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Autore: Flaqui    23/09/2013    6 recensioni
Il mondo è diverso da come lo ricordate.
La società è moderna, avanzata, dotata di ogni genere di tecnologia e ha affrontato il problema Bomba Nucleare con la costruzione di alcune zone sicure in cui è ancora possibile vivere. In un ambiente post-apocalittico, li unici insediamenti umani ancora esistenti sono le quattro grandi Cupole, rette da un Governo irreprensibile e organizzate in delle rigide classi sociali dalle quali non si può scappare.
I Governanti, una classe sociale unicamente maschile, si occupa di offrire al Paese un sistema politico degno di questo nome. I Guerrieri, allenati nella grande scuola di Metallica, difendono il Paese da minacce esterne e interne. I Produttori svolgono li altri mestieri, occupandosi delle necessità loro e delle altre classi. Ma c'è gente che non ci sta.
"Il mondo di Melanie finisce lì, si esaurisce alle pareti di materiale invisibile della Cupola, dove l’aria è respirabile e dove, grazie all'aiuto delle macchine, qualcosa cresce ancora. Fuori dalla Cupola Melanie non sa cosa sia esistito, un tempo.
Ma sa cosa c’è adesso. La morte."
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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N/A.
Le patetiche scuse dell'autrice in ritardo sono sicura che nemmeno le vorrete sentire. Mi dispiace, tengo davvero moltissimo a questa storia e non ho la minima intenzione di abbandonarla, ma putrroppo i tempi sono sempre piuttosto... sfasati e instabili. Non posso garantire una regolarità, non sempre almeno, ma posso garantire il mio impegno e la mia buona volontà nel continuare, nel cercare di migliorarmi e nel continuare a insistere.
Grazie mille alle 6 meravigliose ragazze che hanno recensito lo scorso capitolo! Mi sto afrettando a rispondere a tutte voi, per il momento beccatevi il piccolo riassuntino delle puntate precedenti: sono sicura che, dopo tutto questo tempo, non vi ricordate più niente:

Rebecca, dopo essere arrivata a Metallica da circa una settimana e aver iniziato a conoscere qualcuno (la sua amica -Anya-, i ragazzi che hanno diviso il treno all'andata con lei - Nicko e Sean-, le sue compagne di dormitorio -Sandè e Cyvonne-, e l'assistente dell'Infermeria -Pyke-), affronta una serie di prove fisiche e psicologiche. L'ultima e più complicata prevede salvare la sua amica Anya da un terribile pericolo, missione che Rebecca non riesce a portare a termine. Mentre se ne va a spasso con Pyke conosce Electra, una grande amica del ragazzo, Capo Squadra scotenta della sua posizione, in partenza per il grande Congresso nel quale verrano stipulati gli accordi di pace fra la Cupola Ovest -quella dove vive Rebecca- e la Cupola Sud. Fa la sua apparizione anche il misterioso "Shaw", che nè Pyke ne Electra sembrano trovare molto simpatico. Intanto Melanie, dopo la scoperta della relazione fra sua sorella e la sua amica Katerina, assiste in diretta al Congresso dove, non solo sono presenti Ray e Electra (e una ventina di altri studenti di Metallica) ma anche il Governante Colin (che suo padre voleva spossasse per fronteggiare le spese famigliari e la tassa sul nubilato). Le cose si complicano quando una Bomba dai fumi tossici viene lanciata nella sala del Congresso e la maggior parte della gente presente nella stanza muore o viene infettata.
 
Capitolo VI
Le cose che abbiamo perso nelle fiamme
 
 
I was the match and you were the rock
Maybe we started this fire
We sat apart and watched
All we had burned on the pyre
Bastille - Things we lost in the fire

(http://www.youtube.com/watch?v=MGR4U7W1dZU)
 
 
 
