, come al solito sorridente.
 
«Finalmente è finita, non ne potevo più!», esclamò il riccio cobalto, contento di avere vicino un qualcuno con cui potesse confidare i suoi stati d’animo.
 
«Davvero? A me sembrava divertente!», obbiettò Zephir, mentre si avviavano verso l’uscita.
 
«Infatti lo sarebbe, se non ci fosse nessuno che rompe!», replicò Sonic, dopo aver controllato che non ci fosse anima viva nei paraggi.
 
Non poté fare a meno di notare che il suo amico teneva ancora in grembo il libro che stava leggendo poco prima, mentre lui e gli altri compagni si “allettavano” con gli esercizi spacca-muscoli di Miss Cheetah.
 
«Ma davvero ti piace così tanto leggere?», chiese, d’istinto, accennando col capo al volume.
 
Voleva vederci chiaro, tutto qua: se dentro i libri c’erano davvero tutte quelle cose fantastiche di cui parlava Zephir qualche giorno prima, lui doveva scoprirlo assolutamente.
 
«Sì, tantissimo», annuì Zephir. Poi alzò le spalle e sospirò, quasi come se la considerasse una colpa. «Mi dicono sempre che leggo troppo, ma non posso farci niente… è più forte di me.»
 
«In che senso?», mormorò Sonic, senza capire. Cos’era quella sensazione che gli rodeva il petto dall’interno? Era invidia, forse? Perché gli stessi libri che per lui significavano solo interminabili pomeriggi di noia assoluta e inevitabile riuscivano a piacere così tanto al suo amico?
 
«Nel senso che quando inizio un libro – a meno che non sia un libro pessimo… anche se capitano di rado, per fortuna – succede che mi dimentico di tutto il resto. Mi passano le ore senza che me ne accorga, capisci?»
 
Sonic scosse piano la testa, pur essendo riluttante a procurargli l’ennesima delusione, e Zephir sospirò.
 
«Mi dispiace», mormorò, lasciando Sonic del tutto spiazzato.
 
«E per cosa?»
 
«Perché non riesci a capire», rispose l’altro, sconsolato. «Leggere è così bello… Scommetto che piacerebbe anche a te, se solo non partissi così prevenuto. Se non avessi cominciato a leggere per conto mio, credo che anche a me non piacerebbe per niente!»
 
«Ma… e se poi mi ritrovassi con un libro noioso?», obbiettò Sonic, riluttante a lasciarsi convincere.
 
«Devi solo smetterla di cominciare a leggere pensando che ti annoierai di sicuro!», spiegò Zephir, come se fosse la cosa più elementare del mondo. «Non è semplice le prime volte, lo so, eppure io ci sono riuscito!»
 
«Perché non hai niente di meglio da fare…», non poté impedirsi di borbottare Sonic, ma un attimo dopo si pentì di essere stato così freddo. Se avesse continuato a trattarlo con tale sufficienza, pensava, presto o tardi avrebbe finito per piantarlo in asso per sempre e per andarsi a cercare un compagno meno scorbutico.
Ma Zephir non diede segno di essersi offeso. Si limitò ad abbassare gli occhi e a sospirare, un poco affranto.

Ma Zephir non diede segno di essersi offeso. Si limitò
 
«Senti…», disse poi, come se fosse ansioso di cambiare argomento. «Devo darti una cosa.»
 
«Cosa?», domandò Sonic, cascando dalle nuvole. «Un regalo?»
 
«Sì, diciamo così», annuì Zephir con un sorriso, dopo un attimo di riflessione.
 
«Ma non è il mio compleanno!», obbiettò il porcospino cobalto, guardandolo stranito.
 
Zephir assunse un’espressione enigmatica, ma anche divertita, mentre sollevava le spalle. «E allora? Non dirmi che non lo vuoi solo perché non te l’aspetti!»
 
«N-no, certo che no…», si affrettò a mormorare Sonic. «Ma… che cos’è?»
 
«Lo scoprirai presto! Però prima dobbiamo uscire da qui», rispose l’altro con aria misteriosa, strizzandogli l’occhio.
 
«Va bene», assentì Sonic. Ma si poteva sapere cosa stava architettando?
 
