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Autore: Angie Mars Halen    20/09/2013    1 recensioni
Nikki sta attraversando il periodo più buio della sua vita e ha l’occasione di incontrare Grace. Dopo il loro primo e burrascoso incontro, tra i due nasce una profonda amicizia e Grace decide di fare del suo meglio per aiutare e sostenere il bassista. Inizialmente Nikki è felice del solido rapporto che si è creato tra lui e questa diciassettenne sconosciuta, ma subentrerà la gelosia nel momento in cui lei inizierà a frequentare uno dei suoi compagni di band. Mentre dovrà fare i conti con questo, Grace, che è molto affezionata a lui e quindi non vuole abbandonarlo, dovrà fare il possibile per non essere trascinata nell’abisso oscuro di Sikki.
[1987]
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mick Mars, Nikki Sixx, Nuovo personaggio, Tommy Lee, Vince Neil
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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3) GRACE

Salutai Grant mentre svoltava in fondo alla strada a bordo della sua auto. Accanto a lui e per metà sporta dal finestrino, Elisabeth mi mandò un bacio. Non appena li vidi sparire dietro l’angolo, ripresi a camminare con la bretella della borsa che mi stava distruggendo una spalla. Dopo una pesantissima giornata di lezioni, una spalla indolenzita era l’ultima cosa di cui avevo bisogno, mentre la prima era una passeggiata per scaricare la tensione che avevo accumulato durante il monologo di un professore che sembrava divertirsi a fare terrorismo sull’esame di spagnolo. Sferrai un calcio a una lattina abbandonata sul marciapiede e la osservai rotolare dall’altra parte della strada, producendo un fastidioso rumore metallico, l’unico udibile in tutto il vicinato. Mi domandavo come avrei fatto a superare quell’esame, perché chi lo aveva già sostenuto diceva che, nonostante avessero studiato a lungo e non avessero saltato mai la lezione, il massimo a cui si poteva aspirare era il voto minimo. Presa dai miei pensieri e preoccupata per la mia sorte accademica, non mi accorsi del palo di un segnale stradale e lo centrai in pieno con la fronte come una perfetta imbranata. Incenerii il palo con un’occhiataccia, poi il mio sguardo salì fino al cartello, che riportava in lettere maiuscole VALLEY VISTA BLVD. Nella mia testa il collegamento con la Villa degli Orrori fu immediato e involontario, tanto che cominciai a guardarmi intorno finché non realizzai che si trovava un centinaio di metri più lontano. Dal momento che ero da sola, mi incamminai verso di essa con fare disinteressato, passando davanti a delle altre splendide case con prati all’inglese adornati da aiuole colorate. Il cancello della Villa era l’unico a essere stato attaccato dall’edera e il fogliame degli alberi lo toccava, creando una sorta di tunnel vegetale. Avvolsi una mano intorno a una delle sbarre di metallo ruvido e cercai di vedere oltre l’ombra del giardino, anch’essa creata dalle chiome verdeggianti. L’erba era alta e le aiuole incolte, e i fiori volgari del tarassaco erano cresciuti ovunque, persino in mezzo alle pietre quadrate del viottolo. In un angolo era ammassata una piccola catasta di legna nascosta da un telo di plastica coperto da chiazze di muschio secco, e più in là, in mezzo a quel posto trascurato, era ancora parcheggiata l’automobile sportiva che avevo visto la volta precedente. Sembrava che il proprietario l’avesse parcheggiata lì per nasconderla, come se l’avesse rubata o come se fosse coinvolto in qualcosa di losco. Eppure, anche stavolta, le luci erano spente e le finestre chiuse nonostante le temperature piacevoli.

Dal momento che la curiosità mi stava divorando e Grant ed Elisabeth non erano con me, decisi di sfidare il destino e scoprire qualcosa di più su quel posto. Mi infilai nella stradina che costeggiava l’altro lato del giardino, lasciai la borsa nascosta dietro un bidone della spazzatura e salii su di esso per scavalcare il muro. Mi ricordava quando, da piccola, provavo a salire al contrario sulle giostre del parco giochi. Adesso stavo facendo qualcosa di ancora più trasgressivo che salire su una giostra arrampicandomi per lo scivolo anziché usare la scaletta: stavo entrando in un giardino che non era il mio e questo avrebbe potuto portarmi dei grossi guai se qualcuno mi avesse vista.