«Perché vuoi intraprendere questa specializzazione, Pyke?» aveva chiesto Malina quando lui le aveva proposto di prenderlo come suo assistente «La strada per diventare medyco è dura e non tutti riescono a percorrerla»
«Perché voglio farlo, l’ho sempre voluto. L’ho detto a mio padre, quando dovevo scegliere a quale Classe Sociale appartenere, ma lui non ha voluto…»
Malina aveva fatto un gesto secco con la mano, interrompendolo. A Pyke, quel suo atteggiamento inconsuetamente serio, metteva un po’ di soggezione e il fatto che non avesse sorriso nemmeno una volta da che era iniziato il loro colloquio non lo tranquillizzava affatto.
«Chiariamo subito una cosa, Pyke Jordan. Se hai intenzione di prendere questa specializzazione come una sorta di ripicca contro tuo padre, ti mostro già la porta»
«Non è per quello, assolutamente!» Pyke si era affrettato a giustificarsi e, sotto il suo sguardo severo, era arrossito leggermente «D’accordo, ammetto che l’idea di farlo innervosire non mi dispiace, ecco… ma voglio davvero fare il medyco. Dico sul serio, signora Yorinch!»
Malina aveva sospirato pesantemente e aveva afferrato l’O.L.O. con la sua scheda e la sua documentazione. L’aveva letta in silenzio e Pyke aveva trovato difficile respirare. Alla fine aveva sospirato di nuovo e, dopo aver lasciato la relazione sulla scrivania disordinata, si era portata le dita sottili alle tempie, massaggiandole appena.
«Va bene, allora. Rispondi ad un’ultima domanda, però, Pyke» aveva gli occhi chiusi mentre le dita continuavano a muoversi ai lati della sua fronte, in ampi e regolari cerchi «Cosa credi che faccia un medyco? Quale è il suo dovere?»
Pyke non si era soffermato un attimo a pensarci, prima di rispondere: dopotutto era il motivo per cui era lì, in quella stanzetta dalle pareti grigie e le finestre che davano sul nulla.
«I medyci salvano le persone, signora Yorinch. Fanno cessare i dolori, ridanno la vita»
Malina aveva spalancato gli occhi di colpo, lasciando ricadere le mani sul tavolo così velocemente che a Pyke erano sembrate macchie di colore confuse e indistinte «No, Pyke. Il compito e il dovere di un medyco è fare tutto quello che può. Noi non diamo la vita: non siamo Dio. Ci saranno volte in cui ti sentirai cedere davanti agli orrori della vita; volte in cui, nonostante tutti i tuoi sforzi, non riuscirai a salvare il tuo paziente e ci saranno volte in cui dovrai metterti da parte e lasciare correre. Credi di essere abbastanza forte da sopportarlo?»
Pyke aveva detto di sì e non ci aveva pensato più.
Poi c’era stata Henrietta Olland, che, durante una escursione nell’Area Natura, era caduta dalla Postazione sull’Albero e, priva di misure di sicurezza come era, aveva battuto la testa e il corpo al suolo. Il colpo le aveva spezzato alcune vertebre e incrinato la gabbia toracica. Una delle costole le aveva bucato un polmone. Era stata una morta lunga e dolorosa e Pyke aveva pianto come un bambino quando tutto era finito. Sentiva ancora la pressione delle dita della ragazza strette contro il suo braccio, sempre meno forti con il passare dei minuti, e il silenzio intorno gli era pesato addosso come un macigno.
Quella notte Malina era andata accanto a lui e l’aveva abbracciato. Non sembrava, visto la sua gentilezza e disponibilità, ma Malina era una persona molto riservata e allergica al contatto fisico, perciò Pyke ci aveva messo un po’ prima di abbandonarsi contro la sua spalla e singhiozzare contro la manica del suo vestito.
«Mi dispiace che sia andata così, Pyke. Abbiamo fatto del nostro meglio, tutto il possibile; ma ci sono alcuni dolori che anche i medyci non possono far cessare»
Tre anni dopo, quando Wanda O’Shea, una delle poche sopravvissute alla Strage del Congresso, si fu finalmente addormentata, Pyke si concesse di respirare di nuovo.
Fece un veloce cenno con il capo a Tommy, il ragazzo dei Beta che da quell’anno aveva intrapreso anche lui la specializzazione in Medycina e lo aiutava in Infermeria, e si ritrovò all’aria aperta senza nemmeno sapere come ci era arrivato.
C’erano delle persone per la Terza Strada, tutte si muovevano verso la Quarta, e a Pyke sembravano gusci vuoti e senza identità, confusi ammassi di molecole e atomi, esistenze senza importanza che facevano da contorno alla sua presa di coscienza.
Aveva lavorato come un pazzo per quasi trentasei ore di seguito e, ora che finalmente si era concesso un attimo di tregua, il suo corpo andava a riscuotere il prezzo.
I funerali di Electra, Sky, Lemmy, Fiona, Rick e tutti quegli che avevano fatto parte della sua adolescenza si tenevano nel grande cortile pavimentato all’entrata di Metallica. I cancelli in ferro erano aperti e a Pyke sembrarono immensamente alti.
Qualcuno aveva lasciato un mazzo di gigli bianchi accanto ad una delle colonne: senza nastro, solo i fiori e uno spago per legarli insieme. Pyke si era dovuto fermare e inghiottire a vuoto, a quella vista, e non era bastato: cinque minuti dopo era semi-nascosto dietro la piccola rimessa delle armi, curvo, a svuotarsi lo stomaco sui muri grigiastri, mentre qualcuno gli teneva una mano sulla fronte. In un primo momento nemmeno se ne era accorto, aveva pensato confusamente che si sarebbe sporcato i pantaloni e nessuno si sarebbe avvicinato a lui per il cattivo odore, e poi delle mani fredde si erano poggiate sulle sue spalle, reclinandogli appena il capo e lui si era sentito… vuoto.
Cosa importava dei suoi pantaloni, della gente e del cattivo odore? Qualcuno aveva lasciato dei fiori bianchi, non quelli sintetici e senza odore, ma veri fiori con profumo nauseante annesso. E i fiori veri si lasciavano solo quando moriva qualcuno. Era morto qualcuno –tante, tante persone- e il mostro rigonfio nel suo intestino continuava a contorcersi.
«Non ho la Divisa» gettò fuori, quando i conati gli diedero un attimo di tregua, e la sua voce gli apparve tremante, spezzata e impastata da tutto quello che aveva perso.
Gli occhi di Malina erano gonfi, rossi e pieni di tristezza e compassione «Non importa»
Pyke si sforzò di alzare lo sguardo verso di lei ma l’unica cosa di cui fu capace fu mettersi dritto contro il muro della rimessa e cercare di ignorare la fitta alla testa.
«Riesci a muoverti? Te la senti di andare a sentire le esequie?»
Pyke non scosse nemmeno la testa, tutto girava attorno a lui e l’unica cosa su cui riusciva a soffermarsi erano i volti dei suoi amici, su quello che si erano detti un tempo e su quello che non avrebbero mai più potuto dirsi.
Ci sono alcuni dolori che anche i medyci non possono far cessare.
Si sentiva come se i suoi piedi si fossero ancorati al terreno, come se si fossero tramutati in massicci, come se nulla al mondo avrebbe potuto schiodarlo da lì.
«Allora rimango qui con te»
Malina si appoggiò al muro e a Pyke, in quell’attimo, sembrò ancora più vecchia di quanto non fosse. Dalla rimessa dove erano appoggiati non si intravedeva niente. Stavano dando le spalle alle bare, alla funzione e a tutte le persone radunate per l’ultimo addio. Pyke cercò di immaginarsi la scena: una schiera di ragazzi in Divisa Ufficiale, gli Allenatori con i Paramenti Celebrativi, Governanti pieni di spocchia e indifferenza e poi i genitori delle vittime. Persone che aveva conosciuto, di cui conosceva la storia, che apprezzava e che, forse, l’avrebbero invano cercato fra la folla.
C’era un sacco di gente. La maggior parte della quale probabilmente non sapeva che Electra e gli alti avevano costantemente parlato male di loro alle spalle.
Pyke si immaginò Electra che ridacchiava di loro anche adesso, dovunque fosse.
Te la spassi, vero? Forse è meglio che tu non ci sia: non avresti sopportato tutto questo silenzio.
«Ieri sera la tua amica Rebecca è passata in Infermeria. Credo volesse parlare con te, ma poi è andata via subito» disse Malina, piano «Magari potresti cercarla, dopo»
Pyke non stava ascoltando.
Se provo a chiudere gli occhi e faccio finta di stare bene… Non è abbastanza. Perché il mio eco è l’unica voce che ritorna e la mia ombra è l’unica amica che ho.
 
