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Autore: smarsties    16/10/2013    1 recensioni
Avril trascorre le sue giornate dietro ad una maschera: finge di essere una persona il cui ruolo non le si addice davanti a tutti, mentre tiene una parte di sé nascosta al mondo.
Evan, che all’apparenza ha una vita pressoché perfetta, scoprirà di essere stato tenuto allo scuro per più di dieci anni riguardo un argomento per lui importante dallo stesso padre.
Entrambi continuano ad essere assiduamente collegati con il passato.
Lei vuole dimenticarlo, andare avanti per essere felice, ma con scarsi risultati.
Lui, al contrario, vuole saperne di più, vuole far luce sulla questione.
Cosa succederanno se questi due ragazzi, così diversi all’esterno ma profondamente simili all’interno, si incontreranno?
E se sarà proprio una passione che hanno in comune ad essere la chiave per una dolce storia d’amore, contrastata dai troppi parallelismi con i rispettivi passati?
***
~Estratto dal capitolo tre~
-A domani, Ramona.-
Quando si voltò per salutarlo, purtroppo era già sparito dietro l’angolo.
Arrivederci, David.
E in quel momento tornò quantomeno ad apprezzare quel buffo secondo nome che si ritrovava.
In quel momento si sentì, anche solo per pochissimi secondi, nuovamente Avril Ramona Lavigne.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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He ~
(Chapter one
)

Quella mattina era riuscita a precedere persino la sveglia.

Avril, alle sei, se ne stava seduta a gambe incrociate sul letto.

Dalla cucina poteva avvertire solo dei passi poco felpati che si affrettavano a fare qualcosa di indefinito.

Sua madre era già in piedi, ma non c’era da sorprendersene. Oltre ad essere una mattiniera, aveva la mania – o, come la chiamava la figlia, smania – di far brillare a specchio tutta la casa.

Infatti, se non ci pensava la sveglia a buttarla giù, spesso e volentieri era merito suo. Ok, possiamo dire sempre.

Ma, quella mattina, non era merito ne dell’una e ne dell’altra.

In quella ventilata mattina di fine settembre, si era svegliata di sua spontanea volontà.

Aveva avuto l’ardente desiderio di osservare con attenzione le luci dell’alba. Suo padre diceva che infondessero felicità e molta voglia di vivere.

Ma da dove diavolo l’aveva sentito?!

Da troppo tempo, non c’era niente e nessuno che potesse trasmettere un poco di buon umore.

In quanto alla voglia di vivere … beh, aveva tentato più volte di farla finita in tantissimi modi. Per mancanza di coraggio, però, non aveva mai portato a termine il suo intento.

Avril preferiva di gran lunga il tramonto. Misterioso e oscuro, un po’ come lei.

Amava vedere quei raggi di sole – a volte soffocati dalle nuvole - scomparire tra le verdi colline del suo piccolo paesino sperduto.

Aiutata dalla spinta delle braccia, scattò in piedi e si diresse verso la finestra.

Scostò di più i tendaggi bianchi per osservare meglio e poggiò i gomiti sul davanzale.

Doveva ammettere che amava come le prime luci del giorno giocassero, dipingendo il cielo di accecanti colori, mentre il sole faceva capolino.

Il suo sguardo si posò inevitabilmente verso il basso.

Le strade erano desertiche, forse per l’ora o forse perché Napanee popolata non era mai stata. E mai lo sarà.

La cosa positiva era che, abitando in una piccola città, tutti si conoscevano e si volevano bene, come in una famiglia – molto allargata. Tutti tranne lei, però.

Poco più lontano, scorse una panchina sulla quale dormiva un barbone.

Accennò un piccolo sorriso nostalgico.

Ricordò i giorni in cui era piccola e giocava per quei viali alberati, mentre dagli alberi cadeva qualche foglia.

Su quella panchina, invece, ci si sedeva ogni volta che qualcosa non andava. Lo faceva anche ora che era cresciuta. Ma c’era solo una sottile differenza.

Da bambina aveva qualcuno che la consolava, adesso no.

Ogni volta le si avvicinava un biondino e le si sedeva accanto. Sapeva come farla star meglio, anche con un semplice abbraccio. Quel bambino era suo fratello Matt.

Lavorava come chef in Italia, a migliaia di chilometri da lei. Lo poteva vedere solo nelle festività, quando tornava a casa.

