Quel pianoforte
L’elegante
pianoforte a coda giace addossato alla
parete di fondo dell’ampio salone, tronfio nella sua lustra
livrea nera. Gli
Elfi di casa lo tirano a lucido con scrupolosa attenzione –
sanno quanto la
loro padrona tenga allo strumento, uno degli oggetti più
cari e più preziosi
contenuti nell’antica dimora, e realizzare i suoi desideri
è il loro compito.
Rabastan
rimane ammutolito per l’ammirazione ogni
volta che sua madre si siede davanti alla tastiera perlacea, solleva
l’ampia
gonna con un gesto pieno di grazia e fa scorrere le dita sui tasti
traendone
sinfonie celestiali.
I suoi occhi
sono accecati dal riflesso tagliente
dei suoi orecchini sotto le gocce luminose del lampadario –
si muovono insieme
al busto che ondeggia lento seguendo l’armonia malinconica
delle note, le
sfiorano le guance quando la sua testa si volta in direzione della
finestra e
lo sguardo si perde assorto nell’indefinito, dimentico di
tutto, forse della
musica stessa.
Rabastan sa
che non diverrà mai bravo al pianoforte
quanto sua madre. Ma Madame Lestrange si premura lo stesso di impartire
lezioni
di musica a entrambi i suoi figli. Un essere umano è
incompleto se non sa
suonare il pianoforte, dice.
È
profondamente convinta che la musica dia quel
tocco di raffinata sensibilità e profondità di
pensiero sempre più difficili da
trovare al giorno d’oggi; insegna il valore della pazienza,
della costanza, del
sacrificio ricompensato a rate. Insegna la compagnia del silenzio, la
solitudine come scelta e non come costrizione; insegna ad apprezzare
meglio le
parole, e a riconoscere quanto siano vuote le chiacchiere in confronto
alle
fiabe raccontate dalle note.
Non ha
voluto maestri – esimi sconosciuti – per i
suoi figli; si occupa personalmente delle loro lezioni.
Un’ora al giorno, tutti
i giorni, dovesse cascare il mondo.
Monsieur
Lestrange ha liquidato quest’occupazione
come – ahimè – un’inutile
“perdita di tempo”.
«E’
fondamentale che un uomo conosca l’uso della
spada e della parola, non quello dei tasti di un pianoforte. A che
gioverebbe
loro, nella vita, saper suonare uno strumento musicale quando si
troveranno di
fronte al pericolo e alla sfida? La musica non ha mai salvato la vita a
nessuno.»
«Devo
contraddirti, caro marito. La musica salva più
della bacchetta, se la si sa usare nel modo giusto.»
Monsieur
Lestrange scuote il capo ogni volta che
affrontano il discorso. Stringe le labbra e alza gli occhi al cielo. Un
profondo sospiro gli si gonfia nel petto e il suo sguardo manda fulmini
e
saette.
«Li
farai diventare due effeminati. Bada bene,
moglie: non ho intenzione di tollerare che il nome dei Lestrange sia
disonorato.»
«Non
temere, caro. Non sarà la musica a renderli
meno onorevoli e rispettosi nei tuoi confronti – o meno degni
del tuo affetto.»
«Lo
spero bene.»
E
così le lezioni di piano sono continuate,
nonostante la perplessità contrariata e i rimbrotti
sottovoce – rivolti più a
se stesso che a qualcuno in particolare –
dell’austero padrone di casa. La sua
avversità per quell’arte “da
femminucce”, tuttavia, non gli impedisce talora di
accomodarsi sul divano del salone – un bicchiere di vino di
Borgogna in mano,
lo sguardo che si bea del meraviglioso paesaggio fuori dalle ampie
finestre che
affacciano sulla scogliera, sull’oceano dispiegato
lì sotto come una lustra
coltre blu cobalto – e dilettarsi la mente e il cuore con la
melodia che
scaturisce dagli anonimi tasti bianchi e neri, che diventano
all’improvviso
così vivi, custodi di sonanti meraviglie che rapiscono lo
spirito, sotto le
dita di sua moglie.
Lei suona
sempre per prima, poi si alza con grazia e,
con un incoraggiante cenno del capo, invita i suoi figli a imitarla. A
questo punto,
in genere, Monsieur Lestrange si sente autorizzato ad abbandonare il
salotto.
C’è
una disparità evidente tra i due fratelli, in
quanto ad abilità con lo strumento. Per quanto si sforzi,
infatti, Rodolphus non
riesce a coordinare il ritmo che ha in mente con il movimento delle
dita e, frustrato,
smette quasi subito di suonare – alza le spalle e liquida con
un sorriso i
tentativi di sua madre di non darsi per vinto.
«Non
sono tagliato per la musica, madre.»
«Non
dire sciocchezze, figlio. La musica è un dono
cui ognuno di noi ha diritto. Sei tu a non amarla abbastanza.
Forse…» gli
scocca all’improvviso un’occhiata da sotto un
sopracciglio inarcato con sagacia,
«forse perché nel tuo cuore
c’è già l’amore per
qualcos’altro.»
Rodolphus, a
quella domanda, sposta puntualmente lo
sguardo fuori dalla finestra – le mani incrociate dietro la
schiena, l’espressione
improvvisamente pensosa, un sorriso a incurvargli impercettibilmente le
labbra.
«Probabilmente
sì. Lo sapete, madre, che diventare
un eccellente Mago è la mia passione.»
«Puoi
ingannare tuo padre dicendogli ciò che vuole
sentire lui, ma non pensare di ingannare una madre,
Rodolphus…»
Rodolphus
sorride e non dice nulla. Sua madre resta
a sogguardarlo per qualche istante, poi scuote la testa con un sospiro
e poggia
una mano sui capelli scompigliati del figlio minore che già
siede avido e compunto
davanti allo strumento, così piccolo che i suoi piedi
ondeggiano nel vuoto a
una buona spanna dal pavimento.
«Anche
tu sei pieno di segreti, Rabastan?» gli
sussurra, accarezzandogli i capelli. «Ah, non badare a cosa
dice questa donna,
figlio mio. Suonami qualcosa. Avanti, dammi la mano. Segui i miei
movimenti.»
Mentre
Rodolphus, in piedi accanto al pianoforte, si
perde in pensieri fuggevoli che annegano nell’azzurro e nel
rosa del cielo al
tramonto, suo fratello beve direttamente dalle dita incantatrici di sua
madre
la beltà della musica.