Il grosso degli studenti era già uscito dalla scuola, dato che la campanella era suonata ormai da parecchi minuti, perciò i due ricci attraversarono l’atrio quasi deserto e raggiunsero il cortile.
 
Quando furono a pochi passi dal cancello, la curiosità di Sonic aveva raggiunto il limite: per citare lo zio Chuck, non stava letteralmente più nelle spine al pensiero di scoprire cosa mai Zephir aveva in serbo per lui. Non era sicuro che mostrarsi così impaziente fosse un comportamento educato, ma proprio non riusciva a impedirselo.
Osservò Zephir senza perdersi un solo movimento, mentre riapriva il suo zaino e ne estraeva un involucro di carta marroncina.
 
«Per te», disse semplicemente, consegnandoglielo.
 
Sonic se lo rigirò un paio di volte tra le mani, poi alzò il capo e lo fissò dritto negli occhi, come se temesse di ritrovarsi tra le mani un petardo acceso. Ma Zephir sorrise incoraggiante, invitandolo ad aprirlo.
 
Il riccio cobalto dovette faticare per non deglutire rumorosamente, mentre strappava il lembo di nastro adesivo che teneva insieme il pacchetto, con titubanza. Quando lo aprì del tutto, però, non poté fare a meno di rimanere a bocca aperta, del tutto incapace di parlare.
 
«Scusami se te l’ho preso così, senza dirti niente… ma volevo farti una sorpresa!»
 
Si accorse a malapena delle parole di Zephir mentre, incredulo, contemplava il suo astuccio, quello che lo zio Chuck gli aveva regalato… quello che era convinto gli avessero rovinato per sempre. E invece era lì, praticamente come nuovo: non c’era più nemmeno l’ombra di quel “pezzente” che gli avevano amorevolmente dedicato.
 
«Come… come hai fatto?», balbettò, stupefatto al massimo grado, quando fu riuscito a ritrovare un po’ di voce.
 
«Una spugna, uno degli smacchianti di mamma e tanta pazienza», replicò Zephir, strizzandogli l’occhio. «Per fortuna non era uno di quei pennarelli indelebili!»
 
Sonic era rimasto letteralmente senza parole. Mentre uscivano da scuola, la sua testa aveva passato in rassegna un numero imprecisato di possibili regali che Zephir avrebbe potuto fargli… ma non avrebbe mai, mai pensato a una cosa del genere: se l’intento del suo amico era di lasciarlo del tutto a bocca aperta, c’era riuscito in pieno.
 
«Io…», balbettò, senza avere la più pallida idea di cosa dire. «Grazie», mormorò poi, sentendo dentro di sé di non aver mai provato una tale riconoscenza verso qualcuno.
 
«Non c’è di che!», rispose amichevolmente Zephir, sorridendo. «Però… stai attento, la prossima volta che lo porti a scuola. Anzi, forse è meglio che non ce lo porti proprio!»
 
Sonic annuì con forza, sorridendo a sua volta quasi commosso.
Per un attimo – solo per un attimo – provò un potente desiderio di abbracciarlo, di stringerlo con forza, di condividere con lui tutta la tensione, la rabbia e (strano a dirsi) persino la paura per come i suoi compagni lo trattavano, per come era faticoso affrontare la scuola ogni giorno che passava… ma anche dargli una prova concreta che era un vero sollievo, per una volta, poter contare su qualcuno che lo capisse e che gli mostrasse un affetto sincero.
Però non lo fece. Si limitò a sorridere ancora, adesso un pelo imbarazzato, e a ripetere: «Grazie.»
 
Non seppe mai cosa ci fosse stato a trattenerlo: forse il suo fastidioso orgoglio, naturalmente regalo di famiglia; forse quella che aveva tutta l’aria di essere timidezza; forse, ancora, era stata la stessa condizione di Zephir a bloccarlo: come si fa ad abbracciare uno che sta su una carrozzina? Probabilmente, a pensarci bene, sarebbe stato più semplice di quanto non sembrasse, e mentre ripercorreva la strada di casa, dopo aver salutato e ringraziato ancora il suo amico, non poté fare a meno di sentirsi stupido.
 