I funerali per le vittime del Congresso si svolsero due giorni dopo l’esplosione per permettere anche a coloro che erano stati feriti di presenziare, anche solo per la durata della messa.
Le esequie per le vittime dei Guerrieri erano diverse dai tradizionali funerali dei Produttori a cui Rebecca si era abituata con il tempo e che non erano altro che residui di antichi culti del Mondo Di Prima. Non c’erano canti o preghiere, solo un silenzio teso e continuo. La vita dei Guerrieri era sempre così, in punta di piedi: così come combattevano silenziosamente, ardendo al massimo del loro splendore, altrettanto silenziosamente se ne andavano.
Rebecca sentiva gli occhi pruderle e le mani tremarle, mentre si avvicinava alle casse dei caduti. Erano nel cortile pavimentato che dava sull’ingresso di Metallica e i membri del personale e gli allenatori erano disposti in una sorta di semicerchio intorno alle bare in legno.
Erano in legno sintetico, quello estremamente liscio e privo di schegge o imperfezioni, ed avevano la solita forma triangolare. Rebecca non riusciva a distogliere lo sguardo da quelli che erano stati tredici dei suoi commilitoni.
Erano sconosciuti, persone che non aveva mai visto e con cui non aveva mai parlato, eppure la consapevolezza che non li avrebbe mai visti e non ci avrebbe mai parlato le stringeva il cuore. Si sentiva le mani sudate e avrebbe voluto asciugarsi i palmi sui pantaloni stretti della Divisa Ufficiale eppure, allo stesso tempo, si sentiva quasi immobilizzata al suo posto.
Per i funerali erano intervenuti anche alcune fra le personalità più importanti della Classe dei Guerrieri: i rappresentanti della Classe con il Governo, ex-allievi particolarmente meritevoli, le famiglie delle vittime e, poi, loro studenti, fermi nelle loro posizioni di guardia.
Il signor Silas Heap, il padre di Nicko e responsabile della mediazione con il governo di Metallica, stava facendo un breve discorso e, per quanto avesse una voce piacevole all’udito –morbida, bassa e calda, come quella del figlio- Rebecca non lo stava ascoltando.
Aveva cercato disperatamente fra la folla il profilo di Pyke senza incontrarlo da nessuna parte. Electra era morta sul colpo, all’esplosione, e Rebecca aveva pianto così tanto, per quella ragazza con cui aveva scambiato solo due parole in croce, che le sembrava di non avere più liquidi in corpo. La sera prima era sgattaiolata fuori dal suo Dormitorio e si era diretta in Infermeria. Non sapeva se fosse opportuno o meno parlare con Pyke di quello che era successo, non sapeva nemmeno se lui fosse disposto a vederla, ma quando era arrivata davanti alla porta dell’ufficio di Malina le era mancato il coraggio.
Lo aveva scorto di sfuggita, che camminava velocemente fra i letti tutti occupati dell’Infermeria, pronto a dare soccorso ai diciassette sopravvissuti e, anche se non l’aveva scorto in viso, aveva osservato le sue mani tremare mentre porgeva una tazza fumante ad una paziente. Alla fine si era appoggiata al muro e si era nascosta il viso nelle mani.
Aveva pianto di nuovo e silenziosamente e davvero non sapeva perché stesse piangendo. Sentiva solo che nulla, da quel momento, sarebbe più stato come prima e che quell’avvenimento che in vero non la riguardava in prima persona l’aveva cambiata dentro.
Quando aveva deciso di entrare a Metallica l’aveva fatto principalmente perché anche suo nonno ci era stato e perché… beh, perché la vita da Produttore era così noiosa e ripetitiva e lei cercava e aspirava a qualcosa di meglio che lavorare in uno Stabilimento di Depurazione o cose del genere per tutta la vita. Ma poi era salita su quel trano ed era stata sbalzata in un vortice confuso che le aveva dolorosamente aperto gli occhi.
Si moriva. A fare il Guerriero si moriva.
Nei funerali dei Produttori molto spesso i familiari o gli amici del defunto si avvicinavano alla loro tomba e pronunciavano qualche parola sul loro conto. Non dei discorsi, semplici parole, aggettivi che lo distinguevano e lo caratterizzavano.
Suo nonna era stata “gentile”, “pura”, “amica”, “coraggiosa”, “capace” e “forte”. Poi venivano calate le bare nel terriccio umido e pieno di erbacce dei Luoghi di Sepoltura Comuni e si gettavano manciate di terra sul coperchio, fino a ricoprirlo tutto e a riempire la buca.
Rebecca ricordava vividamente la consistenza della stoffa del vestito di sua madre contro il suo viso e il sapore delle lacrime. Singhiozzava forte eppure continuava a sentire le palate di terra sulla bara, a spezzare tutti i legami che sua nonna aveva avuto.
«Si ritorna alla terra» aveva detto suo padre, recitando la formula di Addio dei Produttori.
E Rebecca si era coperta le orecchie con le mani per non sentire l’eco dell’addio.