Non
c’è da stupirsi se Rabastan sia diventato molto
più bravo di lui, con gli anni. Serio, concentrato, non
distoglie lo sguardo
dallo spartito fino all’ultima nota. In realtà, da
molto tempo non ha più bisogno
dello spartito: conosce a memoria ogni traccia, ma fissare i righini
neri sulle
pagine bianche che sanno di vecchio gli dà concentrazione e
sostegno,
soprattutto quando è chiamato a esibire il suo precoce
talento davanti a tutta
la famiglia riunita.
Sotto i loro
occhi giudicanti, il ragazzino si fa
tutt’uno con la sua musica. Solo alla fine, si alza in piedi
e accoglie
l’applauso con un misuratissimo inchino, senza sorridere,
senza dire nulla.
Per Rabastan
la musica è un mezzo di comunicazione
con il Superiore – per Rodolphus una specie di magia, una di
quelle che non
riuscirà mai a fare.
---
Una volta,
Rodolphus ha parlato del singolare
talento musicale di suo fratello al suo amore segreto. Lei ha insistito
per
ascoltare. Rodolphus se n’è stupito,
perché lei non sembra essersi mai
interessata a nulla che lo riguardasse.
Così
l’ha portata a casa – un pomeriggio di fine
agosto, prima dell’inizio della scuola.
I suoi non
ci sono; Rodolphus ha progettato accuratamente
il tutto. L’ha fatta accomodare nel salotto luminoso, sul
divano rivestito
color panna; le tende frusciano bianche al vento caldo che entra dal
terrazzo e
profumo di rose viene dal giardino, come in un sogno. Si è
scusato solo un
attimo; è uscito dalla stanza prendendole la mano come un
perfetto gentiluomo.
È
andato in cerca di Rabastan, l’ha trovato nel
giardino: il fratello minore guarda a occhi socchiusi e pensosi
l’oceano in
lontananza, accovacciato con le braccia intorno alle ginocchia come se
si
nascondesse da qualcosa. Rodolphus non lo nota; non
nota la sua posizione strana, né
l’espressione vacua e sognante dei suoi occhi scuri. Il suo
cuore pompa gioia
nervosa in ogni arteria del suo corpo e lui obbedisce
all’imperativo della propria
felicità; non ha occhi per altro che non sia se stesso o la
sua bella.
Con la sua
voce più chiara e distinta – quasi
cristallina – Rodolphus ha chiesto a Rabastan, con
gentilezza, con cortesia, se
può, per favore, suonare qualcosa per la sua fidanzata.
Fidanzata,
sì. E’ la prima volta che usa questa
parola, la prima volta che Rabastan gliel’ha sentita
pronunciare. Rabastan
volta la testa verso il fratello maggiore. Gli occhi di Rodolphus sono
fissi su
di lui, ma non guardano lui.
Rabastan ha
compiuto undici anni questo mese. Il suo
primo giorno di scuola si avvicina. L’unica cosa che lo aiuta
a sopportare il
pensiero senza mettersi a gridare è sapere che non
sarà solo; c’è suo fratello
a tendergli la mano, dall’altra parte della sua paura.
Rabastan probabilmente
farebbe qualsiasi cosa per lui.
Il bambino
ha aperto la bocca per rispondere – il
vento gli sbuffa dispettoso sul viso, soffiandogli i capelli negli
occhi;
mentre solleva le dita a sistemarseli, il suo sguardo scivola verso la
portafinestra
che dà sul giardino. La ragazza è lì
in piedi che lo guarda. L’amore segreto di
Rodolphus è immobile con una mano sullo stipite, avvolta
dallo svolazzo
disordinato delle tende. Guarda oltre il pendio discendente, verde e
umido, che
degrada verso il giardino; oltre le aiuole curate e i sentieri di
ghiaia; oltre
la spalla e i capelli lucidi di Rodolphus. Guarda lui, dritto negli
occhi. Lo
tiene fermo con il suo sguardo, lo costringe a doversi concentrare per
poter
respirare.
Anche a
quella distanza, l’undicenne Rabastan deve
reprimere un brivido. C’è qualcosa che non va, non
capisce cosa, ma l’istinto
lo avverte che è meglio tenersi alla larga
dall’amore dei Rodolphus.
Dall’amore.
Distoglie
quasi subito lo sguardo dalla ragazza – si
staglia nera sul bianco delle tende, e lui ha pensato immediatamente ai
tasti
di un pianoforte, o all’inchiostro sulle pagine. Lo sguardo
è durato un paio di
secondi, ma è bastato perchè Rabastan si senta diverso, si senta più adulto.
Cresciuto, e
allarmato.
Apre di
nuovo la bocca – Rodolphus lo guarda con le
labbra socchiuse e gli occhi fissi, in vigile aspettativa, ma sicuro di
sé. Quando
gli risponde, le parole non sono quelle che Rodolphus aveva in mente.
«Non
mi va di suonare, oggi.»
Proprio
così dice. Il piccolo Rabastan non sa da
dove siano rotolate fuori quelle parole. Fino a un momento fa era
ansioso di
esaudire una richiesta del suo fratellone. Prima di Bellatrix, Rabastan
avrebbe
fatto qualsiasi cosa per Rodolphus. Ora, si rifiuta perfino di suonare.
Rodolphus
non si è aspettato che il suo ordine di
fratello maggiore venga ignorato. Rodolphus, fino a questo momento, non
ha mai
avuto un dubbio su Rabastan. Affiderebbe la propria vita a quel bambino
acuto e
silenzioso. Che ora lo sta guardando con un’espressione
insolita. Sembra vigile
come una preda. Rodolphus lo guarda accigliato.
«Cosa
hai detto?»
Rabastan non
lo guarda. Getta un altro sguardo verso
la portafinestra spalancata, ma sa che vi vedrà solo il
biancore cangiante
delle tende che si gonfiano come una nuvola investita dal sole. La
cornice
della porta, ora, è vuota.
«Ho
detto che non ho voglia di suonare il
pianoforte. Mi dispiace per la tua fidanzata.»
Pronuncia il
nome con cautela, come cercando dentro
di sé l’esatta intonazione con cui Rodolphus
stesso lo ha pronunciato. Come se
temesse di sbagliare il senso della frase.