Perché, perché non stava mai ad ascoltare quello che gli diceva la pancia e sopprimeva in questo modo qualsiasi emozione comunicatagli da quest’ultima? E soprattutto perché dopo una manciata di minuti si pentiva sempre di essersi comportato in modo così freddo e imperturbabile?
Il regalo che gli aveva fatto Zephir, anche se in pratica l’astuccio gli apparteneva già da prima, era di gran lunga uno dei più belli che avesse mai ricevuto… ma allora perché si era dimostrato, come al solito, così imbranato?
 
Sapeva fin troppo bene che un semplice “grazie” non bastava. Forse Zephir si era accontentato, ma lui era consapevole che avrebbe potuto fare molto, molto di più. Per questo sapeva esattamente qual era la prima cosa da fare, quando sarebbe rientrato a casa.

*       *       *
 
Evidentemente lo zio Chuck doveva essere ancora fuori – forse in giro o a fare la spesa – perché quando suonò il campanello nessuno gli venne ad aprire. Per fortuna, conoscendo la sua sbadataggine, suo zio teneva sempre un mazzo di chiavi ben nascosto nel vaso di fiori proprio accanto alla porta.
 
«A prova di ladro», diceva sempre lui. Sonic ne era un po’ meno convinto, soprattutto dopo aver visto certi telefilm polizieschi… ma era risaputo che togliere certe idee dalla testa di suo zio era come costringere il sole a tramontare in senso contrario.
 
Ficcò una mano nel terriccio fresco e armeggiò finché non avvertì il freddo del metallo sotto le dita; poi girò la chiave nella toppa e la sotterrò di nuovo nel vaso, attento a ricoprirla bene di terra.
Una volta dentro, salì di corsa le scale e, entrato in camera, abbandonò lo zaino contro l’armadio.
 
Stava per buttarsi sul suo letto e concedersi qualche minuto di meritato riposo, giusto prima che lo zio Chuck rientrasse e preparasse da mangiare, quando lo sguardo gli cadde sulla porta chiusa che si trovava proprio di fronte alla sua, nel corridoio: la stanza che lo zio aveva nominato suo “Regno del Sapere”, altrimenti detto una sorta di polveroso ripostiglio in cui Chuck conservava vecchie cianfrusaglie del passato (come scatoloni con dentro pile di fogli contenenti una miriade di calcoli incomprensibili), ma soprattutto con una libreria zeppa di volumi.
 
Testi di geografia, botanica, zoologia e un sacco di altre “logie” decisamente poco interessanti, perlopiù. Ma tra i tanti titoli c’erano anche alcuni vecchi libri di fiabe che con ogni probabilità risalivano a quando lo zio era piccolo, se non prima.
 
Solo qualche ora dopo si sarebbe chiesto – senza trovare risposta che lo soddisfacesse – cosa mai lo avesse spinto a entrare nella “stanza del sapere”, a trascinare una seggiola dal tavolo nell’angolo fino allo scaffale, ad arrampicarcisi sopra e a iniziare a spulciare tra i titoli. L’unica cosa certa era che doveva farlo: era il minimo, dopo che Zephir gli aveva tolto dal cuore un peso grande come una montagna, restituendogli il suo astuccio come se fosse nuovo. Così si mise alla ricerca di qualcosa di interessante, facendo passare l’indice sulle coste impolverate. Chissà che quei malloppi di carta che tanto piacevano al suo amico Zephir non nascondessero davvero qualcosa di interessante.
 
Era così concentrato che per poco non cadde dalla sedia, quando sentì la porta riaprirsi con un gemito e scorse la testa dello zio Chuck fare capolino da dietro di essa.
 
«Ah, sei qui!», sorrise, vedendolo.
 
Sonic rimase a fissarlo per un tempo interminabile in attesa di una sua prossima mossa, quasi temendo che volesse rimproverarlo per aver toccato i suoi libri senza permesso. Ma lo zio non aveva in mente nulla del genere.
 
«Continua pure, intanto che preparo da mangiare», lo incoraggiò infatti, strizzandogli l’occhio. «Stai solo attento a non cadere!»
 