Il funerale di Electra e dei suoi commilitoni non prevedevano parole gentili o palate di terra, ma quando le bare vennero issate le une sopra le altre per essere bruciate –lascia andare, o Guerriero- Rebecca sentì ugualmente i legami di quei tredici ragazzi –ragazzi come lei, uguali a lei, simili a lei- spezzarsi bruscamente.
Sia Cain Lloyd che un altro allenatore avevano tenuto un breve discorso, esaltando ed elogiando il coraggio di quelle povere vittime, ma nessuno stava davvero ascoltando. Rebecca seguì il fumo del piccolo falò funebre che si disfaceva nell’aria e si chiese quanto tempo ci volesse perché l’anima dei Guerrieri raggiungesse il cielo.
Quando la funzione finì, nemmeno se ne rese conto. Ritornò alla vita –che brutto paragone, pensò tristemente- solo quando Sean le mise una mano sulla spalla e le fece cenno con il capo verso la Piazza. La cerimonia si era tenuta al limitare della Quarta, la stessa via dove c’erano i loro alloggi, quindi non dovettero camminare molto per raggiungere i loro Dormitori.
Avevano già cenato, quindi tutti si diressero verso le loro stanze. Rebecca si guardò nuovamente intorno, alla ricerca di Pyke, ma l’unica cosa che le riuscì fu quella di incontrare lo sguardo di Anya. Abbassò velocemente la testa, memore della discussione che avevano avuto qualche giorno prima –quando ancora l’esplosione non era avvenuta- e che le aveva portate a sperimentare un silenzio offeso.
Rebecca sapeva che aveva sbagliato, tutta la faccenda della simulazione e del lasciare cadere Anya era stata una cosa terribile e le urla dell’amica delle volte popolavano ancora i suoi sogni, ma sapeva anche che la reazione di Anya era stata davvero esagerata. Così come il metterle il muso per l’intero pomeriggio e per il giorno successivo.
Sospirando pesantemente si diresse verso la palazzina B, senza nemmeno salutare Anya e Nicko, diretti in quella A e, dopo essersi chiusa la porta della sua camera alle spalle, si sentì incredibilmente… vuota. Si preparò per dormire, ma ogni volta che faceva per guardarsi allo specchio del bagno, il suo viso le sembrava così dannatamente pallido e non poteva fare a meno di pensare ai tredici ragazzi nelle bare, al fuoco che li aveva bruciati e alle palate di terra sulla bara di sua nonna. Persino lo spray igienizzante nella sua bocca aveva un sapore diverso, acre e metallico, e nemmeno bere un bel bicchierone caldo di latte –selezionato sul piccolo Kool comune dell’appartamento- riuscì a toglierle quella brutta sensazione.
Si sentiva pesante e leggera allo stesso tempo e continuava a immaginare le espressioni dei corpi nelle bare. Era macabro, morboso e assolutamente disgustoso, ma Rebecca non poteva fare a meno di chiedersi cosa si provasse a morire.
Faceva male?
I Produttori avevano una credenza molto antica, quasi quanto quella dei funerali, che dopo la morte li aspettasse un posto migliore e un creatore divino e benevolo. I Governanti dicevano che dopo la morte il corpo si decomponeva ma l’anima rimaneva immutabile e presente, non subendo danneggiamenti dalle ferite o dal decesso fisico. La loro formula di addio era più ricercata di quella delle altre due classi: “Eppure qualcosa rimane”. I Guerrieri, che erano quelli che la morte l’affrontavano ogni giorno, credevano in una Morte loro pari, che li accompagnava all’inferno con un sorriso dolce e le sembianze di una fanciulla bellissima.
Rebecca credeva solo che tutto, alla fine dei conti, si riducesse in polvere e in ombra.
Siamo polvere e ombra. Siamo solo questo.
Lo diceva sempre suo nonno e Rebecca, come ogni cosa che le aveva detto suo nonno, l’aveva preso come oro colato. Siamo polvere ed ombra, si ritorna alla terra, lascia andare o Guerriero, eppure qualcosa rimane… Rebecca sapeva solo che non avrebbe più rivisto o parlato con nessuno che se ne era andato.
Chiuse di scatto la porta della sua camera e sbirciò la sua Meridiana. Erano le undici e ed era appena scattato il coprifuoco, eppure il pensiero di mettersi sotto le coperte non la sfiorò neppure: sentiva solo l’urgenza di uscire da lì. Camminò lungo il corridoio del Dormitorio 9 e sbirciò le porte delle sue compagne, tutte serrate tranne quella di Cyvonne che soffriva di claustrofobia e proprio non sopportava di rimanersene serrata da qualche parte.
Quando ci passò davanti la sentì agitarsi e sporse appena la testa oltre la soglia. Era a metà strada fra il sonno e la veglia e, come se avesse percepito la sua presenza, alzò la testa scura.
«Rebecca?» chiese, la voce impastata dal sonno e gli occhi che tremavano «Stai bene?»
«Si, si. Torna a dormire, su» sussurrò, cercando di imprimere dolcezza al suo tono «Domani dobbiamo alzarci presto»
Cyvonne mugugnò qualcosa e si lasciò ricadere sulle coperte aggrovigliate.
Rebecca le mormorò la buonanotte e rimase ferma davanti alla porta del Dormitorio, indecisa. Era lavata e pronta per andare a letto, doveva solo infilarsi la camicia da notte e sfilarsi gli anfibi, eppure non aveva minimamente sonno.
Così, semplicemente, aprì la porta.