«Ma
che ti prende?» Rodolphus fa qualche passo verso
di lui. Inspiegabilmente, ora ha un’aria minacciosa. Come
minaccioso è il suo
modo di torreggiare dall’alto sul fratello ancora
accovacciato per terra.
«Suoni sempre, davanti alla famiglia. Non dici mai di no. Non
perdi occasione
per esibirti. Perché non oggi?»
Rabastan
solleva lo sguardo, scrutandolo da sotto la
fronte aggrottata. Rabastan, fino a dieci minuti fa, non avrebbe mai
pensato di
mentire a suo fratello. Lui e Rodolphus si sono sempre detti la
verità, non
hanno mai avuto segreti, hanno sempre condiviso tutto.
Ma ora
Rabastan è cresciuto. Crescere significa
dover mentire, qualche volta.
«Suono
perché sono obbligato. Detesto il
pianoforte.»
Rodolphus
trasale. Rabastan lo fissa da sotto in su
con una strana combinazione di aggressività e paura, come a
sfidarlo a non
credere alle sue parole, o a obbligarlo anche lui. Con quella
confessione
inaspettata mette alla prova l’affetto che Rodolphus sente
per lui.
Anche tu
vuoi
obbligarmi, come tutti loro? Ora che sai il mio segreto, da che parte
stai?
Rodolphus
non appare convinto. Ha davanti agli occhi
l’immagine di suo fratello, sempre così preso,
così assorto, davanti al suo
pianoforte. Così portato…
tutti lo
dicono che ha un dono di natura, che diventerà un artista
– invece diventerà un
Mangiamorte, ma chi potrebbe prevederlo?
Non
può credere che sia stato sempre tutta una finta.
Lo ferisce crederlo,
perché
significherebbe che anche lui, suo fratello, è stato
ingannato. E non è
possibile, perché lui e Rabastan si sono promessi di non
agire mai
intenzionalmente male l’uno nei confronti
dell’altro.
«Ti
ho chiesto solo un favore» dice, la voce ancora
bassa e pacata. «Non ti costa molto. Solo per stavolta. Ti
prego, Rab.»
Rodolphus ha
pregato. Rodolphus non ha mai dovuto
pregare fino a oggi; ha sempre ottenuto tutto ciò che voleva
da suo fratello.
Rabastan capisce che è davvero importante per lui. Per la
prima volta Rabastan
si sente importante. Prova una curiosa sensazione di calore che gli si
scioglie
e si smuove liquida intorno al suo cuore, sguazzandogli nel petto.
Soddisfazione. È riuscito a rompere il legame gerarchico che
fino a questo
momento c’è stato tra loro. E’ salito
alla pari con Rodolphus; anche se lui è a
terra e Rodolphus in piedi, è come se lo stesse guardando
dritto negli occhi.
Rodolphus ha
detto “ti prego, Rab”. E Rabastan ha
scoperto, in quell’istante, che è misteriosamente
e inspiegabilmente bello
sentirsi supplicare da qualcuno.
È
la prima volta che
lo sente. È questo
che ricorderà per farsi forza mentre si
inginocchierà davanti a un uomo
spietato e accoglierà il suo marchio sulla carne e il suo
veleno nel sangue.
Magari
è diventato un Mangiamorte perché un pomeriggio
d’agosto di tanti anni prima gli è piaciuto
sentire Rodolphus supplicare
chiamandolo per nome. E da allora una parte di sé
è vissuta nell’ardore di
risperimentare quella sensazione esaltante.
Rabastan ha
capito di avere un potere, oggi. Ha
capito che Rodolphus farebbe di tutto per avere un suo sì.
E’ un’ebbrezza che
gli dà alla testa. A undici anni ha scoperto
cos’è il potere. E ha rovesciato
le dinamiche del rapporto con suo fratello. Ha imparato un sacco di
cose, oggi
– tra queste, il piacere di tenere sulle spine una persona.
Prende
tempo, muove la lingua contro il palato come
a tenere ferme le parole. Rodolphus lo guarda con ansia. Un principio
di
rancore sale dal fondo dei suoi occhi. Ma ci vorrà ancora un
po’ di tempo
perché penetri la coltre di incredulo stupore che li permea.
C’è
qualcosa che trattiene e rallenta il suo scoppio
di rabbia. Martella incessante al centro della sua mente il desiderio
di tornare
dentro: non vuole far aspettare oltre la sua donna; è un
richiamo silenzioso
che urla nelle sue orecchie come un potente corno da caccia.
L’unica cosa che ancora
trattiene la sua collera verso suo fratello è il pensiero
che la cosa
invariabilmente degenererebbe in lite, e lui non vuole assolutamente
che lei
senta, attraverso le porte dischiuse.
Ma, prima
che possa far ragionare Rabastan, gli
occhi di suo fratello guizzano fulminei verso un punto alle sue spalle.
L’attimo
prima che Rodolphus si giri a seguire il suo sguardo, scorge
un’espressione
strana sul volto del fratellino. Nuova, sconosciuta. Rodolphus corruga
la
fronte, si chiede cosa sia. Un vago senso di allarme gli serpeggia
profondo
nello stomaco; un’inquietudine ancora senza nome.
Se si fosse
osservato allo specchio questa mattina, mentre
si preparava per incontrare lei, Rodolphus riconoscerebbe subito
quell’espressione. Ma lui non ha occhi per vedersi
dall’esterno. E anche se Rabastan
è il suo doppio, quasi il suo gemello, e lui lo conosce come
le sue tasche, il
ragazzino di oggi non è più quello di ieri.
È cambiato qualcosa in lui, e
Rodolphus si chiede cosa sia.
Ma prima che
possa soffermarsi su questo pensiero,
una mano gli si posa sulla spalla. Leggera ma ferma. Riconosce nel
tocco quella
determinazione che l’ha colpito da subito, in lei. E
invincibilmente si trova a
voltarsi. Incontra il suo respiro leggero sulla bocca, e poi i suoi
occhi che
scintillano, incastonati nei suoi.
Le pupille
nere di Bellatrix bucano le sue. Il
bianco delle sclere ha una sfumatura azzurrina. È la prima
volta che Rodolphus
lo nota. È come ipnotizzato dagli angoli affilati dei suoi
occhi, dal modo in
cui possono restare fissi, immobili, come dipinti, tanto a lungo senza
nemmeno
batter ciglio, mentre altre volte scivolano così velocemente
sotto le palpebre
come uno sfarfallio di ali impazzite.