Non era mai andata a trovarlo. La sua era una famiglia che non viveva nelle migliori condizioni e non si poteva permettere un viaggio così costoso. Si era dovuto pagare tutti gli studi da solo, svolgendo ogni tipo di lavoro, ma ne era valsa la pena.

Aiutava i suoi familiari a vivere meglio, mandando dei soldi ogni mese e pagando tutte le bollette al posto loro. Lo stimava per questo. Se non ci fossero stati lui e suo padre a mantenerli non voleva nemmeno immaginare cosa sarebbe potuto accadere. Non voleva farlo, già stava male di suo.

A volte aveva la possibilità di chiamarlo ma ad ore assurde, per via del fuso orario. Quella stupida cornetta, però, la separava tantissimo da lui. Lo voleva con sé, voleva parlargli, dirgli quanto le mancava.

Delle lacrime calde iniziarono a scenderle lungo il viso.

L’entrata inaspettata di una persona la fece voltare di scatto. Era sua madre – con un’armata di aspirapolvere e scope.

Rimase paralizzata per un po’, con gli occhi appena umidi e ancora lucidi. Si affrettò ad asciugarli.

-Avril scusami, non pensavo fossi già sveglia. Ti ho disturbata?- sussurrò appena, facendo attenzione a non svegliare gli altri.

La ragazza scosse la testa, come per dire “non ti preoccupare.”

Allora afferrò l’aspirapolvere – uno dei molteplici – e attaccò la spina. Ancora si chiedeva dove li trovava i soldi per comprare ogni dannatissimo “utensile per pulire e non solo” di ogni insignificante marca.

Il rumore assordante le ronzò nelle orecchie in un modo talmente acuto e dannatamente fastidioso che fu costretta a tapparsele. Odiava quel maledettissimo ed inutile … ehm, coso!

Tutti i tentativi di non far svegliare il resto della famiglia erano ufficialmente andati a farsi fottere, come ogni santissima mattina.

Infatti, poco dopo, si materializzò – quasi dal nulla – sua sorella Michelle.

Si stropicciò un occhio mentre continuava a sbadigliare ripetutamente, a ritmi irregolari.

-Cosa succede? Cos’è tutto questo rumore alle … -, si interruppe e lanciò un’occhiata all’orologio a muro. –Sei e un quarto di mattina?-

Avril scosse la testa. Sua madre era sempre la solita.

-Non preoccuparti tesoro, torna a dormire.-

Aprì la bocca, ma fu preceduta.

-Lo so, non vuoi essere chiamata tesoro perché sei grande.

Michelle era tredicenne già da un po’, anche se tutti la trattavano ancora come se fosse una bambina. E, in fondo, ci somigliava vagamente.

In piena età di sviluppo, riusciva a conservare quei preziosi lineamenti infantili. Forse era quello il motivo o, almeno, lo era per quasi tutti. Lei, invece, faceva finta di considerarla ancora tale semplicemente per farla irritare un po’.

Diciamo che era la pecora nera della famiglia. Pareri differenti, aspetto fisico stravolto ma soprattutto stato d’animo opposto.

Anche se non si trovavano esattamente nella migliore situazione economica, riuscivano ugualmente ad essere felici e gioiosi. Lei no.

Lei soffriva ogni giorno e piangeva lacrime amare. Odiata e disprezzata da tutti, paragonabile al peggio più assoluto, insultata come non mai. Era l’esempio da non seguire in tutto il liceo, forse persino in tutta la città.

Si ritrovò nuovamente da sola in quella camera che, a volte, le sembrava fin troppo immensa. Si sedette a terra, con le ginocchia contro il petto e si rabbuiò.

Davanti alla sua famiglia e ai compagni di classe era costretta a sorrisini forzati e ad ironia spudorata, nella sua stanza – magari con le tapparelle abbassate, giusto per dare un tocco di inquietudine – smetteva di fare l’ipocrita e si sfogava.

Darei oro per tornare a sorridere, come quando ero bambina. Darei oro per non essere più trascurata. Darei oro per avere almeno una persona che mi capisca e della quale possa fidarmi …

 

***

 

La campana suonò l’intervallo e tutti si affrettarono ad uscire. Avril, invece, era ancora lì, seduta al suo banco.

Si era imbarcata alla ricerca disperata di un qualcosa su cui scrivere. Quella mattina si era svegliata con una strana ed irrefrenabile voglia di comporre; vedere Napanee desertica – non che fosse una novità – l’aveva ispirata.