Rebecca non seppe di star camminando verso l’Area Natura fino a quando non ci sbattè praticamente contro. C’era un silenzio teso e i profili degli alberi, al buio erano estremamente spaventosi. Le spalle di Pyke erano una linea dritta e Rebecca le contemplò un bel po’ prima di decidersi ad uscire allo scoperto. Per quanto fosse sicura che lui l’avesse sentita e che i suoi anfibi avessero calpestato fin troppo rumorosamente le foglie secche e i rametti sul terriccio, Pyke non si girò. In effetti sembrava quasi una statua, fermo immobile al suo posto, con solo l’abbassarsi ritmico del suo petto ad indicare che era ancora vivo.
Rebecca gli si avvicinò silenziosamente, impacciata sul da farsi. Durante il tragitto che aveva percorso per arrivare fino al piccolo nascondiglio vicino all’Area Natura si era preparata un bel discorso. Un discorso serio, adulto e maturo, in cui esprimeva le sue condoglianze a Pyke per la perdita di Electra -e di… beh, di tutti i suoi amici-; discorso che, nel migliore dei casi, terminava con un abbraccio travolgente e con Pyke che si abbandonava contro la sua spalla confidandosi e aprendosi con lei.
Ovviamente sapeva che non sarebbe andata così. Conosceva Pyke da così poco tempo –erano davvero passate solo due settimane?- e di lui non sapeva praticamente nulla; eppure, dopo averlo a lungo cercato quel pomeriggio alla funzione, si era resa conto di quanto necessitasse trascorrere del tempo con lui. Non era una cosa molto intelligente da fare, soprattutto perché… beh, perché la loro era una conoscenza così superficiale, non potevano nemmeno considerarsi amici! Ma, ora tutti gli amici che Pyke avesse mai avuto erano morti, e Rebecca era rimasta la sola a preoccuparsi di lui.
Si era così abituata alla sua immobilità che sobbalzò quando la mano del ragazzo salì in alto con un gesto brusco, avvicinando la sigaretta alle labbra. Pyke tirò con violenza e gettò fuori il fumo dopo così tanto tempo che Rebecca aveva quasi iniziato a pensare lo avesse ingoiato.
Il braccio e la punta rossa accesa della sigaretta si riabbassarono e l’immobilità delle sue spalle dritte ritornò, così che Rebecca aspettò un altro po’, prima di fare qualche altro passo in avanti. Lui le dava le spalle e il vento le gettava il fumo della sigaretta sulla faccia, facendole arricciare il naso e scompigliandole anche un po’ i capelli.
L’odore non era male, era diverso da quello delle sigarette elettroniche, e sapeva di vero tabacco, di cenere, di polvere e di casa. Rebecca si chiese se, andandogli ancora più vicino, avrebbe sentito quell’odore anche addosso alla pelle di lui.
«Cosa vuoi, Rebecca?»
Si immobilizzò di colpo, a pochi centimetri di distanza dalla sua schiena.
«Come hai fatto a capire che ero io?»
«Non è rimasto nessun altro che potesse venire a cercarmi»
Rebecca sentì una fitta al fianco, come quando correva troppo e le mancava il fiato, e deglutì.
«Volevo vederti, sapere come stavi» disse, raccogliendo quel poco coraggio che le era rimasto per allungare un braccio verso di lui. Ma non ne ebbe nemmeno il tempo: Pyke si girò, e il braccio ricadde lungo il suo fianco.
Aveva pianto. Questa scoperta diede una strana sensazione a Rebecca. Non aveva mai visto un ragazzo piangere -eccetto suo fratello Michael quando lei era partita, ma lui aveva nove anni ed era in un certo senso giustificato- e vedere gli occhi rossi di Pyke che la fissavano le ricordò delle persone che erano morte. Aveva la bocca serrata e le narici dilatate, quasi si stesse trattenendo dall’urlarle contro –o dal piangere di nuovo- e la mano che non teneva la sigaretta era serrata in un pugno.
«Bene, ora che mi hai visto puoi andartene»
«Pyke…»
Rebecca non sapeva nemmeno lei cosa le stesse passando per la testa in quel momento. Avrebbe voluto dirgli che non importava quanto fosse arrabbiato, triste e deluso, che lei sarebbe rimasta lì, che sarebbe stata sua amica, che avrebbe voluto abbracciarlo; ma poi pensava che lui si sarebbe ritratto, che le avrebbe detto che era solo una ragazzina che conosceva da pochi giorni, che era stupida e ingenua perché credeva di comprendere lui e il suo dolore e che in realtà non sapeva assolutamente nulla. Nella sua mente, in quei pochi istanti, valutò milioni e milioni di conversazioni e interventi; eppure l’unica cosa che le uscì di bocca fu un patetico «Sono passata in Infermeria, ieri sera»
«Me l’ha detto Malina»
«Ti ho cercato anche questo pomeriggio»
«Malina mi ha detto anche questo»
Rebecca avrebbe voluto urlare, prenderlo per le spalle e scuoterlo, ma lei non aveva perso tutte le persone che conosceva tutto d’un colpo e non poteva permettersi di giudicarlo. Perciò incassò il colpo e abbassò lo sguardo sui suoi anfibi. Uno dei due era slacciato e le stringhe penzolavano sui mucchietti di terra smossi.
«Pyke…»
«Sai cosa mi ha raccontato Dolly Anoth?» Rebecca rimase zitta. Dolly Anoth era una dei diciassette sopravvissuti alla Strage del Congresso e Pyke sembrava furioso «Che le Bombe si sono attivate dopo sette secondi esatti. Quindi, se tutti avessero avuto la possibilità di uscire in fretta dalla stanza, si sarebbero salvati.»
Pyke gettò la sigaretta fra le foglie secche e Rebecca si concentrò sulla sua punta rossa e ardente che ancora brillava nel buio, come un piccolo sole pronto ad esplodere.
«E sai cosa altro mi ha detto Dolly Anoth? Che Electra era la più vicina alla porta. Le sarebbe bastato spalancarla e correre via. Fare giusto qualche passo e sarebbe stata ancora viva. Ma era il Capo Squadra e i Capi Squadra hanno il dovere di morire e combattere per il loro gruppo. Lei e Sky Jones, in quanto Capi Squadra, sono riusciti a far uscire tutti i ragazzi Gamma di Primo Livello e due di Secondo Livello, poi sono morti»
Rebecca non sapeva nemmeno più perché si trovasse lì, mentre nella sua mente passavano immagini e flash di capelli rossi e urla in una stanza ampia e elegante.
Electra odiava essere il Capo Squadra. Diceva che non era abbastanza brava per esserlo, che aveva troppe responsabilità e che non lo meritava. E ora è morta.
«Daranno loro una medaglia. Sai, encomio nazionale e un bel pezzo di vera e rara carta alla famiglia, in cambio della vita della figlia. E io ancora non ho capito perché è morta. Perché in questa merda di posto le cose vanno così. Per cosa è morta Electra? Per cosa?»
Non la stava più guardando e Rebecca ebbe voglia di correre via.
Non seppe quanto tempo era passato da che era arrivata lì, sentiva solo un grande freddo che le penetrava nelle ossa, e sapeva che non era solo per colpa del vento. Quando Pyke passò il piede sopra la cicca della sigaretta, schiacciandola con la punta dello scarpone e affondando di qualche centimetro nel fango, Rebecca sussultò. Lui, come se si fosse ricordato della sua presenza solo in quell’istante, le riservò uno sguardo vacuo.
«Vai via, Rebecca. Non c’è bisogno che stai qui»
«Voglio rimanere qui» disse lei, cocciutamente.
«E io voglio che tu te ne vada!» urlò Pyke, così improvvisamente che Rebecca quasi inciampò sulla sua stringa slacciata «Vai via, ho detto!»
Rebecca non disse più niente, si girò e prese a correre.
 
