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Autore: TheGirlNextDoor    23/09/2013    2 recensioni
Se mi chiedessero perché lo amo, non credo saprei rispondere in modo preciso. Non è il suo viso, non sono i suoi occhi, né tanto meno il suo corpo. Se mi chiedessero perché lo amo direi probabilmente, perché lui è lui ed io sono io, né più né meno. Amare Takano -san è diventato infatti un’ abitudine, come bere, mangiare o dormire. Come bevo, mangio, dormo, così amo Takano-san....
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’ ospedale puzza di fiori e disinfettante. La depressione nell’ aria è palpabile. Una vecchietta in pigiama mi sorride sdentata. Ricambio.  Mi dirigo al sesto piano. E’ li che mi hanno detto di andare.
Takano non è voluto venire, è diventato nero in volto quanto gli ho raccontato della chiamata. Si è vestito, si è coperto la bocca con la sciarpa e mi ha detto “vai tu”.
Sul bigliettino che mi ha dato l’ infermiera c’è scritto 316. Stanza 316. Sulle sedioline blu polverose accanto alla porta sono sedute due persone che non conosco.
“Buongiorno” dico.
Nessuna risposta.
Apro la porta pallida e un po’ ho paura. Paura di vedere An ferita e sapere che è colpa mia. Quindi esito, mi guardo le nocche rossastre sulla maniglia. Tremano. Poi la apro, con un colpo secco, deciso. Come quando mio padre mi toglieva i denti da bambino.  Non c’è An di fronte a me, non c’è il suo letto, solo un lungo tendone bianco.
Lo tiro, gli anelli stridono sull’ asta d’ acciaio che la mantengono e finalmente la vedo. Ha un tubicino in bocca, una flebo e i polsi fasciati. La puzza di medicine è più forte che nei corridoi. I lineamenti del viso sono distesi, quasi sereni. I capelli sudaticci raccolti sotto la nuca.
Per un solo secondo, uno soltanto spero che sia morta, che non si svegli mai più. Perché la mia felicità vale più della sua. E un secondo dopo mi pento di quello che ho pensato e un po’ me ne vergogno. Me lo hanno insegnato da bambino, queste cose non si augurano a nessuno.
Istintivamente le tocco il viso, sento che è calda e tiro un sospiro grande come il mondo con il terrore ancestrale che il mio desiderio si possa esaudire.
 La porta si apre e un vecchio energumeno in camice entra accompagnato da mia madre e da quella di An.
“Buongiorno signorino,  potrei sapere chi l’ha autorizzata ad entrare?” Esordisce.
“Me la sono presa da solo l’ autorizzazione”
“Ritsu non fare il maleducato” Mi rimprovera mia madre. “Lo perdoni Dottore, è molto scosso per quello che è successo.” Si scusa.
Vorrei replicare che è solo un vecchio cafone, e che non sarà certo una laurea in medicina a renderlo una persona migliore, ma sto zitto perché forse non è né il luogo né il momento più opportuno.
Il medico bofonchia qualcosa di incomprensibile.
“Veniamo a noi” dice infine “la ragazza oltre ad aver praticato su entrambi i polsi dei tagli seppur superficiali ha ingerito una grossa quantità di antidolorifici e sonniferi che ci hanno costretti alla bellezza di quattro lavande gastriche. Un record. Voleva andare sul sicuro la signorina.”


E’ per gli arroganti come lui che il mondo va a puttane.
La madre di An singhiozza, si chiede cosa ha sbagliato. Vorrei avvicinarmi a lei, dirle che non c’è niente di sbagliato in lei, che l’ unico che ha colpa sono io. Ma sono un codardo e la responsabilità non me la voglio prendere.  Mi limito ad una pacca sulla spalla ed è il gesto più meschino che possa fare.
Il medico -quello stronzo!- alza un sopracciglio con sguardo di sufficienza e si congeda pronunciando la frase di rito.
“Si riprenderà!”
E a quelle parole mi sento mancare. Il respiro mi muore in gola e le gambe non reggono il gravoso peso della consapevolezza che quell’avvenimento ha pregiudicato definitivamente il mio futuro. Gli occhi si offuscano di una patina alabastrina, il corpo è avvolto da un torpore pesante, mortale.  La mente, infine, cede impotente alla forza dello svenimento.
Il mio primo ricordo è un seggio bianco e il fiocco di cotone imbevuto di alcool che mi ha intasato le narici. Il risveglio è violento, quasi spastico. La vita torna ad inondare il mio corpo e prova ne è il forte sussulto. Mi sveglio urlando il nome di Takano e mia madre che mi è accanto trasalisce. Mi chiede chi sia. Non rispondo. Ho preso coscienza dell’accaduto all’improvviso e tutto ciò che riesco a fare è fissare spaurito le mattonelle candide della sala in cui mi hanno portato. Mia madre mi fissa silenziosa. Ha intuito che qualcosa non va, che non è la salute di An a rendermi così. Voglio andare a casa. Ho bisogno di qualcosa di familiare, di qualcosa che mi appartenga. Mia madre insiste perché me ne stia a riposare un altro po’.
“Prenderò un taxi.” le dico e le schiocco un bacio sulla fronte.
Quanti anni sono che non bacio mia madre? Quanto tempo è che non le rivolgo un gesto d’affetto, un segno tangibile della mia gratitudine filiale? E lei è commossa, perché è diventata vecchia. Quando si diventa vecchi basta il bacio di un figlio a commuoversi.
 
