REBORN
- Al tempo degli Dei
dell'Olimpo -
Marte camminava con passo
incalzante, dirigendosi verso le tre donne, le parche.
«Cosa avete
predetto, riguardo a Xena!? Rispondetemi!» urlò, minaccioso. Le donne, intente a filare i
destini e a tagliarli, risposero meste, scandendo le frasi tra di loro.
«Solo ciò che
è...».
«Quello che
potrebbe essere...».
«O che sarà.».
Il dio, ancora più
arrabbiato, scagliò una palla infuocata contro la più vicina colonna, facendo
sobbalzare le donne, ma che non fermarono il loro operato.
«Cosa vuol
dire!? Spiegatevi meglio sorelle, o vi giuro che non sarò benevolo al prossimo
tiro.» gli occhi brillavano di furia.
Il dio della guerra, vestito di pelle e armato di spada alla cinta, incuteva
terrore nel solo osservarne l’ombra.
Nel silenzio che si
susseguì spuntò, con una folata di luccichio, Venere, la dea dell’amore.
«Marte,
calmati.» le disse la giovane dea, bionda
di capelli e armata di tacchi.
I muscoli, prima tesi di
Marte, si rilassarono lentamente.
«Noi diciamo
solo il vero...» rispose
l’anziana, scrutando con forza lo sguardo dell’uomo che non si era abbassato,
né spento.
«Se poi le
nostre parole non vuoi ascoltare...» aggiunse la giovane.
«Questo problema non ci riguarda.» ribadì la piccola,
guardandolo con sguardo innocente. Le loro mani però lavoravano, incessanti,
occupate nel mantenere l’equilibrio del mondo e del tempo. Della giustizia e
dell’ingiustizia, della vita e della morte degli esseri umani.
«Ascoltami, fratello, loro mi hanno rivelato che l’anima
di Xena potrà essere rilegata nell’aldilà della vicina Cina fino a quando non
l’avrà depurata. Dopo la fine delle anime da lei uccise, che finalmente
riposeranno in pace, potrà di nuovo compiere il cammino della reincarnazione,
come è deciso dal mondo ultraterreno della cultura cinese. Tu non puoi fare
niente, purtroppo, come non possiamo fare niente per gli angeli del Paradiso.
Sono gli dei di un altro mondo, di altre culture, nate ancora prima di noi. E
tu questo lo sai bene.» la giovane donna parlava con voce mesta, ricordando
l’amica morta.
«Tsk.» scocciato, Marte svanì
in una nuvola che sapeva del vago odore della polvere da sparo.
«Scusatelo sorelle...» mormorò poi la bionda,
rivolgendosi alle parche. Le tre annuirono.
«Noi conosciamo i moti del suo cuore...» proferì
amorevolmente l’anziana, sorridendo con dolcezza.
«...e capiamo il suo dolore...».
«...ma non possiamo fare di più, ci spiace.» la piccola,
con voce squillante, fece trasparire il dolore che provava.
Venere svanì con un sorriso di circostanza, rapita da una
nuvola di profumo orientale.
- ai giorni nostri -
«Padre, dov’è Amelia?» domandò, trovando l’uomo seduto
poco più in là nel corridoio.
«Gabrielle!» si alzò preoccupato, prendendola per le
spalle. «Stai bene?» domandò.
«Sto bene, grazie.» il padre, sinceratosi della salute di
lei, rispose alla domanda.
«È andata via poco fa... mi sembrava turbata...» disse, e
prese la mano della figlia. Gabrielle lo guardò, era così dimagrito, così
sciupato, bianco in volto.
«Andiamo a casa, ti prego... Non sopporto più di stare
qui...» e la figlia annuì. Sentì, come d’un tratto, il peso del padre su di sé,
era così stanco, spossato. E ricordò che, come lei aveva perso la nonna, lui
aveva perso la madre che lo aveva cresciuto e accudito per tutti questi anni.
«Sì, andiamo padre...» l’uomo ringraziò con un sorriso
piccolo piccolo, nascosto agli angoli della bocca.
Arrivando a casa la sentirono vuota, enorme, e colorata
di cupi colori. Con un silenzio tale che spaventò entrambi. Portò il padre a
riposare nel suo letto, e attese fino a che non si assopì. Raccolse qualche sua
solitaria lacrima, prima di vederlo crollare.
La giornata, che sembrava così lunga, non era neppure
volta a mezzogiorno. Quando sentì un disturbo allo stomaco, la figlia scese per
preparare da mangiare. Accarezzò la colonnina della cucina, come raccolta in
mille pensieri, e vide come la colazione di stamattina era stata interrotta.
C’era ancora la ciambella al cioccolato della nonna morsa per metà...
Si ritrovò a piangere senza accorgersi, e si accasciò al
suolo molto lentamente, come in a rallentatore, stringendosi il petto.
Prorompeva il ricordo, il dolore, la mancanza di qualcosa che prima c’era e
oggi non c’è più. Che era partito, senza mai ritornare.
Nell’attimo in cui appoggiò le ginocchia al suolo però,
sentì una carezza delicata sulla spalla, un peso leggero. Una lacrima
asciugata.
«Nonna...» il fantasma evanescente, così come era
arrivato, se ne era andato. La collana tintinnò. La donna vi poggiò sopra una
mano, e fu cosciente che non tutto era perduto. Che lei era ancora lì, in
qualche maniera.
Ripulì il tavolo, e preparò un piatto di pasta. Il
barattolo di ragù fatto in casa era ancora lì, con la scritta veloce di lei
attaccata sopra.