Le lacrime premevano per uscire e, nel silenzio cupo della notte, i profili degli alberi erano così imponenti, una silenziosa minaccia, che le faceva battere forte il cuore.
Sapeva che era stupido spaventarsi per qualcosa del genere, il piccolo spiazzo non era lontanissimo da Metallica e tenendosi accostata al muro divisorio non si sarebbe certamente persa, ma non riusciva davvero a tranquillizzarsi. Non c’era nessuno dietro di lei, ma il vento freddo della sera le sfiorava il collo scoperto e alcuni capelli, sottili e scuri nell’oscurità, si sollevavano appena, e il tutto le dava un senso di oppressione e panico.
Accelerò il passo, spaventata nonostante tutto da quel silenzio pregno di cose non dette che sembra seguirla, e finì per correre a perdifiato.
Non inciampò e non si voltò indietro, anche se il vento, nella velocità sembrava sussurrarle nell’orecchio e gli alberi allungarsi verso l’alto, a coprire il cielo. Le luci di Metallica erano ormai abbastanza visibili da tranquillizzarla, ma il suo corpo era ancora teso. Fissò il suo sguardo sulla Generatore di Luce che capeggiava allo sbocco della Terza Strada.
Sono arrivata. Sono arrivata, posso stare tranquilla.
Alzò nuovamente il passo, impaziente di raggiungere la luce e la salvezza che sembrava promettere, quando una mano apparve dal nulla, afferrandola per il braccio e lei urlò con tutto il fiato che aveva in gola.
«Shhh. Shhh, zitta, zitta»
La mano le lasciò il braccio all’istante, come scottata e Rebecca ansimò.
Portarsi la mano al cuore era una cosa stupida e inutile, forse -non poteva certamente controllarne il battito- ma Rebecca lo fece allo stesso, anche solo per accertarsi che fosse ancora nel suo petto e non le fosse balzato via.
«Cosa stai facendo qui?»
Rebecca non riconobbe la voce che le stava parlando. Cercò di scorgere il suo proprietario nell’oscurità, sembrava un timbro maschile ma non ne era sicura, e l’unica cosa che riuscì a distinguere fu la Divisa da Guerriero che l’individuo indossava.
Questo, in sé per sé, non le rendeva le cose facili. Poteva essere uno studente uscito di nascosto anche lui, e quindi poteva ritenersi al sicuro, ma poteva anche essere uno dei ragazzi di ronda - il che avrebbe significato grossi guai. Quando, poi, lo stemma bianco degli Omega che gli spiccava sul petto avvalorò la seconda ipotesi, Rebecca si sentì sprofondare.
E poi, semplicemente, scoppiò.
Si portò le mani in viso, coprendosi gli occhi stanchi e gonfi, e singhiozzò con forza. Sentì il naso colarle e le lacrime bagnarle le guance, e la stanchezza le gravò addosso, rendendole quasi impossibile stare lì in piedi. Era come se tutto quello che era successo in quella orribile giornata –la discussione con Anya, l’esplosione al Congresso, il discorso di Cain al funerale, Electra, Pyke- le fosse improvvisamente caduto sulle spalle e la sua mente continuava a riproporle il tutto con una velocità e una nitidezza allarmante.
Il ragazzo, Rebecca aveva deciso che era un ragazzo per la sua altezza –una ragazza così alta l’avrebbe certamente ricordata-, si mosse a disagio ma velocemente. Afferrò il Generatore Portatile di Luce e lo piantò in mezzo a loro.
«Ehi, ehi» disse con una voce bassa e un po’ roca «Cosa è successo? Stai bene?»
Rebecca tirò su con il naso e, quando i suoi occhi si furono abituati, sbirciò verso di lui.
Non lo riconobbe, sulle prime, ma il naso dritto e i lineamenti severi le erano familiari, così che, con uno sforzo quasi doloroso, la sua mente ritornò al pomeriggio passato con Electra e Pyke e lo riconobbe come il ragazzo Omega che li aveva ripresi.
Rebecca si asciugò le lacrime con il dorso delle mani, vagamente consapevole di avere gli occhi rossi e gonfi e il naso colante, e prese un grosso respiro, per calmarsi.
«Sto bene» gettò fuori alla fine, annuendo più volte, come a voler rassicurare anche sé stessa.
Il ragazzo abbassò il braccio che reggeva il Generatore lungo il fianco e si guardò intorno.