Cercai di scivolare lungo la parete ruvida del muro per non fare rumore poi, una volta giù, deglutii a vuoto e avanzai lentamente lungo il viottolo finché non raggiunsi la porta, che anche quel pomeriggio era stata lasciata aperta. A quanto pareva, nessuno era più tornato. Se fosse successo, se ne sarebbero accorti e l’avrebbero chiusa.

La situazione che trovai nel salotto era la stessa di una settimana prima: la confusione regnava sovrana e la puzza non era svanita. Mi fermai al centro della sala dopo aver accostato la porta principale e osservai l’arredamento macabro: velluto rosso e nero, mobili antichi restaurati e gargoyles. Questi mi facevano davvero paura: sembravano pronti a prendere vita da un momento all’altro per saltarmi addosso e mangiarmi con i loro denti di pietra grigia. Sul pavimento, in mezzo alle tante altre cose sparse, c’erano delle copie di riviste di musica, le stesse che leggevo io. Sulla copertina di una c’era la fotografia di Steven Tyler, sulla cui faccia era stato scritto qualcosa con l’indelebile che non riuscii a decifrare. Era una calligrafia caratterizzata da lettere tonde e larghe, dalle quali partivano schizzi di inchiostro come se chi aveva scritto avesse avuto la mano che tremava, il che mi fece dedurre che appartenesse a qualcuno che andava di fretta o che era molto agitato. Un divano di pelle con una coperta bianca occupava la parte del salone adibita a soggiorno, mentre quella adibita a sala da pranzo era irriconoscibile: non c’era una sola sedia che non fosse stata sbattuta per terra, proprio come l’ultima volta. Sul divano mi sembrò persino di vedere una chitarra, ma quando feci per avvicinarmi dovetti fermarmi.

Fu allora che sentii un lamento sommesso provenire dal piano superiore. Trattenni il respiro e mi concentrai. Sembrava che qualcuno stesse piangendo, ma non riuscivo a capire se si trattasse di un adulto o di un bambino, di un uomo o una donna. Non avevo idea di cosa stesse succedendo in quella casa, ma avevo l’impressione che la persona che si stava lamentando, chiunque fosse, non avesse modo di spostarsi da dove si trovava. Memore delle tante notizie di persone scomparse che sentivo alla televisione e di cui si discuteva all’università, mi domandai se quella casa fosse il covo di qualche gang di rapitori e se la persona che sentivo piangere fosse prigioniera. Forse avrei fatto meglio a farmi gli affari miei e andarmene, ma non potevo correre dalla polizia e dire che pensavo che qualcuno avesse nascosto una persona in quella casa perché avrei dovuto giustificare il mio sospetto ammettendo di aver commesso una violazione di domicilio. In altre parole, se veramente là dentro c’era qualcuno che aveva bisogno di aiuto, quella era la sua unica occasione per riceverne, così decisi che sarei andata a controllare di persona.

Mi diressi verso le scale e cominciai a salirle in punta di piedi. Le suole di gomma delle mie Converse cigolavano a contatto con il cotto degli scalini e i lamenti erano sempre più udibili. Giunsi su un pianerottolo nelle stesse condizioni del pianoterra e mi diressi verso la porta della stanza dalla quale mi sembrava di sentir provenire la voce, constatando che si trattava una camera messa ancora peggio del resto della casa. Il letto era disfatto, le lenzuola macchiate di ogni cosa possibile, e un posacenere straripante era stato appoggiato sul comodino invaso da bottiglie, che si trovavano anche sulla scrivania e sul pavimento. C’era buio, gli scuri erano chiusi e la luce filtrava dalla porta aperta e anche da sotto la porta di quella che probabilmente era la cabina armadio ma che sembrava proprio il punto da cui proveniva il pianto. Più mi avvicinavo, più sentivo che i lamenti erano vicini. Scavalcai un cumulo di vestiti maleodoranti e ne spostai uno con la punta del piede, notando che si trattava di una T-shirt nera con su stampato un complesso disegno di teschi e scritte. Era sporca di vomito. La cacciai via col tallone e continuai ad avvicinarmi alla porticina di soppiatto. Sentivo uno strano tintinnio ritmato e il rumore di qualcuno che strisciava sul pavimento, poi dei colpi di tosse che attribuii a un adulto. A quanto pareva, almeno non era un bambino. Allungai la mano verso il pomello e, mentre lo facevo, ripassavo mentalmente da quale parte sarei dovuta andare se avessi avuto bisogno di scappare. Quando sentii il click della serratura aperta, spalancai la porta.

