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Autore: _nottedimezzaestate_    16/09/2013    1 recensioni
Come sono nate le canzoni più belle di Ed Sheeran?
Capitolo 1: "Oggi fa troppo freddo fuori perchè gli angeli possano volare."
Capitolo 2: "Sei come il caffè freddo alla mattina, tu."
Capitolo 3: "E tu sei caduta come una foglia autunnale."
Capitolo 4: "Dovrei, dovrei?"
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Un ringraziamento a Felurian. Questa fanfiction è (sebbene inconsciamente) ispirata alla sua.
Genere: Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ed Sheeran, Nuovo personaggio
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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 Drunk


Aprii gli occhi, colpito dalla luce che proveniva dalla finestra aperta. Il rumore del traffico era assordante. Sbattei un paio di volte le palpebre poi mi rigirai nel letto.
Mi sollevai e mi appoggiai alla testiera.
Un secondo. Il mio letto non aveva una testiera. Solo un comodino.
La camera era carina: le pareti verde chiaro, il pavimento una parquet. Il letto era al centro della stanza, contro il muro e di fronte a una grande finestra. Sotto di essa c’era una scrivania completamente coperta da fogli e da un pc rosso della Sony.
A completare l’arredamento c’erano due comodini alle parti del letto e un armadio in legno scuro.
Fu il computer a farmi capire dove mi trovavo.
Quel computer rosso era sempre appiccicato a Abby.
E Abby era la mia migliore amica, con il suo rossetto rosso, le sue felpe blu e i suoi capelli tinti e con la sua acidità.
Stavo ancora metabolizzando l’informazione quando una bionda fece capolino dalla porta.
“Ora mi spieghi cosa cazzo ci faccio qui!” Dissi.
Lei scoppiò a ridere.
Indossava solo una maglietta bianca che beh… Era un po’ trasparente.
Era bella, ma bella davvero. Mora naturale, tinta da quando aveva sedici anni di biondo platino. I suoi occhi erano grigi, a volte, dipendeva dalla luce, risultavano azzurri. La bocca sottile e chiara, le gambe lunghe, lunghissime, senza fine.
“E non ridere, troia” Conclusi, abbassando la testa e iniziando a ridere anche io.
Lei era innamorata di me, da anni.
E credeva non lo sapessi. Ok, un po’ rimbambito lo sono, ma non così tanto.
“Ieri sera ci sei andato giù pesate con l’alcool, Edduccio. E..”
“Chiamami ancora una volta Edduccio e ti spacco il computer in testa.”
“Ok, ok… Comunque, ieri sera hai esagerato più del solito. E sei svenuto, grandissimo coglione. Mi facevi troppa pietà per lasciarti lì a marcire, così ti ho portato qui”
“E togliermi i vestiti era proprio necessario?” Alzai le sopracciglia. Si insomma, io in mutande…
Lei sbuffò. “Credimi, ne avrei fatto volentieri a meno, ma poi ti sei vomitato addosso, coglione.”
“Sei diventato del colore dei tuoi capelli” Disse, chiudendosi la porta alle spalle.
Sospirai.
Mi aveva chiesto, tempo prima, di stare insieme. Io avevo rifiutato, con mille scuse. Non ero innamorato di lei e non potevo farci assolutamente nulla, e di odiavo per questo. Avevo anche provato a farmela piacere, ma io non mento mai. O quasi.
Abby entrò di nuovo cinque minuti dopo con due caffè in mano. Me ne porse uno sdraiandosi accanto a me.
Eravamo sempre amici, ma non come prima, dopo tutto quello. C'era una bruciatura sul suo cuore, e non sarebbe guarita facilmente.
Evitavo di guardarla, e lei - fortunatamente - faceva la stessa cosa con me.
Era inverno. La neve copriva il vetro della finestra, e tutto fuori era bianco. A me il bianco non piace. Non è un colore. Il bianco è vuoto, è nulla. Il bianco non è assolutamente niente. A me piacciono i colori forti, accesi, che ti colpiscono e ti rimangono negli occhi per qualche secondo.
Iniziai a sentire freddo. Sono io o...?
“Abby, ho freddo.”
“Anche io!» Disse. “No, non di nuovo, non ora!”
La guardai perplesso. Lei corse velocemente fuori, preoccupata. Faceva sempre più freddo lì dentro, sentivo le ossa gelare. Abby non tornava, e io me ne stavo dentro quella stanza che non era la mia, seduto sul letto. Mi avvolsi nelle coperte. Sentii il suo profumo dappertutto, sul cuscino, sulle lenzuola, incastrato tra i miei capelli.
Sapeva di buono, lei. Fragola e vaniglia. Come il mio gelato preferito. A volte, ma solo per le occasioni speciale, metteva le stesso profumo che aveva mamma. Così sapeva di lei, mi ricorda un po’ la mia infanzia, quando avevo paura del temporale fuori e lei mi abbracciava, dicendomi che non era nulla e che tutto sarebbe passato.
Tutto sarebbe passato.