Sì, era una scrittrice in erba ma non di romanzi, bensì di canzoni.

Amava cantare, la sua unica e vera passione. Aveva una voce pazzesca, fuori dall’ordinario. Era un vero talento, dicevano.

Secondo suo padre, doveva approfittare di quel dono che pochi potevano permettersi di possedere. Lei ci aveva provato ma non si era mai esibita davanti ad un vero pubblico – solo una volta, davanti ai suoi peluche e ai suoi fratelli -, la sua insicurezza la bloccava.

E se non ne fossi capace? Non sono poi così brava.

Solo chi l’aveva sentita, almeno una volta nella vita, poteva affermare senza ombra di dubbio il contrario.

Riuscì finalmente a trovare l’occorrente, all’interno della sua borsa e si avviò verso il cortile sul retro.

Era sicuramente uno dei luoghi più tranquilli di tutta la scuola, poco affollato anche durante la ricreazione e la pausa pranzo.

Era uno dei suoi posti preferiti ma, soprattutto, adorava la panchina situata sotto il salice piangente.

Quell’albero era in assoluto il suo preferito, per via delle sua strane fronde all’ingiù. Fornivano un’ottima protezione dal resto del mondo, e questo le piaceva.

Si sedette sulla panchina in legno e poggiò la penna sul foglio.

Di solito non scriveva canzoni vere e proprie, bensì partiva da alcuni, come li chiamava lei, “pensieri perversi.” Descriveva, cioè, ciò che provava e lo riportava poi sotto forma di testo.

L’inchiostro nero si estendeva per tutto il foglio, prendendo via via sempre più forma.

Parole lungo quelle righe. Parole che ti emozionano ma che ti fanno anche riflettere. Parole dure, per far intendere a tutti com’è la vita. Parole incise, di quelle che ti colpiscono dritte al cuore, senza troppi raggiri.

Non sapeva perché continuava a scrivere, se a nessuno faceva ascoltare tutto ciò. Forse lo faceva per sfogo personale, ma non era nemmeno lei del tutto sicura di questo.

Ma continuava, continuava senza mai fermarsi. Passava ore ed ore a comporre quelle frasi, non faceva altro. Se non piangeva, infatti, scaricava tutto su un blocchetto. E aveva proprio bisogno di farlo, sempre.

Fiochi raggi di sole si infiltravano tra quelle foglie e le illuminano appena la pelle pallida. Ma, ad un certo punto, si accorse che la luce era stata offuscata.

Deglutì più volte, continuando a tenere lo sguardo fisso a terra. Sapeva di chi si trattava.

Non guardare, potrebbe ferirti. Ti prego non farlo!

Alzò la testa. Sì, erano proprio loro.

Il suo sguardo rimase impassibile. Voleva sembrare naturale, far capire che lei non aveva paura. E infatti non ne aveva, ma continuava ugualmente a soffrire.

I suoi due “persecutori” erano due ragazzi dell’ultimo anno: Jake e Thomas.

Jake era alto e smilzo. Capelli bruni, occhi dello stesso colore e uno stradannato ghigno fastidioso dipinto sempre in faccia. Alle volte si chiedeva come i suoi amici facessero a sopportare il suo atteggiamento all’apparenza menefreghista.

Thomas, invece, era poco più basso ed ugualmente magro. Un cappellino rosso sempre sulla testa, capelli mori e occhi di ghiaccio. All’apparenza poteva sembrare uno di quei ragazzi solitari e chiusi; nessuno avrebbe mai pensato che fosse un bullo.

-Ehi, che fai? Non ci saluti?- domandò Jake, beffardo.

Corrugò appena le sopracciglia e mimò con le labbra un “lasciatemi stare.” Poi lo disse a voce alta, senza rendersene conto. Come avrebbe voluto non farlo …

-Hai sentito? L’anoressica ci sta cacciando via!- bofonchiò Thomas, portandosi le mani alla testa.

La afferrarono per le braccia e la tirarono su nel modo più rozzo che possa esistere. Tentò di dimenarsi, ma la loro presa era forte. Aveva la sensazione che, per un attimo, la circolazione del sangue fosse stata interrotta. Si sentiva debole, poteva accasciarsi al suolo da un momento all’altro … se non fosse stato per quei due.

-Ehi, ma tu guarda!- esclamò il moro, tirando più forte il braccio sinistro e torcendolo.

Soffocò un grido.

Studiarono per un po’ entrambi il taglio sul polso che si era procurata. Ecco, lo sapevo.