Proprio in
questo momento gli occhi di Bellatrix si
svincolano dai suoi e rapidissimamente si appuntano sul piccolo
Lestrange. Stringe
impercettibilmente le palpebre. Gli tiene ancora la mano sulla spalla:
ora,
riflette confusamente Rodolphus, sembra lo stia trattenendo, tenendolo
fermo
dove si trova.
Ha sentito
tutto, pensa Rodolphus, e si sente
bruciare di vergogna e orgoglio ferito. Cosa penserà di lui,
se non è riuscito
nemmeno a farsi obbedire dal suo fratellino?
Bellatrix fa
qualche passo in avanti, lasciandogli
scivolare la mano giù dalla spalla. Rodolphus la osserva un
po’ preoccupato
avvicinarsi a suo fratello. I raggi del sole si nascondono tra le
pieghe del
suo vestito quando si accoccola davanti al bambino.
«Quindi
tu saresti il famoso Rabastan» sussurra. «Il
fratellino geniale e riservato...»
Rodolphus ha
gli occhi fuori dalle orbite. Mai,
prima d’ora, ha visto Bellatrix inginocchiarsi davanti a
qualcuno.
Rabastan si
ritrae impercettibilmente. Le sue mani
salgono a stringersi più forte le ginocchia. Sposta il peso
più indietro sui
talloni. Getta un rapido sguardo al volto della ragazza,
così vicino, e lo
abbassa sulle proprie scarpe lucide. Non dice nulla, ma un rossore
strano gli è
salito alle orecchie, che spuntano accaldate tra le ciocche scure. La
frangia
gli ondeggia sulla fronte a ogni movimento.
«Sei
proprio un bambino carino, tu e tuo fratello vi
somigliate tanto» bisbiglia Bellatrix. Rodolphus deve tendere
le orecchie per
sentirla, tanto la sua voce è bassa e gutturale.
«E sei anche modesto. Adorabile,
quando arrossisci. Dovresti
farlo più spesso.»
Così
dicendo Bellatrix solleva una mano e sfiora con
l’indice la guancia di Rabastan, dall’alto verso il
basso. Rodolphus si agita.
Prende all’improvviso coscienza del cuore che gli sta
contorcendo in gola; si
infila un dito nel colletto cercando di allargarlo, ma continua a
soffocare.
Rimane a guardare; non tenta di fermarla.
Ma non
trattiene un sussulto quando lei si china su Rabastan
con lentezza esasperante. Apre la bocca per urlare qualcosa (fermati!), qualsiasi cosa (lascialo
stare!), ma si ritrova a
boccheggiare senza fiato. Lei piega la testa – i suoi capelli
precipitano in
cascate su una spalla – e sussurra qualcosa
all’orecchio del bambino.
Rodolphus
non riesce a sentire cosa, stavolta, ma
vede nettamente le orecchie di Rabastan andare ancora più a
fuoco. Il ragazzino
non solleva lo sguardo da terra, ma prende a mordicchiarsi il labbro
inferiore,
trattenendolo tra i denti, cosa che fa solo quando è molto
agitato. Di fronte
ai loro parenti, per esempio, non lo fa mai – è
contro l’etichetta.
Ma in quel
momento ci sono solo lui, suo fratello e
la sua micidiale ragazza dagli occhi acuminati come lame. La ragazza
che, dopo
avergli sussurrato quella cosa, si è rialzata e ha fatto un
passo indietro,
guardandolo dall’alto con un sorriso freddo.
«Ho
chiesto a Rabastan se sarebbe così gentile da
farmi sentire qualcosa» dice, voltandosi verso Rodolphus.
«Gli ho promesso una
sorpresa, se acconsente a suonare per me.»
«Che
cosa gli hai promesso?» s’informa Rodolphus,
accigliandosi. Non guarda lei ma Rabastan, che è sempre
più nervoso.
«Ho
detto che è una sorpresa. Non essere impaziente,
Rod.» Ride, prendendolo sotto braccio. «Se tuo
fratello è bravo come dici, se
la meriterà. E scommetto che darà il massimo per
non perdersela, non è vero,
Rabastan?»
Il ragazzino
non dice nulla. Se i suoi genitori
fossero qui in questo momento, lo rimproverebbero severamente
perché si sta
mostrando scortese con l’ospite – lo stesso
Rodolphus dovrebbe rimproverarlo
dal momento che, in assenza dei suoi, è lui il padrone di
casa, ma Rodolphus è
troppo assorto nell’immaginare cosa la sua ragazza abbia
promesso a Rabastan
per ricordargli l’etichetta.
«Vieni,
andiamo dentro. Sono impaziente.» Prima che
possa reagire, Rodolphus, inerme, è costretto a fare una
piroetta su se stesso
e viene trascinato su per il pendio in direzione della casa. Lancia una
breve
occhiata al fratello da sopra la spalla. Rabastan non ha mosso un
muscolo, ma
ha la testa sollevata, il collo inclinato in una posizione innaturale
che
minaccia di spezzarglielo, e li guarda con occhi selvaggi. Occhi che
Rodolphus
ha perso improvvisamente la capacità di leggere.
Rodolphus si
ritrova all’ombra del salone. Bellatrix
gli è accanto, preme il corpo contro il suo e lo guarda
strano. C’è un qualche
intento fondo e oscuro dietro i suoi occhi così luminosi,
così impenetrabili.
Lo guarda con una certa fissità pensosa e calcolatrice.
Rodolphus scrolla le spalle,
pensando si tratti di una sua impressione – del suo solito
brutto difetto di
pensare troppo.
Si lascia
trascinare docilmente verso il divano. Ora
che lei è con lui, a rivolgergli tutta la sua attenzione, si
sente meglio. Ma
quel vago senso di allarme che ha provato prima non lo abbandona.
Bellatrix gli
si siede sulle ginocchia, a sorpresa – è la prima
volta che si permette un
gesto così intimo con lui. Nonostante siano ormai
ufficialmente impegnati, fino
a quel momento lui ha dovuto pregarla e inseguirla e metterla alle
strette per
spillarle anche una sola parola. Fino a quel momento Bellatrix ha
giocato con
lui, tenendolo sulla corda. Il suo improvviso cambiamento la dice lunga
sull’onestà delle sue intenzioni, ma Rodolphus
è giovane, ed è innamorato. Non
riesce ad amare e insieme ad esser saggio.