«Dove è Jordan?» chiese, senza guardarla.
«Cosa?»
«Pyke Jordan» specificò lui «Sei la ragazza degli Alpha, giusto? Quella dell’altro giorno. Eri con lui?»
Questa volta si girò verso di lei e Rebecca si sorprese di come i suoi occhi, nonostante i continui cambiamenti di luce a cui erano stati sottoposti, riuscissero a distinguerne ora il profilo del volto di lui, grazie al sottile bagliore del Generatore.
Pyke Jordan. Non conosco nemmeno il suo cognome e già piango per lui.
«Pyke non è qui»
Il ragazzo continuò a guardarla, intrecciando le braccia al petto. Il fascio di luce, ora, illuminava una porzione di terriccio e Rebecca si concentrò su quel tratto di foglie e rametti, perché sapeva che, se avesse alzato lo sguardo, non avrebbe mai creduto alle sue bugie.
Shaw, Rebecca si era ricordata il suo nome all’improvviso, sospirò pesantemente.
«Potrebbe finire nei guai, se rimane ancora in giro a fumare »
Rebecca rimase zitta, anche se in parte condivideva il suo pensiero.
«Dai, andiamo al tuo Dormitorio»
Rebecca dovette aver fatto una faccia infastidita perché lui sorrise sardonico «Credevi che ti lasciassi andare ancora in giro da sola? Ringrazia che ti ho beccato io e non Jamie-
Lei non disse nulla e camminarono insieme fino agli alloggi degli Alpha.
«E’ in quel nascondiglio vicino all’Area Natura, vero?» chiese improvvisamente Shaw, mentre lei stava già armeggiando con la chiave magnetica e il codice segreto.
Rebecca, questa volta, abbassò il capo incapace di contraddirlo.
Shaw sospirò pesantemente, come se il peso di tutto il mondo fosse appoggiato sulle sue spalle, e spense il Generatore di Luce.
«Vai dritta nel tuo Dormitorio e ficcati a letto» continuò dopo qualche attimo di silenzio «La prossima volta che ti becco a girare di notte non chiuderò un occhio. Sono stato chiaro?»
La sua voce era seria e priva di ogni traccia di ironia o simpatia. Rebecca annuì rigidamente e si chiuse la porta della palazzina alle spalle, senza nemmeno salutarlo.
Girò l’angolo, sparendo dietro il muretto, e rimase immobile per qualche secondo contro lo stesso. Aspettò per un minuto buono, zitta e ferma al suo posto, prima di sentire l’eco dei passi di Shaw che si allontanavano lungo la Quarta Strada.
Poi, quando fu sicura che fosse abbastanza distante, si riavvicinò alla porta di vetro e la scostò appena. Il vento fresco della sera le scompigliò di nuovo i capelli e la fece leggermente rabbrividire, ma la sua testa scattò verso la Piazzetta delle Quattro Direzioni.
Shaw era quasi arrivato all’incrocio fra la Prima Strada, quella che l’avrebbe condotto ai suoi Dormitori, e la Terza, quella che dava sull’Area Natura e portava da un Pyke ridotto in condizioni schifose, e Rebecca seguì con il cuore in gola i suoi movimenti nella notte.
Quando lo vide fermarsi all’angolo fra le due vie si sentì stranamente in colpa.
E se Shaw avesse preso la Terza e avesse detto a Pyke che era stata lei a mandarlo lì?
Era una idea stupida e inverosimile –la parte che la riguardava, per lo meno- ma Rebecca non poté non preoccuparsene. Il timore si fece sempre più presente quando vide la testa di Shaw girarsi verso la Terza, con la chiara intenzione di imboccarla.
Rebecca si sporse ancora più in avanti con la testa, per vedere meglio e preoccuparsi con maggiore intensità, ma il ragazzo si girò di scatto e lei, spaventata che potesse vederla, si ritrasse velocemente.
Con il cuore in gola corse lungo le scale della Palazzina Alloggi e non si fermò fino a che non fu al sicuro nella sua stanza. Cyvonne, che aveva il sonno leggero, si agitò nel suo letto ma fortunatamente non aprì gli occhi.
Rebecca si avvicinò alla finestra e sbirciò senza riuscire a distinguere nulla.
L’unica vista che quella postazione le offriva era quella della Palazzina Alloggi degli Alpha di Secondo Livello e questo rendeva la sua piccola veglia completamente inutile.
Si gettò sul letto e pianse un altro po’, poi semplicemente, si addormentò.
 