Il ghigno sulla faccia del bruno tornò a regnare incontrastato mentre scuoteva la testa.

-Cattiva bambina. Che fai adesso? Cominci anche a tagliarti?-

-Adesso è anche un’emo. La depressione deve fare veramente brutti scherzi … -

Come fare a spiegare a due esseri privi di cervello che era stato un episodio casuale, un incidente? Facile, non puoi!

Thomas sfilò dalla tasca il suo amico fidato coltellino, lo portava sempre con sé. Un altro taglio, vicino a quello che già aveva.

Strinse i denti mentre del sangue cominciava a scendere per tutto il braccio; qualche goccia andò a finire anche sui ciuffi d’erba.

Le figure davanti a lei cominciarono a brillare, ad offuscarsi. Lentamente, cominciava a non mettere più a fuoco nulla. Gli angoli degli occhi pizzicavano, le palpebre si stavano appesantendo.

Non puoi piangere proprio ora, non devi atteggiarti a debole davanti a loro.

-Lasciatemi stare, andate via!- ripeté quella frase più volte: prima balbettando, poi con più convinzione.

Corrugarono le sopracciglia, facendo spuntare delle piccole rughe sulla fronte.

Thomas le prese il viso tra le mani: –Ora ti facciamo vedere che cosa accade a chi ci manca di rispetto.-

Un cenno. Jake le tirò un calcio dietro la schiena, tanto potente da farla barcollare e cadere a terra a gattoni, contando solo sull’appiglio delle mani.

I due bulli si allontanarono con aria soddisfatta lasciando Avril sola.

Lacrime salate cominciarono a solcarle il viso, mischiandosi tra di loro e cadendo sull’erba appena tagliata. I singhiozzi divennero ben presto udibili. Un nodo in gola le impediva di urlare, sfogarsi. Rimase lì immobile, senza muovere un muscolo, come se non avesse il coraggio di rialzarsi e di continuare a vivere.

Tutto il mondo si era fermato, sembrava sparito. Adesso c’era solo lei, l’angoscia, il rimorso e tanta sofferenza.

-Ehi, tutto bene?-

Una voce roca le ricordò in quale luogo si trovava. E non era sola.

Alzò la testa e incrociò lo sguardo di due occhi color cielo. Appartenevano ad un ragazzo biondo e dal bel fisico. La scrutavano come quelli di un bambino curioso ed ingenuo.

Lui le tese la mano per aiutarla a rialzarsi, lei ignorò il gesto di cortesia e scattò in piedi.

-Ti ho fatto una domanda e gradirei una risposta: come mai te ne stai qui tutta sola?-

Avril ricacciò indietro i residui di lacrime che non erano finite ad uscire e cercò di assumere un’espressione irritata, per via della sua presenza.

-Chi diavolo sei e che cosa vuoi da me?- domandò a raffica. –Non ti conosco e vorrei che tu mi lasciassi in pace, se non ti è di troppo disturbo.-

Fece per andarsene. Gli passò davanti ma lui, prontamente, la bloccò, afferrandole l’avambraccio.

Ghignò strafottente.

-Insomma, che diavolo vuoi?- urlò la ragazza, spazientita. –Sei duro d’orecchi? Vattene, ho detto, voglio stare da sola!-

La stretta non era forte, fu facile liberarsi da quella sottospecie di prigionia.

Scappò via veloce e cercò di far cessare le lacrime che, prepotenti, avevano cominciato a solcarle violentemente il viso.

Non sapeva chi fosse quel biondino e che cosa volesse ma, da un passato come il suo, ci si poteva aspettare solo tanto dolore. In fondo tutti la conoscevano in quel liceo, lui non poteva rappresentare un’eccezione.

 

***

 

Finalmente quella noiosissima lezione di storia era giunta al termine.

Evan ripose i libri dentro la sua borsa blu e, con lo stomaco vuoto, s’incamminò verso la mensa.

Per tre ore non aveva fatto altro che rimuginare sull’incontro con quella ragazza, l’aveva urtato pesantemente. Non riusciva ancora a capire perché gli avesse risposto in modo così preparato e, soprattutto, brusco.

Apparte il fatto che non conosceva il verbo “essere rifiutato” dato che era uno dei più popolari della scuola e che, per ogni ragazza, mettersi con lui rappresentava la via della popolarità e del successo.

Proprio non capiva perché, non ci riusciva.