Dopo un
minuto, un rumore di passi si avvicina. Rodolphus
ruota il capo verso la porta. Rabastan è sulla soglia, a
testa bassa. Si morde
ancora le labbra, sembra rimuginare qualcosa tra sé e
sé. Non li guarda mentre
attraversa il salone a grandi passi, circondato dai parati e dalle
tende di
organza impalpabile, sotto il cristallo dei lampadari che si riflettono
negli
ampi specchi e nelle vetrate separate da colonne. Si ferma contro la
parete in
fondo del salone, davanti al grande, lucido pianoforte
d’ebano. Si siede, dando
loro le spalle.
Lo sentono
sfogliare gli spartiti inutili con i
gesti gravi e misurati di un bambino diventato presto adulto. Il
fruscio della
carta è l’unico suono nel salone, a parte il
sospiro intermittente del vento.
Bellatrix
tiene le braccia intorno al collo di Rodolphus
e sorride con un solo angolo della bocca. I suoi occhi sono fissi sulla
nuca
del musicista le cui spalle perfettamente diritte, la linea tesa e
rigida della
schiena sembrano tradire la sua consapevolezza di essere guardato.
«Ha
qualche preferenza, Madamoiselle… ehm?» si
interrompe, senza voltarsi. «Madamoiselle…
chi?»
Rodolphus
è scioccato dalla sua maleducazione. «Rab!
Quante volte ti ho detto che-»
Ma lei lo
interrompe indifferente: «Rabastan ha
ragione. Non mi sono presentata».
Si alza
all’improvviso, avvicinandosi al pianoforte.
Gli gira intorno con un fruscio delle vesti inamidate fino a fermarsi
davanti
al ragazzino, faccia a faccia. «Mi chiamo Bellatrix Black.
Puoi chiamarmi
Bella.»
Rabastan le
lancia il solito rapido sguardo,
riabbassandolo poi precipitosamente sullo spartito. Borbotta qualcosa
come
“Piacere”, ma non le tende la mano, né
accenna a baciare la sua.
Sente gli
occhi scandalizzati di Rodolphus aprirgli
buchi fumanti nella nuca. Sa che, dopo, dovrà sorbirsi una
ramanzina con i
fiocchi, non solo da parte di suo fratello, ma anche dei suoi genitori.
Il suo
comportamento è inammissibile.
Ma la
ragazza dagli occhi acuminati non sembra
aversene a male; anzi, appare divertita.
Di
più: deliziata.
Si appoggia
mollemente sul pianoforte, il mento su
una mano; lo fissa con un sorriso e uno sguardo come a dire
“Beh?”.
«Allora,
Rab, cosa mi fai sentire?»
Rabastan
preferirebbe che non facesse così. Che non
lo chiamasse con quel diminutivo confidenziale – non si
conoscono, non ne ha il
diritto.
Preferirebbe
che si allontanasse, portandosi via
quel suo profumo strano, che non ha mai sentito prima –
profumo di donna, ma non come quello di sua
madre – che se
ne torni sul divano a farsi cingere da Rodolphus: almeno non li avrebbe
sotto
gli occhi, a distrarlo.
Esita,
fingendosi intento alla scelta di una
sinfonia sui suoi spartiti. Le sue orecchie sono ancora rosse, e lui si
odia
per questo: ricordano la promessa loro sussurrata, per quanto la mente
del loro
proprietario cerchi di scacciarla per potersi focalizzare sulla
performance. Alla
fine, si sgranchisce le dita sottili e comincia a suonare.
Per tutta la
durata dell’esibizione, Rabastan tiene
gli occhi chiusi. In genere li tiene fissi sugli spartiti, incollati
alla
stessa riga, alla stessa nota, per tutto il tempo. Ma stavolta sente
l’urgenza
di sottrarsi a quello sguardo insistente, invasivo, scrutatore,
provocatorio,
che sente scorrere sui suoi lineamenti, spinto dalla
curiosità di cercare nei
suoi i tratti di Rodolphus o da qualcos’altro che non ha
intenzione di
scoprire.
Alle sue
spalle, solo sul divano, sentendosi
inesplicabilmente un imbecille, Rodolphus li guarda con la fronte
aggrottata. Guarda
la schiena perfettamente diritta del suo fratellino, i suoi capelli che
da
dietro somigliano proprio ai suoi, le dita che danzano sui tasti, e poi
sposta
lo sguardo sulla figura abbagliante che gli è accanto. La
sua ragazza sposta di
tanto in tanto il peso della testa da una mano all’altra, ma
non accenna a
staccare gli occhi dal musicista – senza peraltro guardare
nemmeno una volta
lui, e Rodolphus sa che è stupido (guarda
me, accidenti), sa che è infantile (guardami,
almeno una volta), e che non ha nessuna ragione di esserlo (ehi, sono qui! Sono il tuo dannato fidanzato!),
ma non può non sentirsi trascurato e, sì,
geloso… perché lei non toglie gli
occhi di dosso a suo fratello finché questi non ha
terminato.
A questo
punto, cade il silenzio più totale.
Poi le
bianche mani della ragazza si uniscono più
volte, in un applauso secco, netto, preciso, che sembra frantumare il
silenzio
in una miriade di echi nelle orecchie arrossate del piccolo musicista
che rimette
a posto gli spartiti e abbassa il coperchio, accarezzandone la liscia
superficie nera con tenero affetto.
Fa un breve
cenno della testa nella sua direzione e,
sempre senza guardarla, fa per alzarsi.
«Aspetta,
non andartene! Voglio mostrarti una cosa.»
In un
secondo, prima che possa rifiutare, andarsene,
mettersi in salvo, lei è scivolata al suo fianco,
aderendogli con l’ampia veste
a balze contro la coscia. La seta del tessuto è liscia e
fredda, e splende di
mille riflessi alla luce. Ma nessuno, nessuno di quei riflessi
è lontanamente
comparabile allo scintillio che lei ha negli occhi – e nel
sorriso – mentre si
toglie i guanti che porta nonostante il caldo (al diavolo
l’etichetta!) e li
abbandona distrattamente
sul ripiano del
pianoforte.
Per la prima
volta Rabastan vede le sue mani nude: hanno
la levigatezza e il candore di chi non ha mai lavorato in vita sua
– di chi non
ha mai avuto il bisogno di lavorare; le dita affusolate spiccano dalle
nocche
aguzze e terminano con pallide unghie perfettamente ovali.