E se non passava… Ci si abituava. Funziona così. Ci si abitua al dolore. Ci si abita, nel dolore. Continuavo a ripetermi queste sue parole da due anni ormai.
Morta per cancro.
Si dice che quando due persone si amano davvero muoiono in poco tempo, uno dietro l’altra. Ecco, mia madre si è spenta un nervosissimo giorno di gennaio, con intorno due dottori, il suo figlio pazzo, la sua figliola preferita e suo marito. Stava tenendo la mia mano, quando la stretta è venuta a mancare e quella macchina a cui stava attaccata ha smesso di fare bip intermittenti.
Ho sorriso.
Aveva smesso di soffrire.
Mio padre invece è morto ai primi di febbraio, solo, sul suo letto, nella notte. Le ultime parole che mi ha rivolto sono state di andare a fanculo. Nulla riassume meglio il nostro rapporto.
Si sono amati. Si sono consumati, come le mie felpe.
Iniziai a sentire un leggero tepore, soddisfatto.
La mia amica ritornò da me, con uno strano sorriso stampato in faccia. “Si era rotto il riscaldamento, di nuovo. Ma questi possenti muscoli” Mi mostrò un bicipite che non avrebbe fatto paura a una formica senza una gamba. “Hanno sistemato tutto egregiamente.”
Mi suonò il cellulare, e i Coldplay si fecero eco nell’aria della stanza.
Il mio Nokia molto, molto antico era poggiato sul comodino, sopra un libro.
Hunger Games, the Catching Fire.
Lo afferrai, scocciato. Sul display, come un pugno appariva la foto di April, mia sorella. Capelli biondi e occhi verdi, l’opposto di me. Io avrei dovuto avere i suoi occhi e lei i miei. C’è stato uno scambio. Ma lei si è tenuta le doti migliori. Un gran cervello, quella bellezza insuperabile, riuscire a camminare su quei trampoli e il totale e incondizionato amore dei genitori. Io ero… Edward.
Ci siamo sempre odiati. Ma non odio fraterno, che poi ci si aiuta. No. Lei è quell’estranea che vive in casa mia, e io sono quel coglione che vive in casa sua.
“Cosa cazzo vuoi?” Risposi, sbuffando.
“Intanto ti calmi” disse. “Ian vuole tanto farti venire da noi a pranzo. Non ti conosce ancora abbastanza, per questo vuole vederti.” Ian era suo marito. Non capisco tutt’oggi come facesse a stare con lei. Era simpatico, non mi disprezzava, almeno. Ogni tanto veniva a bere qualcosa con me, come un amico. Aveva un paio di occhi nocciola che ti foravano e dei capelli biondi che ti incantavano, con mille sfumature.
E, chissà perché, le loro figlie, Annabeth e Julie, avevano i capelli rossi. E gli occhi azzurri.
La prima aveva quattordici anni, e la seconda tre. Mi adoravano, e la cosa era reciproca. Ogni tanto April le parcheggiava da me, e loro erano contente. Anche la maggiore, che è in quella fase “tutti vanno bene tranne i miei parenti”. Ogni tanto mi parlava persino dei suoi ragazzi, pensate. Si toglieva le cuffie dalle orecchie e iniziava dei lunghi monologhi. Io ascoltavo, ricordando com’ero a quell’età. Un cretino, come ora.
“No Apr, oggi non posso.”
La sento sospirare di sollievo. “Menom.. Ochei.”
Chiudiamo la comunicazione senza nemmeno salutarci.
Abby mi guardò, indecisa sul da farsi.
E io sapevo già cosa sarebbe successo.
“Ed.. Ed, ti devo parlare” Disse, con un filo di voce. Come previsto. E sapevo anche come sarebbe finita.
Si alzò dal letto e si sedette sul legno del tavolo, accanto al suo portatile. Si mordeva il labbro, come quando era nervosa.
“Lo so che mi hai già detto di no. Ma non ce la faccio..”
“Abby, conosci già la mia risposta.”
I suoi occhi si riempirono di lacrime, e le sue infinite gambe iniziarono a tremare.
Mi alzai, dispiaciuto.
Presi i miei vestiti, che lei aveva lavato, e me li infilai. Erano caldi, e sapevano di lei, chissà come.
“Non cambi mai.” Afferrai il cellulare e me lo lasciai scivolare in tasca, scuotendo la testa.
“No, non cambio. E lo sai.” Mi diressi verso la porta.
Dovrei restare?
Dovrei spiegarle che per lei non provo niente, oltre a quell’affetto che porta l’amicizia?
Dovrei abbracciarla e dire che mi dispiace?
Dovrei dirle che passerà?
Dovrei, dovrei?
 
“Should I, should I?”


*applausi*

Ok, mi dovreste applaudire. Ho scritto i tre quatri e forse di più in mezz'ora. Dovevate vedermi:
*ore 16:02*
Io: Cosa devo fare... Mi sto dimenticando qualcosa!
Mamma: Devi fare i compiti?
Io: HAHAHAHAHAHAHAHAH no.
Io: CAZZO LA FANFICTION!
Mamma: I termini!
Io: Scusa mamma
Ecco, tipo così. E ora sono apssati quatanta minuti giusti (y)
Beh, ora che ci penso i compiti li devo fare davvero.... Cavolo.
Vado prima che mi ne dimentichi di nuovo vah, buona gggiornata ♥

Ali 
  
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