Quello che trovai mi spaventò. Nel buio di quella che, proprio come avevo pensato, era una cabina armadio, c’era una persona rannicchiata contro il muro e circondata da oggetti che non riuscivo a distinguere. Teneva le ginocchia raccolte contro il petto, abbracciate, e la testa china su di esse. Per un attimo pensai che avesse perso i sensi, poi lo vidi muoversi a scatti per i singhiozzi. Era vestito solo con un paio di pantaloni scuri e si confondeva nel buio, ma la pelle diafana delle braccia risaltava illuminata dalla poca luce presente. Quando sollevò il capo, gli occhi scintillarono e io ero ancora immobile sulla soglia, paralizzata dalla paura perché se da una parte quello aveva l’aria di una persona che era stata rapita e abbandonata a se stessa in un luogo ostile, non lo era di certo, altrimenti la porta della cabina armadio sarebbe stata chiusa a chiave. Chiunque fosse, l’uomo si alzò all’improvviso, probabilmente per saltarmi addosso, ma non riusciva a stare in piedi e con una mano si sorreggeva alla parete.

“Vai via!” tuonò. La voce rimbombò tra le pareti della cabina armadio.

In una frazione di secondo ero già fuori dalla camera e lui, l’uomo di cui i vicini non volevano rivelare l’identità e che sembrava proprio vivere in quel posto, mi inseguiva attaccandosi a tutto ciò che trovava per non cadere. Quando si aggrappava alle maniglie scivolava per terra perché le porte si aprivano e perdeva il sostegno, mentre altre volte cercava di appoggiarsi al corrimano.

“Cosa vuoi da me? Dovete smetterla di tormentarmi!” urlò.

Non mi voltai indietro per guardarlo nemmeno una volta, quindi non avevo idea di che aspetto avesse. Sapevo solo che era alto e aveva i capelli neri come la pece. In quel momento mi interessava solo uscire da quella villa che trasudava morte da ogni singola crepa.

Tutto d’un tratto non lo sentii più. Pensai che fosse caduto e avesse sbattuto la testa, e se così fosse stato avrei dovuto fare qualcosa, come provare a soccorrerlo o chiamare un’ambulanza, ma non mi importava più nulla di lui. Volevo uscire, e se gli fosse successo qualcosa, sarebbero stati affari suoi.

Schizzai in giardino e mi ritrovai in strada. Ero stata talmente veloce che non mi ero nemmeno resa conto di quando avevo scavalcato il muro. Raccattai la borsa dal marciapiede e ripresi a correre per poi fermarmi solo dopo aver girato l’angolo. Mi lasciai cadere su un muretto, lanciai la borsa per terra e mi passai le mani tra i capelli, ripensando a quanto fossi stata stupida a pensare che in quella casa ci potesse essere qualcuno tenuto prigioniero in attesa di un riscatto. Se le cose fossero andate in maniera leggermente diversa e quel tizio fosse scivolato qualche volta in meno, avrei potuto fare una brutta fine.

Feci scivolare le mani lungo le tempie e poi sulle orecchie, e fu allora che mi resi conto che avevo perso un orecchino. Borbottai qualche imprecazione e cominciai a cercarlo nel colletto della maglia e nei capelli senza alcun risultato. Sbuffai rumorosamente e battei un palmo per terra perché quegli orecchini li avevo fatti a mano con dei cristalli che avevo comprato da una bancarella hippie durante una festa di quartiere. Evidentemente l’avevo perso mentre correvo fuori dalla Villa, quando ero troppo concentrata a scappare per rendermi conto che uno degli orecchini dell’unico paio che mi degnavo di mettere si era sfilato dal buco.

Sbuffai, mi caricai in spalla la borsa pesante e mi incamminai verso casa, ancora tremante per la paura. Mentre procedevo giurai che non avrei mai raccontato a Grant ed Elisabeth quello che era successo quel pomeriggio perché sapevo che mi avrebbero sicuramente rimproverata, e con tutte le ragioni.




N.d’A. : Salve a tutti! :D
Come al solito Grace non demorde e si caccia nei guai... e questo è il suo peggior difetto...
Ci tengo a ringraziare tutti coloro che hanno commentato e aggiunto la storia alle preferite perché mi hanno fatto davvero piacere!
Spero che anche questo terzo capitolo possa essere di vostro gradimento.
Ci si rilegge mercoledì prossimo.

Angie

   
 
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