Sonic sospirò, dopo che lo zio fu di nuovo sparito da dietro la porta: in certi momenti sembrava che non gli importasse poi molto di lui, ma in altre occasioni pareva addirittura che si preoccupasse troppo, e questo gli faceva sempre un sacco di tenerezza. Ridacchiando tra sé per essersi ritrovato con uno zio tanto bizzarro, eppure al tempo stesso straordinariamente unico, ritornò a concentrarsi sui volumi che ora si trovavano alla portata dei suoi occhi.
 
A dire il vero, la ricerca fu alquanto deludente – come del resto era accaduto quasi tutte le altre volte in cui si era messo a spulciare tra i libri di suo zio: a parte i saggi sulla flora e sulla fauna mobiana, che aveva già sfogliato decine di volte, non c’era proprio nulla in grado di destare l’interesse di un dodicenne. Del resto, nomi come “fisica quantistica”, “termodinamica subatomica” o persino “etnomusicologia comparata” (sempre che esistesse una diavoleria del genere) sarebbero bastati per far scappare chiunque a gambe levate, pensava.
 
Non sapeva nemmeno lui cosa stesse cercando di preciso: l’idea che stava pian piano prendendo forma nella sua testa era quella di andare alla ricerca di un libro… ma che fosse un libro vero, con una vera storia e delle vere avventure; non uno di quei noiosi trattati scientifici. Uno dei romanzi di cui tanto parlava Zephir, insomma.
 
Peccato che, per quanto il “Regno del sapere” apparisse vasto, non riusciva a scorgere nemmeno un titolo che non facesse pensare a un saggio di scienze, o quel che era. Ciò che cercava lui era una storia in cui perdersi – o almeno in cui cercare di perdersi –, in modo da poter dare al suo amico una prova che lui, dopotutto, non era il classico ragazzino superficiale che detesta qualunque cosa solo perché non la conosce. Doveva provarci a ogni costo, se non altro per riconoscenza… ma come poteva riuscirci, se in tutta la casa non c’era un solo libro del genere?
 
Deluso e amareggiato, smontò dalla sedia con un balzo e la rimise al suo posto, sotto al tavolo. Stava per uscire dalla stanza e raggiungere lo zio al piano di sotto quando, finalmente, l’occhio gli cadde su qualcosa di suo interesse.
 
Non uno dei libri che cercava, ahimè, ma comunque qualcosa degno di attenzione. Nello scaffale più basso della libreria, incastrato in un angolo e a malapena visibile, c’era un volume che aveva significato molto per lui, in quegli anni: a un’occhiata esterna poteva apparire un semplice album di fotografie, ma per lui era molto, molto di più. Poteva considerarlo l’unico vero aggancio diretto con la sua famiglia, dopotutto: del resto, le foto che l’incendio non aveva distrutto erano rimaste tutte lì. Non tante, forse, ma non per questo meno importanti.
 
Guardò l’orologio che ticchettava pigramente sulla parete: non mancava molto a che lo zio venisse a chiamarlo per venire a mangiare. Una decina di minuti, perlopiù. Però tanto bastava, almeno per darci una sbirciata.
 
Era molto tempo, forse troppo, che non aveva il coraggio di sfilare quell’album dalla libreria… forse perché ricordare, a dispetto delle apparenze, sembrava diventare ogni giorno più doloroso. Ma quella volta riuscì chissà come a trovarlo: prese il libro e si sedette sulla poltroncina proprio di fianco alla libreria, accoccolandosi su uno dei poggioli con l’album sulle ginocchia; poi iniziò a sfogliarlo, perdendosi come tante altre volte tra quei pezzetti di passato che qualcuno aveva deciso di immortalare.
 
La prima foto dell’album era di gran lunga una delle sue preferite: quella dello zio Chuck quando era di un paio d’anni più piccolo di lui, mentre abbracciava con affetto un riccio appena nato, di un brillante color blu elettrico, con gli occhi serrati e un musetto tenerissimo. Suo padre, naturalmente, pochi giorni dopo essere venuto al mondo.
 