Aprì il barattolo, la ricetta della nonna era sua ora,
nella mente passavano i ricordi dell’anziana e quel piccolo atto gentile,
d’amore, la fece sentire un po’ meno sola in quella cucina. Era lei che seguiva
i suoi passi, come se fosse con lei a cucinare, proprio in quel momento.
«Sei tutta uguale a lei...» la voce del padre da dietro
le spalle la fece sussultare.
«Scusami.» proferì l’uomo.
«Non ti preoccupare, padre...come stai? Hai fame?»
domandò la figlia apprensiva. L’uomo si perse nel guardarla negli occhi.
«Hai fame?»
la donna prorompente, girando il mestolo, lo guardava dall’alto della sua
statura, l’odore di sugo nell’aria che invitata al pasto.
«Da lupi!»
sghignazzò il ragazzino, sorridendo. La donna rispose ridendo, quanto era dolce
il suo bambino senza un dente davanti.
«Da lupi...» rispose l’uomo, il ricordo era passato in un
secondo, di fronte agli occhi di entrambi. Gabrielle sorrise.
«È quasi pronto.» rispose, continuando a girare il
mestolo. Anche suo padre, nel suo cuore, aveva una parte di lei che non se ne
sarebbe mai andata. Lei era sempre lì, con loro...nei loro cuori.
L’uomo si avviò al salotto collegato alla cucina,
preparando velocemente il tavolo.
Gabrielle soffiò sul cucchiaio, per assaggiare il sugo,
mentre la pasta bolliva. Una leggera musica di violino si propagò nell’aria.
“Padre...” l’uomo aveva amato tanto il violino, nella sua
vita. La musica, per la nonna, era un passatempo come un altro, ma più di tutto
amava quando suo figlio suonava. Sembrava la sagra del paese in casa, solo per
lei. E poi ballavano, e ridevano...
Ma la musica che usciva da quel violino era triste,
stridente, come una lancia che penetra l’aria e ferisce, squarcia. Come a
ribadire che non ci saranno più fiere, e banchetti allegri. Che la fiera era
finita. Che non ci sarà mai più, niente, da festeggiare.
La musica terminò in un crescendo di suoni acuti, per poi
concludersi. L’uomo abbassò l’archetto, e respirò fino in fondo.
“Scusami...” una lacrima che cade sulle corde.
E riprese a suonare.
Era una ballata.
Gabrielle, dall’altra parte del muro, soppresse il pianto
con una risata. “Stupido, stupido padre...”.
Amelia attraversò l’atrio di casa sua con passo veloce,
la colazione abbandonata a metà era ancora lì. Quel nome sussurrato l’aveva
resa inquieta.
“Com’è possibile...! Come fa...a sapere...”.
L’immagine di Gabrielle, in lacrime, che la chiama...
“Xena...”.
«No, ora basta.» prese il telefono e fece un paio di
telefonate. Parlò con accento pugliese, e la voce che rispondeva era di un uomo.
«Conto su di te, Salvatore.» e chiuse la comunicazione.
Se quella donna sapeva qualcosa del suo passato lei lo doveva sapere. E Salvatore sa come cercare nelle conoscenze delle
vite altrui senza calcare troppo la mano.
Scese in scantinato, guardando i macchinari per il
restauro lì, ancora nuovi. L’anello, dentro il cofanetto, era lì che aspettava.
Doveva avere quell’anello. Lo voleva indossare.
Aveva un fascino particolare, come se la richiamasse a
sé, come un qualcosa di viscerale e antico.
E il potere che aveva quell’anello su di lei non le
piaceva. Voleva togliersi subito quello sfizio, e indossarlo.
Stava facendo quella cosa addirittura di nascosto da suo
marito, andato in Italia per degli affari.
Doveva trovare la ragazza per lui, e testarla, per poi
inserirla nel piano di ristrutturazione e vendita in nero di beni culturali
precedentemente rubati a uno scavo.
Ma l’uomo non sapeva che lei la voleva soltanto per
quell’anello. Sarebbe stato distrutto se lei non lo avesse sostituito con una
copia. Quando lo aveva visto sembrava come se avesse visto un fantasma. E disse
di distruggerlo, mentre la moglie guardava l’anello con bramosia.
Lei era la moglie di un capo mafioso, quindi valeva poco
o niente, ma lei era speciale. Lo
aveva catturato con la forza, non con la malizia. Perché era riuscita a combattere
per le strade contro di lui, e vincere. Lo aveva conquistato con il sapore del
suo corpo appena sfiorato, e della brama di potere che lei aveva.
Lei voleva il potere, lui anche. Solo che lei era molto
più furba.
Amelia, un nome suadente, che ti entra nella mente e non
esce più.
Era quella la sua forza, distrarre con la malizia e
conquistare con l’astuzia.
Dopo il matrimonio, lei aveva ottenuto anche i contatti
di lui. Se ci fosse stata una guerra tra bande, lui si sarebbe ritrovato solo,
e lei contornata da un esercito. Lui era il suo pupazzetto, il suo toy boy. Solo che lui, questo non lo
sapeva, e a lei andava più che bene.
Era anche discreto a letto, per quanto non sia stato il
migliore di quelli che aveva avuto in precedenza.
Ma in questi anni stava diventando stancante. Quasi insopportabile.
Voleva disfarsene. Ma, non sapendo come mai, si ritrovò
reticente sotto questo punto di vista.
Lei, la femme
fatale, non riusciva ad affondare il coltello su di lui.
E Amelia odia non avere tutto sotto controllo.