Quando
quelle mani fanno per sollevare il coperchio del
pianoforte, solo allora Rabastan si
riscuote dalla trance.
«No!»
Il suo è quasi un grido d’agonia. Preme la
mano sul coperchio, impedendole di aprirlo, consapevole dello sguardo
fumante con
cui Rodolphus lo sta trapassando, dal divano.
Lei lo
guarda con un sopracciglio e un angolo della
bocca educatamente sollevati, in attesa di una spiegazione alla sua
maleducazione.
«Solo
un Lestrange può suonarlo» chiarisce Rabastan,
mangiandosi le parole per il nervosismo. È arrossito di
nuovo, ancora più
violentemente di prima. Consapevole che il suo comportamento diventa di
minuto
in minuto più maleducato, eppure incapace di frenarsi.
Non riesce a
mostrarsi gentile con la ragazza. Non
riesce a essere spontaneo. Lei lo mette in allarme. Non sa
perché. Non sa
perché vuole solo che se ne vada e che non metta
più piede in quella casa, lei
e il suo profumo sconosciuto.
«Oh,
vi stanno a cuore gli oggetti di famiglia…
Capisco.»
Lei annuisce compunta, ma un sorriso furbesco le balugina negli occhi.
«Ma io e
tuo fratello ci sposeremo presto. Perciò sto per diventare
una Lestrange a
tutti gli effetti. Non glielo hai detto, Rod, al tuo
fratellino?»
Si volta
verso Rodolphus, sorridendo quel suo
sorriso glaciale.
Gli occhi di
Rabastan scivolano inconsapevolmente
sul rilievo candido che, come una colonna di marmo, i muscoli
scolpiscono nel
suo collo, torto elegantemente all’indietro, e sulla fossetta
alla base di
esso, appena qualche centimetro al di sopra dell’orlo
ricamato della
scollatura, dove la pelle – più chiara, in qualche
modo più tenera – si affossa
nell’ombreggiatura di un solco che sparisce sotto la tulle
sottile dell’abito.
La voce di
suo fratello, fredda anch’essa, lo riscuote
con un sussulto da quella vergognosa contemplazione: «No, non
ho ancora avuto
occasione di dirlo a Rabastan, Bellatrix».
«Beh,
sono lieta di essere stata io a darti la
notizia, allora.» Si volta di nuovo verso di lui, con i suoi
occhi neri neri
che non lo perdono un attimo. Quasi l’ha colto in flagrante a
fissarle
imbambolato il davanti dell’abito. «Lascia che ti
insegni qualcosa io,
piccolino.»
Lascia che
ti insegni qualcosa io…
Gli sposta
la mano con noncuranza, facendogliela
scivolare giù dal coperchio mentre lo solleva. Quel gesto,
chissà perché, trafigge
Rabastan come una pugnalata, come
una violenza. Se ne sente offeso nel profondo, più che da
quel “piccolino” dal
sapore di scherno – e di lascivia.
Non ne sa
ancora molto delle donne e dei loro
perversi modi di mostrare interesse, ma un istinto che risale a
migliaia di
anni prima della sua nascita, inscritto fedelmente nei suoi geni di
maschio, ha
drizzato le antenne nel momento esatto in cui l’odore di
questa capricciosa
lady ha fatto irruzione nella stanza, trapelando dalla porta socchiusa,
avviluppandolo in un abbraccio indesiderato, come indesiderata
è la sua
vicinanza.
Vorrebbe
andarsene: alzarsi e correre via di lì, il
più lontano possibile, dove quella strana essenza non lo
inseguirebbe più, dove
le sue orecchie tornerebbero finalmente al loro normale colore e alla
consueta
temperatura. Se le sente bruciare. Si sente bruciare tutta la faccia.
È
talmente nervoso che presta poca attenzione al
pezzo che le perfette dita femminili stanno riproducendo, anche se il
suo
orecchio allenato non può non percepire la maestria con cui
ogni nota viene
fatta scaturire dallo strumento, dando voce all’anima che
esso custodisce
dentro, in attesa che qualcuno con quel talento venga a portarla alla
luce.
Ha appena
iniziato a concentrarsi realmente sulla
musica quando questa cessa bruscamente. Accigliato, volge lo sguardo
verso la
ragazza e trasale, trovando il suo incredibilmente vicino, puntato su
di lui,
come se non avesse smesso di guardarlo nemmeno mentre suonava.
«Vuoi
provare?»
«Co…?
No. Non sono in grado» si affretta a negare,
ma la voce gli si spezza sulle labbra quando lei lo prende per mano,
guidandolo
sui tasti.
Crede che
non riprenderà più a respirare normalmente,
mentre sente il palmo caldo e asciutto di lei premere sul dorso della
sua mano,
con forza, e fissa quasi tramortito le sue dita intrecciate alle
proprie, le
sue unghie che scorrono sulla sua pelle, mentre lo trascinano in un
vortice di
suoni che hanno smesso di avere alcun significato per lui.
L’unica
cosa che riempie le sue orecchie è il
rimbombo affannoso del suo cuore che si ripercuote con frastuono contro
le
costole, minacciando di uscirgli dal petto. La sua vista è
come appannata: vede
tutto attraverso un velo – forse di sudore, forse di lacrime.
Il suo
labbro inferiore ha preso inspiegabilmente a
tremare; deve morderselo quasi a sangue per fermarlo. Si sente la gola
improvvisamente inaridita, come se tutta l’acqua fosse
evaporata dal suo corpo,
tranne la patina di sudore che ormai gli imperla la fronte, nascosta
sotto le
ciocche nere.
Si lascia
guidare senza obiettare. Troppo sconvolto
da quel tocco inaspettato per poter fare alcunché, mentre
lei lo trascina verso
vette sempre più rapide, sempre più sussultanti,
di suoni cristallini. Quando
finalmente il tormento ha fine, quando la musica cessa, spera con tutto
se stesso
che lei non si accorga del tremore delle sue dita.
«Hai
visto? Non era difficile... Magari con un po’
di pratica potresti diventare perfino più bravo di
me.»
Rabastan
sbatte le palpebre, scacciando i brividi.
Ha abbassato
la guardia.