John Shaw si girò di scatto, con la strana sensazione di essere osservato, e il suo sguardo si diresse verso la Quarta Strada.
Per entrare a far parte del Livello Omega bisognava avere una vista praticamente perfetta, anche senza l’utilizzo di Lenti della Vista, quindi per John non fu troppo difficile scorgere la porta degli Appartamenti Alpha che si chiudeva di scatto.
Sospirò pesantemente, riprendendo a fissare le varie direzioni. Il suo sguardo cadde sulla Terza Strada, quella che portava all’Area Natura.
Il vento freddo fece frusciare la giacca della sua divisa, poi lui comandò alle sue gambe di flettersi e ai suoi piedi di muoversi, e imboccò la Prima, verso il suo Dormitorio.
 
***
 
La stanza di Melanie era incredibilmente piccola, in confronto alle altre camere della sua casa. La carta da parati era di un rosa antico e, all’incirca a tre quarti di altezza dal pavimento, era attraversata da una sottile striscia bianca, tutta ghirigori e forme astratte -sua sorella Sophie, quando era più piccola, diceva che sembravano fiocchi di neve attaccati al muro-.
Melanie non ci aveva mai fatto  troppo caso, alle pareti della sua stanza, ma da una settimana a quella parte non aveva fatto altro che fissarle e chiedersi che cosa tutti quelle strane fantasia traforate volessero significare. Avrebbe perso completamente la concezione del tempo se non avesse avuto la sua Meridiana sul comodino che le indicava le condizioni climatiche, la data e l’ora esatta, con le piccole cifre e i simbolini in continuo mutamento.
La prima che era venuta a trovarla, due giorni dopo il fatto, era stata sua madre. Era parsa piuttosto sollevata di non trovarla in lacrime come nelle precedenti incursioni che aveva fatto per portarle da mangiare e si era seduta sul bordo del letto. Aveva allungato il braccio per prenderle la mano, ma Melanie era rimasta immobile, a fissare il soffitto.
«Melanie, tesoro…» aveva detto e poi giù fra singhiozzi e discorsi che lei non aveva ascoltato.
Poi c’era stata sua sorella, con gli occhi gonfi e rossi e un vestito nero da lutto. Le aveva raccontato delle esequie di Ray, di come fossero stati tristi e patetiche, con il vento che sollevava l’acqua del mare e spruzzi invadenti che coprivano le guance della signora Sutton di ulteriori lacrime –teoricamente, come Guerriero, il suo corpo lo avrebbero dovuto bruciare, ma la famiglia di Ray era composta completamente da Governanti molto conservatori, quindi si era pensato alla sepoltura della loro classe-. Melanie era stata sempre zitta e immobile ma aveva provato un briciolo di soddisfazione acuta nel sapere che le esequie non erano andate molto bene senza nessun corpo da gettare in acqua. Il corpo di Ray doveva essere ancora identificato. Quando le Bombe erano state lanciate, dopo sette fatidici secondi, un fumo velenoso si era rigettato fuori da quei piccoli apparecchi e aveva avuto, sulle persone più vicine, un effetto corrosivo. Ray era stato riconosciuto grazie alla targhetta da Guerriero che conteneva il suo chip di localizzazione, a pochi centimetri dal suo corpo sfigurato.
Tu non avresti voluto finire in mare, Ray. Tu avresti voluto che ti bruciassero, che la tua anima e le tue ceneri salissero fino in cielo. Saresti voluto essere un Guerriero anche nella morte.
Dopo le prime quattro notti e gli altri innumerevoli tentativi della madre e della sorella, suo padre aveva fatto ingresso nella sua stanza. Non le aveva preso la mano, non le aveva detto che sarebbe andato tutto bene e non l’aveva abbracciata. Era rimasto zitto, accanto a lei, fino a che Melanie non aveva preso a rigirarsi fra le coperte.
Poi, quando aveva finalmente chiuso gli occhi e li aveva sentiti bruciare, aveva percepito suo padre alzarsi. Voleva aprire gli occhi per spiarlo, per vedere se fosse andato davvero via, ma non aveva nemmeno fatto in tempo a decidersi che aveva sentito la sua mano sul viso.
Le aveva accarezzato la guancia e l’aveva coperta con il lenzuolo ruvido.
Il quinto giorno era salita persino Katerina, con la sua solita camminata ondeggiante e lei e Sophie si erano messe a parlare. Sophie cercava di includerla nei loro discorsi, di far finta che sua sorella non avesse appena perso il suo migliore amico, ma Katerina non era tipa da fare questi sotterfugi e l’aveva guardata negli occhi vuoti.
«Mi dispiace per il tuo amico, Melanie»
Melanie aveva annuito e quello era stato l’unico contatto che aveva intrattenuto con qualcuno per i seguenti cinque giorni. Alla fine, più di una settimana dopo, si era alzata dal letto.
Sua madre cambiava le lenzuola approfittando dei pochi minuti in cui era in bagno, ma le lenzuola odoravano comunque di sudore e di lacrime. Le pareti erano ancora più rosa alla luce leggera del tramonto, ma a Melanie sarebbero quasi piaciute di più se fossero state grigie. Il grigio era un bel colore: non diceva nulla, non ti stancavi di guardarlo, non ti riportava nulla alla mente. E lei non voleva che nulla le ritornasse alla mente.
Per quei nove giorni aveva fatto finta di essere sospesa nel vuoto. Aveva sperato innocentemente di risvegliarsi all’indomani, di scendere le scale di casa sua e di trovare Ray aspettarla all’ingresso con quella solita aria strafottente in viso e suo padre che sbuffava al suo indirizzo e gli diceva di togliersi dai piedi.
Quando si guardò allo specchio del bagno, non si riconobbe.
Chi era quella? Si ricordò delle storie di paura che le raccontava Ray quando erano più piccoli. Quella della bambina che viveva sottoterra e appariva negli specchi era una di quelle che la spaventava di più, e ora si chiese se il riflesso non fosse il suo.
Ritornò in camera sua dopo la doccia più lunga che avesse mai fatta, ancora avvolta da un leggero strato di vapore, e si disse che era stata stupida a pensare che far finta di niente fosse la cosa giusta. Come aveva potuto credere che sarebbe stata in grado di dimenticare quando ogni cosa in quella camera, in quella casa, in quella vita, in lei, le ricordava Ray e la pateticità della propria esistenza?
Si vestì con gesti meccanici e nemmeno pianse più, quando riconobbe il braccialetto di cuoio che Ray le aveva regalato la sera precedente alla sua prima partenza per Metallica. Lo indossò e scese per le scale –forse Ray è giù all’ingresso, forse mi sta aspettando e forse papà sta sbuffando e vuole cacciarlo-, raggiunse la cucina e trovò sua madre che si affannava digitando su un O.L.O. portatile, probabilmente organizzando la cena.
«Mi state ancora cercando un marito?- chiese, facendola sobbalzare.
Sua madre la fissò sorpresa e i suoi occhi scivolarono sulle sue occhiaie, sui vestiti vecchi e grigi, sul braccialetto e sulla sua espressione vuota.
«Oh, Melanie…»
«Mi va bene. Chiunque papà scelga mi va bene. Non ho più intenzione di protestare»
«Voglio solo andarmene da qui» pensò, ma non lo disse ad alta voce «Voglio liberarmi delle cose che ho perso nelle fiamme»
 
 
 

 
 
   
 
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