Certo, gli era difficile immaginare che anche il suo povero papà potesse essere stato un cucciolo così piccolo e indifeso (per non parlare dello zio Chuck, con quei suoi incisivi storti, gli occhialetti premuti sul naso e la sua solita aria da sapientino!), ma al tempo stesso era felice di sapere che quel riccio spelacchiato sarebbe presto diventato un adulto in gamba come suo padre. Anche se lo riteneva decisamente impossibile, forse persino lui crescendo si sarebbe trasformato in un riccio grande, forte e rispettato da tutti. Lui ci sperava, perlomeno, anche se dubitava fortemente di aver ereditato il coraggio che caratterizzava suo padre.
 
Poi c’erano altre foto, tutte stupende. Quelle in cui lo zio e il papà giocavano insieme, poco più grandi, e in cui si vedevano finalmente gli occhi di Jules Hedgehog: verde smeraldo, grandi e luminosi... proprio come i suoi (del resto lo zio Chuck gli ripeteva sempre che lui era praticamente la fotocopia rimpicciolita di suo padre); le foto dei vari compleanni, a partire dalla prima candelina di Jules; quella in cui Chuck insegnava al fratellino ad andare in bicicletta; o ancora, quelle del primo giorno di scuola...
 
A mano a mano che le pagine dell’album si susseguivano, anche il tempo sembrava scorrere insieme a loro... e i due fratelli da cuccioli si facevano bambini, poi adolescenti, poi adulti.
Era a quel punto della loro vita che arrivavano le immagini che lui preferiva in assoluto, quelle che ogni volta gli facevano battere il cuore di felicità: quelle in cui, per la prima volta, compariva la sua mamma.
 
Il classico colpo di fulmine, gli raccontava sempre lo zio Chuck: sia lui che i genitori – ovvero i suoi nonni – inizialmente avevano pensato a una cotta passeggera, vedendo come il giovane Jules (allora poco più che ventenne) girava per casa con aria sognante decantando le lodi di “quella fantomatica Bernadette Hedgehog”.
Invece suo padre faceva sul serio, a quanto pareva... e lui non gli dava certamente torto, perché se la mamma, come se la ricordava, era di gran lunga la mamma più bella del mondo, in quelle foto era a dir poco splendida: manto azzurro, enormi occhi blu come il cielo al tramonto, le forme perfette e il viso dolcissimo, ma soprattutto il sorriso più stupendo che avesse mai visto.
 
Le foto con la mamma e il papà occupavano senz’altro una parte importante nell’album... ed era forse per quello che lui non si stancava mai di guardarle: li vedeva tenersi per mano, entrambi sorridenti e con gli occhi luminosi di felicità; li vedeva scherzare insieme e guardarsi con gli occhi colmi di tenerezza; li seguiva mentre correvano insieme, lei stretta saldamente alle sue spalle (la mamma, infatti, seppur ottima scattista, non era nata col dono della velocità); li osservava mentre si abbracciavano, stretti l’uno all’altra, guardando il sole che spariva dietro un prato di girasoli.
 
E poi c’era lui, quel bacio... così profondo, così pieno di vero amore in tutti gli angoli di quelle due labbra che si accarezzavano; così diverso da quei baci sterili e artificiali che vedeva ogni tanto in televisione. Un bacio che solo due ricci pazzi d’amore l’uno per l'altra potevano scambiarsi.
 
A quel punto nell’album c’era una svolta importante, perché foto dopo foto qualcosa cominciava a cambiare nella mamma: un'insignificante curvatura proprio sulla pancia diventava via via più pronunciata, come se Bernadette si fosse nascosta un palloncino sempre più grande sotto il suo maglione preferito. Ma non era un palloncino, lo sapeva bene... perché dentro la pancia della mamma si stava formando qualcun altro.
 
Da lì la storia si ripeteva: di punto in bianco la pancia grossa spariva e faceva la sua comparsa un nuovo cucciolo spelacchiato, coccoloso e assai dormiglione, che passava gran parte del suo tempo a ciucciarsi il pollice con aria d’importanza e a mangiare tutto ciò che gli si presentava davanti… E lui non poteva fare a meno di ridere, vedendo quanto quel neonato fosse ridicolo e piagnucoloso, con quegli occhioni color smeraldo ansiosi di conoscere il mondo.
 