E
all’improvviso – con sua somma costernazione
–
sente qualcosa di liscio, di fremente, spingersi contro i polpastrelli
della
sua mano sinistra, ancora intrappolata nella stretta di lei. Il suo
sguardo
scatta verso il basso, attratto invincibilmente, eppure inorridito da
quello
che potrebbe vedere.
La mano
della ragazza tiene ferma quella di Rabastan,
immobilizzata, sul proprio ginocchio. Ma a poco a poco – come
se guardasse
impotente la scena con
gli occhi di un
estraneo – la vede scivolare sotto le balze, sotto le tulle,
sotto i molteplici
strati di lucida seta che trae riflessi dalla luce.
Va
completamente in apnea quando la pelle nuda trova
le sue dita. Emette un basso gemito, strozzato, che i denti e le labbra
cercano
di soffocare in un colpo di tosse mal riuscito.
«Rod
non mentiva quando ha detto che hai talento. E’
proprio vero: potresti essere nato per la musica, Rab.»
Lo blandisce
con la sua voce di velluto, e con la
mano lo attira sempre più verso i segreti che si celano
all’ombra della veste,
verso i quali la mente del piccolo Rabastan ancora non è
stata spinta a violarne
il mistero, almeno fino a questo momento. La cosa sta sfuggendo
pericolosamente
al suo controllo – oh, sì – e non riesce
in alcun modo a riprenderlo, a tornare
sui suoi passi, a sottrarsi alla sua stretta persuasiva, fintamente
delicata,
in realtà imperiosa e prepotente.
Sussulta
quando sente le labbra di lei sfiorargli
l’orecchio, pronunciando per la seconda volta in pochi minuti
parole destinate
unicamente a lui: «Sei stato un bravo bambino, Rab. I bravi
bambini si meritano
una sorpresa.»
Ma
l’unica cosa cui Rabastan riesce a pensare è che
Rodolphus è lì – Rodolphus
è lì –,
seduto dietro di loro, sul divano, che li guarda. Non può
vedere cosa stiano
facendo, crede, altrimenti farebbe qualcosa. Fa’
qualcosa, lo prega dentro di sé – ma
Rodolphus non si muove (perché non
fai qualcosa?).
Rimani
lì, dice
un’altra voce. Una nuova, che non sapeva di
avere. È come un folletto malefico che si è
risvegliato dentro di lui. Quella
ragazza gliel’ha messo in corpo. Viene da lei, parla con la
sua voce. E’ colpa sua.
Ma,
nonostante questo, il sentimento predominante è
la vergogna. Lui si vergogna come un ladro di essere lì, a
pochi metri da
Rodolphus, con la mano infilata sotto la gonna della sua fidanzata, la
donna
che sposerà, la futura Madame Lestrange, sua cognata…
Rabastan si
alza di scatto, come punto da una vespa.
Strappa violentemente la mano dalla sua presa, rischiando quasi di
farle perdere
l’equilibrio. Lei vacilla, presa alla sprovvista da tale
impeto, ma si raddrizza
subito, facendogli quasi credere che l’abbia fatto apposta.
«Rab!»
Rodolphus è scattato anch’egli in piedi,
forse sorpreso della sua reazione spropositata, forse temendo che stia
accadendo
qualcosa che non deve.
«Io…
io devo andare. Scusate.»
Rodolphus
fissa incredulo suo fratello,
incredibilmente rosso, incredibilmente scarmigliato, fare un brevissimo
inchino
e lasciare il salone – o meglio, fuggire da esso –
come se avesse alle calcagna
un mostro mangiatore di bambini.
«Rabastan!»
Il suo richiamo si perde in un sussurro
incerto, troppo debole perché suo fratello lo oda. E, anche
se l’avesse udito,
probabilmente non sarebbe tornato indietro lo stesso.
I suoi passi
– in genere così silenziosi, così
misurati – risuonano con tonfi sordi, cadenzati, sui lustri
pavimenti di marmo.
Rodolphus sente il portone d’ingresso ruotare sui cardini e
poi riaccostarsi
con un pesante tintinnio di batacchi, e capisce che suo fratello
è uscito.
Diretto dove, non lo immagina. Forse al giardino, forse alla scogliera.
Questa
seconda ipotesi, chissà perché, gli accelera il
battito.
«Un
tipo emotivo, tuo fratello.»
Si volge
verso di lei, ancora seduta davanti
all’elegante strumento a coda, un luccichio indecifrabile
negli occhi. Lo
guarda con la testa morbidamente inclinata su una spalla; ciocche nere
le si
inanellano intorno al collo.
«Devi
scusarlo. In genere non è così
scortese.»
Lei sorride
– Rodolphus pensa all’improvviso che il
suo sorriso nasconda molti segreti.
«Ti
somiglia molto, sai? Anzi… è proprio come
te.»
«Che
vuoi dire?»
«Oh,
niente. Solo… buon sangue non mente. Sento che
andremo d’accordo, io e tuo fratello.»
---
Più
tardi, dopo che lei è andata via, Rodolphus ha
trovato suo fratello seduto tutto solo nel giardino, su una panchina
rosa dal
tempo, coperta di foglie secche, sulla quale si piegano lussureggianti
i roseti
di famiglia, carichi di grappoli di fiori rigogliosi.
Con la punta
della scarpa, Rabastan smuove il terriccio
intorno alla panchina – la testa bassa, gli occhi vacui.
Rodolphus lo ha visto
così e si è fermato da lontano a guardarlo, in
silenzio. È un’immagine così
triste che lotta con la rabbia che sente crescergli in petto.
Si ferma,
improvvisamente indeciso sul da farsi. Fino
a un attimo fa è stato completamente certo del proprio
comportamento, ma ora…
non più. Deve punire Rabastan… oppure no?
All’improvviso
la testa scura di Rabastan si volta
verso di lui, come se percepisse di essere osservato, e lo vede. A quel
punto
Rodolphus giudica ormai inutile continuare a esitare e si fa avanti.
Vede
Rabastan rimpicciolire, rannicchiarsi nelle
spalle, mentre gli si avvicina, come se avesse paura di lui. Dopo un
attimo di
esitazione, Rodolphus gli si va a sedere accanto.
Rimangono
entrambi in silenzio, per lunghi minuti,
lunghissimi, a guardare il giardino accarezzato dalla luce ormai
calante del
tramonto. Oltre i rami agitati dalla brezza, lontano lontano, luccica
l’ultimo
sole sulla superficie increspata dell’oceano.