Arrivo a casa stremato, mi trascino per il corridoio e, con ancora indosso le scarpe, mi getto sul letto. Questo è sfatto dalla mattina. Le coperte disordinate sono relegate ad un angolo, al centro del letto un alone di soluzione salina. Quella che Takano aveva usato per farmi scendere la febbre. Nell’aria, ancora tangibile, il suo odore.  Mi sfioro le labbra asciutte. La bocca è impastata. La voce muore in gola. Il tic-toc dell’orologio e poi un silenzio perfetto. Vorrei dormire ma il pensiero di An in fin di vita mi rimbomba nella mente e nelle orecchie. Mi sento soffocare. Non riesco a respirare.  La vista si avviluppa.  La luce soffusa dell’ abatjour si dilata e diventa un bagliore insostenibile.  Le mani si intorpidiscono di un formicolio venereo.  L’inferno è così. La morte dei sensi. Anzi non la morte. L’incontrollabilità. Quella sensazione di impotenza dinanzi alla totale autonomia del nostro corpo rispetto alla nostra mente.  E sono un guscio vuoto, un farlocco. Mi agito nel letto e sono l’imitazione di me stesso.
Quella sorta di trance si interrompe al trillo acuto del cellulare. All’inizio non lo sento ma poi il rumore prepotente mi costringe a ricevere la chiamata. Premo il tasto verde e lascio libero sfogo a chi è dall’altra parte. 

Lo so chi c’è dall’altra parte.
Dall’altra parte del telefono e dall’altra parte del muro laterale della mia stanza. Trenta centimetri di mattoni e cemento ci dividono. Trenta centimetri di mattoni e cemento che a me paiono un abisso.
“Mi dispiace”
E’ un sussurro sottile.
“Mi dispiace”
Vagamente più forte.
“Mi dispiace”
Stavolta è quasi un urlo. E poi una sfilza di “mi dispiace”. 
“Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace.”
 Diventa isterico, forsennato. Sento un misto di gorgoglii e lacrime. Un pianto nasale. Come quello dei bambini.
Non chiede scusa a me, Takano. Chiede scusa ad An, ai suoi genitori, ai miei genitori, al medico stronzo, alle infermiere, alla vecchietta nel parco, alla vicina gentile. Chiede scusa al mondo intero. Chiede scusa perché mi ama. E per me è lo stesso. E’ una vita che chiedo scusa. Perché sono la persona sbagliata al momento sbagliato. Perché amo Takano e non dovrei.  Perché nonostante tutto, non voglio rinunciare. E quando la chiamata si chiude, prima che il campanello possa suonare, sono alla porta. La apro e c’è un ragazzone con i capelli neri, gli occhiali e gli occhi gonfi.  Mi crolla addosso, si aggrappa al golf e mi affonda il viso sfatto nel petto. Non parla. Io faccio altrettanto.  Non c’è niente da dire… in fondo, basta stare così. Vicini.
Quando sono certo che il cuore sia tornato ad un ritmo normale, avvio Takano alla stanza.
“Stenditi” gli urlo autoritario.
Ubbidisce. E’ insolitamente mansueto.
Faccio per allontanarmi e mi sussurra di rimanere.
“Mi vado a togliere le scarpe!” replico.
All’ingresso perdo più tempo del previsto. Mi muovo con lemma. Impiego dieci minuti buoni a scarpa. Poi mi decido e torno in camera.
Takano è ancora sveglio ha gli occhi sbarrati. Mi spoglio, davanti a lui, imperturbabile. Gli mostro il mio corpo imperfetto, e spero che lo guardi, che lo ricordi. Mi infilo il pigiama che da troppe notti non vedo. Gli faccio segno di farmi spazio. Mi accuccio accanto a lui. Fa freddo, e abbracciati si sta bene.  So che è sbagliato, che non è naturale… ma se essere nel giusto implica la sua assenza, preferisco finire felicemente all’inferno.
Allungo il collo e gli schiocco un bacio sulle labbra umide. E’ un attimo, l’inizio di tutto. Quel punto dal quale non si può più tornare indietro. Il secondo bacio è di Takano. E anche il terzo, il quarto, il quinto… e così via. Facciamo l’amore e sembra la prima volta. Non è l’amore di dieci anni fa, quello frenetico e affrettato degli adolescenti. No. Questo è posato, lento, ponderato. Ha la morale dei nostri anni. E’ fatto di sguardi, di sussurri,  di gesti delicati, di carezze.  Si muove con dolcezza… quasi a non voler far rumore.

Ogni tanto Takano mi bacia la fronte sudata. 
“Mi dispiace” – “Ti amo!”

  
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