Mancavano appena una decina di scatti, però, prima che quella bellissima storia si interrompesse bruscamente: le immagini di lui da piccolo, infatti, erano le ultime dell’album.
 
Come mai lo zio Chuck aveva smesso di usare la sua vecchia macchina fotografica, a partire dall’incidente? Sonic se l’era sempre domandato, senza però riuscire a trovare una motivazione soddisfacente. A volte gli dava l’impressione che avesse sentito con meno violenza la morte di suo fratello, dato che per lui – a parte per l’essersi ritrovato tra capo e collo un giovane porcospino da sfamare – la vita dopo la scomparsa di Jules Hedgehog non era mutata così tanto. A quel punto, tuttavia, era chiaro che il cambiamento era stato forte anche per lui, se di punto in bianco aveva appeso la macchina fotografica al chiodo, sebbene prima ne fosse appassionato.
 
Dunque aveva smesso… per lui, forse? Per evitargli l’imbarazzo di sentirsi al centro dell’attenzione, davanti a un obbiettivo? O per non fargli ricordare i “vecchi tempi”, quando ancora erano tutti felici?
Non fece in tempo neanche questa volta a darsi una risposta: dal piano di sotto arrivò, infatti, la voce dello zio.
 
«Sonic, è pronto!»
 
Sospirando, il giovane riccio richiuse l’album, smontò dalla poltrona e lo rinfilò nella libreria, al suo posto; poi uscì in corridoio e scese le scale, raggiungendo lo zio Chuck in cucina.
 
*       *       *
 
«Hai ricominciato a interessarti di biologia?», chiese, con apparente noncuranza, lo zio, mentre Sonic stava sgranocchiando un pezzo di carota.
 
«Mmh-mmh…», mormorò sovrappensiero in risposta, alzando lo sguardo al cielo. “Interessarti” era una parola decisamente grossa.
 
«Oh, continua pure, eh? Lo sai che quello che è mio è tuo, vero?», continuò lo zio, scompigliandogli affettuosamente gli aculei. Sonic annuì, sorridendo.
 
«Mi fa piacere se leggi. Pensavo ti annoiasse…» Disse queste parole con un mezzo sospiro, come se fosse rassegnato.
 
«Be’, non è che ne vado proprio matto», ammise Sonic, distogliendo lo sguardo. «Non fanno per me, i libri.»
 
«Per Zephir invece sì?», domandò lo zio con tono vago.
 
Il giovane porcospino dovette lottare per non farsi andare di traverso la carota e mettersi a tossire come un matto. Ma seriamente, sapeva leggere nel pensiero o cosa?
 
«Già», mormorò, chiedendosi come mai, di qualsiasi cosa parlassero, l’argomento “Zephir” riuscisse sempre a infilarsi dappertutto.
 
«E quali libri gli piacciono?», proseguì Chuck.
 
«Non lo so», rispose Sonic. Poi però ci ripensò: «So solo che mi ha parlato di gatti blu che evaporano e di altre cose stranissime… tipo un’isola nascosta tra le nuvole…», borbottò vagamente, ma stranamente lo zio si fece attento.
 
«Isola tra le nuvole, hai detto?»
 
«Sì… perché, lo conosci?», chiese il giovane riccio per tutta risposta, sulla difensiva.
 
«Stai scherzando? Se il fiuto non mi inganna (e non succede quasi mai, credimi!), quello era il libro preferito di tuo padre!», esclamò lo zio Chuck in preda all’entusiasmo.
 
«D-davvero?», balbettò Sonic, senza riuscire a credere alle sue orecchie.
 
«Certo che sì! Glielo leggevo sempre io quando era piccolo… e ti dirò, non ne aveva mai abbastanza, avrebbe voluto che glielo leggessi giorno e notte! Dovrei ancora averlo da qualche parte, sai?»
 
«Perché non me l’hai mai detto?», mormorò allora Sonic, abbassando lo sguardo.
 
L’entusiasmo sparì di colpo dal muso dello zio, per lasciare spazio alla malinconia… e ai ricordi.
 