I due
fratelli si godono lo spettacolo del giorno
che muore in un incendio sfolgorante di rosso e viola
all’orizzonte. L’aria si
fa rapidamente più fresca. Rabastan si stringe ancora di
più nelle spalle e
sbircia di soppiatto il profilo di suo fratello, ancora catturato dalla
magia
evanescente dell’orizzonte.
Prima che
possa trovare le parole, è Rodolphus a
parlare.
«Non
sei stato molto educato, oggi».
Rabastan
abbassa la testa. «Mi dispiace, Rod.» Dopo
un attimo di esitazione, solleva uno sguardo implorante verso di lui.
«Lo dirai
a mamma e papà?»
Rodolphus
non risponde per un lungo istante. Continua
a fissare diritto di fronte a sé. Dopo quella che pare
un’eternità, distoglie
lo sguardo per puntarlo nel suo e lo squadra con freddezza inconsueta,
soppesando
dentro di sé le parole. Si sta vendicando di quando
è stato il minore, prima, a
tenerlo in pugno.
Rabastan si
ritrova a trattenere il respiro, in
attesa del verdetto che significherà, nel peggiore dei casi,
un lungo mese in
punizione. Non gli sarà permesso neppure di mettere piede
fuori dalla sua
stanza. Potrà guardare il giardino solo da lontano, da
dietro le finestre della
camera, il naso premuto contro il vetro, la bocca piegata in
giù in una smorfia
triste.
È
un bambino e ancora non gli sono chiari i concetti
di giustizia o di causa-effetto, ma comprende che se
l’è meritato. Si è
comportato male con Rodolphus ed è giusto che lui lo ripaghi
con la stessa
moneta. Qualcosa si è spezzato tra loro, per sempre.
«Non
glielo dirò» dice alla fine Rodolphus. Scrolla
le spalle e torna a fissare con noncuranza l’orizzonte.
Rabastan
sente gli occhi diventare lucidi. Segue lo
sguardo di suo fratello, sbatte le palpebre cercando di schiarirsi la
vista.
«Grazie,
Rod.» E’ poco più di un sussurro a
increspargli le labbra. «Perché no?»
aggiunge poi, più a se stesso che a suo
fratello.
Al suo
fianco, Rodolphus sorride alla curiosità
malcelata nelle sue parole. «Sei il mio fratellino»
risponde asciutto, «i
fratelli condividono… segreti.»
Sarebbe
stata l’unica cosa che avrebbero condiviso? Quel
pensiero colpisce improvvisamente Rabastan
con la forza di una sferzata.
Al tempo
stesso, si sente più commosso e più in
colpa che mai. In colpa perché lui ha voluto quello che
è successo. O almeno
una parte di lui sì; non si è opposta. Stringe
forte le dita intorno al bordo
della panchina, sentendole gelare nel profondo. Una foglia venuta
chissà da
dove, trasportata dal vento, gli cade in grembo. La prende per il
picciolo, se
la rigira tra pollice e indice, studiandone le venature arborescenti.
«Devi
proprio sposarla?»
Rodolphus
volta di nuovo, lentamente, la testa nella
sua direzione, sorpreso dalla sua domanda. E dal suo tono, che sembra
tranquillo, ma cela una profonda disperazione rassegnata.
«Non
dovrei?»
Rabastan
alza le spalle, fissando la foglia. «Ci
sono tante ragazze, Rod. Perché proprio lei?»
Rodolphus
rimane in silenzio per un attimo. «Perché
nessuna è come lei, immagino.»
Rabastan
annuisce, anche se è troppo piccolo per
conoscere il mondo delle donne.
«La
amo» aggiunge con semplicità Rodolphus, in un
sussurro.
Rabastan non
ha mai sperimentato il sentimento di
cui parla suo fratello, ma è abituato a interpretare il
colore della sua voce,
le sfumature nel suo volto, le variazioni impercettibili nei suoi gesti
e
tutto, questo pomeriggio, ha parlato del suo amore per la ragazza
straniera.
Tutto.
«La
amo più di ogni cosa.»
Il cuore di
Rabastan batte più forte. Anche
più di me, Rod? Vorrebbe
chiedergli, ma non lo fa.
«Nostro
padre ci ha insegnato quanto sia importante
il valore della famiglia, il prendersi cura l’uno
dell’altro. Io, come tuo
fratello maggiore, devo prendermi cura di te, Rab.» Rodolphus
parla a se stesso
ad alta voce. «Devo aiutarti a riconoscere il bene dal male,
a trovare la
giusta via, a non prendere sentieri sbagliati. Per il tuo bene. Lo
capisci,
Rab?»
Rabastan non
capisce – non fino in fondo. Dove vuole
arrivare suo fratello?
All’improvviso
Rodolphus lo guarda dritto negli
occhi. «Lei sarà sempre
la mia prima
scelta, Rab. Hai capito?»
All’improvviso
un tuono rimbomba nel cielo, ora cupo
e grigio, quasi violaceo. Si leva un vento freddo, sibilante. Rabastan,
distolta momentaneamente l’attenzione da suo fratello, scruta
attonito la
tempesta che si prepara. Odia le tempeste. Lo fanno sentire inerme, in
pericolo.
Sussulta
quando qualcosa di caldo e pesante gli viene
appoggiato senza troppe cerimonie sulle spalle. Rodolphus gli ha dato
la sua
giacca.
«Che
razza di fratello maggiore sarei se ti lasciassi
morire di freddo?» dice, in risposta al suo sguardo
interrogativo.
Lo fai solo
per senso del dovere, Rod, o perché t’importa
veramente di me?
Non ha
bisogno di riflettere molto per indovinare la
risposta.
Lei
sarà
sempre la mia prima scelta…
«Torniamo
dentro. Non voglio che mamma e papà ci
trovino qui al loro ritorno.»
Senza dire
nulla, all’unisono, i due fratelli si
alzano; attraversano il giardino, correndo sotto le prime gocce lunghe
e fredde
che il cielo bagnato strizza vendicativo sul loro capo.
---
Più
tardi, quella sera stessa, Rabastan ha suonato
per Rodolphus.
Ha suonato a
occhi chiusi, di nuovo – un paio di
guanti bianchi erano stati dimenticati sulla superficie levigata dello
strumento, e Rabastan chiude gli occhi per non vederli.
Non li
riapre fino alla fine della musica.
Fine