Intanto era arrivato in mensa ed era già in coda per accaparrarsi il pranzo, prima che potesse finire e prima che fosse stato costretto a mangiare strani miscugli verdi scaduti da tre settimane o forse più.

Non riusciva a smettere di pensare a quella mattina e a quella figura affranta. Si stava facendo complessi mentali per un incontro durato pochi secondi, istanti, non ci poteva credere.

Si aggirava per quella stanza spaesato, come se fosse nuovo di lì … finché non sentì due voci familiari che gli fecero da navigatore. Non che ce ne fosse realmente bisogno …

-Ehi amico, vieni qui!-

-Sì, dai, siediti qui con noi. È da un po’ che non si parla.-

Si voltò ed incrociò i sorrisi strafalsi di Thomas e Jake. Li conosceva da quando aveva sette anni, erano sempre stati i suoi migliori amici. Si stimavano a vicenda e  tutti godevano di una certa popolarità.

Non ne era del tutto certo – non era mica così informato – ma alcune voci dicevano che quei due erano dei bulli – e fin qui ci siamo, ne era consapevole – e che avevano preso di mira una ragazzina da diversi anni.

Stentava a crederci, erano sempre stati dei bravi ragazzi … per quanto ne sapeva. Ma non conosceva la loro vera identità o, almeno, non conosceva la reputazione che si erano guadagnati in quel liceo. Era da tempo che non li frequentava.

-Scusate ragazzi, ho una questione urgente da sbrigare.-

Questione urgente? Stai perdendo colpi, caro.

Le sue gambe cominciarono a camminare da sole, tanto che si chiese anche lui dove stesse andando. Ormai correva, aveva fretta di arrivare in quel luogo, sapeva che lei era lì.

Continuava a percorrere quel corridoio e rischiò quasi di urtare un professore. Poco gli importava.

Arrivò al cortile con il fiatone, ma realizzato: la scorse pochi metri più avanti, sdraiata sul manto verde. Accarezzava i ciuffi d’erba e osservava rapita il cielo.

Mille domande gli frullavano in testa, tipo “Cosa ci fai qui all’ora di pranzo?” oppure “Perché prima stavi singhiozzando?” Sì, decisamente domande troppo stupide, anche per uno come lui.

-Sapevo che ti avrei trovata qui.- fu la frase che, sibilando, uscì dalla bocca del ragazzo.

E con questo ti sei appena aggiudicato il premio “frase più stupida dell’anno”, congratulazioni!

Lei, abituata a percepire anche il rumore più piccolo, si voltò di scatto. Pareva spaventata ma, dopo aver realizzato la situazione, la sua espressione tornò seria. Non dopo essersi concessa un sospiro di sollievo, ovvio.

Lo guardava in cagnesco. Brutta mossa, amico.

-Cosa diavolo vuoi ancora da me?- ringhiò.

Questa è una bella domanda. Tralasciando sempre il fatto che nemmeno lui sapeva che cosa voleva sul serio.

Si avvicinò e si abbassò fino a raggiungere la sua altezza. In quel momento le sembrò la cosa più giusta da fare, oltre che la più ovvia.

-Evan David Taubenfeld.- si presentò, allungando la mano verso la ragazza.

Rimase inizialmente sorpresa: mai si sarebbe aspettata una reazione del genere. Poi parve addolcirsi.

-Avril Ramona Lavigne.- rispose, stringendogliela calorosamente.

Era felice. Finalmente aveva trovato qualcuno di cui poteva fidarsi ciecamente. Qualcuno che poteva essergli amico e stargli accanto.

 

 

 

 

 

Angolo dell’autrice

Perdonatemi gente. Lo so, sono in un ritardo ABISSALE!
I’m sorry.

Il fatto è che mi sono concentrata molto su un altro fandom ed ho trascurato questo.

Cercherò di farmi perdonare, oltre che con questo aggiornamento, anche non una futura e probabile shot. Non ne sono del tutto sicura ma… chissà.

Allora, che ne dite del capitolo?

Ok, forse nella parte finale sono entrata un po’ troppo nello scontato. Ma dovevo pur farli conoscere! E ci tenevo tanto.

Giovanni: Almeno sei consapevole delle idiozie che scrivi. L’importante è che ci credi tu.

Ehm… grazie .-.

Ora devo correre e mi aspetto più recensioni in questo capitolo, anche se tre sono buone (soprattutto per iniziare).

Solluxy ♥

  
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