«Non lo so», ammise, scuotendo la testa. «Non ti sei mai interessato di libri… Tuo padre ti raccontava sempre delle storie, ma forse eri troppo piccolo per ricordartele.»
 
Sonic sospirò e deglutì a fatica il magone che gli si era formato in gola al solo sentir nominare suo padre. Forse però poteva capirlo, lo zio Chuck, se non aveva mai accennato a quel libro che, a quanto pareva, da piccolo lui adorava: continuando a leggergli le fiabe avrebbe, per così dire, rimpiazzato il ruolo di raccontastorie del suo povero papà… e Sonic sapeva bene quanto lo zio non si reputasse neanche lontanamente all’altezza di quel compito.
Per fortuna, però, Chuck sembrava deciso a rimediare almeno in parte a quella mancanza.
 
«Facciamo così», disse, ricomponendosi. «Adesso finiaetto tutti i miei aculei che ti piacerebbe ancora, se ricominciassi a leggerlo!» Gli diede una pacca amichevole sulla spalla destra, e Sonic sorrise. Poi rifletté più a fondo sulle parole dello zio e si rabbuiò un poco.
 
«Ma… a leggerlo da solo?», mormorò.
 
«Certo, perché no? Sei abbastanza grande per farlo da solo, o sbaglio?», insisté lo zio Chuck con un sorriso incoraggiante sul muso. Poi gli passò una mano tra gli aculei e abbassò un po’ la voce: «So che potrà sembrarti pesante, all’inizio; ma… fallo per Zephir.»
 
Al sentir nominare l’amico, Sonic annuì con forza, ora più convinto di quel che stava facendo.
 
*       *       *
 
Quando ebbero finito di pranzare, zio e nipote ritornarono nella “Stanza del Sapere”, e Chuck si arrampicò sulla sedia per esplorare tra i piani più alti, quelli a cui Sonic arrivava a fatica e solo mettendosi in punta di piedi (cosa che preferiva evitare, se non altro per non rischiare di rompersi l’osso del collo). Rimase a osservarlo paziente, mentre lo zio scrutava i titoli con la massima concentrazione, talvolta borbottando o grattandosi il muso baffuto.
Poi, scoppiò in un’esclamazione di giubilo talmente improvvisa che Sonic sobbalzò.
 
«A-ha! Lo sapevo che non poteva essere lontano!», esultò, estraendo un libretto incastrato tra due volumi ben più ingombranti nell’angolo destro e allungandosi a tal punto sulla sedia che il giovane porcospino lo vide già a gambe per aria. A quel punto, Chuck smontò dalla sedia con sorprendente agilità e passò una mano sulla copertina del libro appena recuperato per pulirlo dalla polvere. Sonic lo fissò con impazienza.
 
«Ecco qua.» Quando fu soddisfatto del suo lavoro, lo zio gli porse il libro. «Tutto per te!»
 
Sonic lo strinse un po’ titubante: come sempre, l’idea di aprire un libro, mettendo così allo scoperto pagine e pagine di contenuti, gli faceva un effetto strano, come se il libro fosse un tesoro nascosto e lui uno sciacallo deciso a violarlo.
 
Stupido.
Il riccio color cobalto scosse piano la testa, scacciando la solita vocina fastidiosa.
 
Guarda che non morde, è solo un libro… solo uno stupido libro.
 
“Le avventure di Peter Pan”, diceva il titolo. Piuttosto anonimo, a prima vista, così come lo era la copertina: un tempo doveva essere stata di pelle, o qualcosa del genere, ma adesso era tutta rovinata e di un color marrone-sorcio-di-fogna davvero poco invitante… ma dopo otto anni vissuti sotto il medesimo tetto di Charles Hedgehog, ormai aveva imparato a non lasciarsi ingannare dalle apparenze. O almeno così sperava. Perciò si portò il libretto in camera e si distese sul letto, dopo essersi sfilato le scarpe, poggiando i piedi sul cuscino e sistemandosi a pancia in giù sul morbido materasso. Poi lo aprì e si mise a leggere, un pelo preoccupato ma al tempo stesso eccitato da ciò che quel malloppo di pagine aveva di certo in serbo per lui.
  
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