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Autore: Angie Mars Halen    23/10/2013    2 recensioni
Nikki sta attraversando il periodo più buio della sua vita e ha l’occasione di incontrare Grace. Dopo il loro primo e burrascoso incontro, tra i due nasce una profonda amicizia e Grace decide di fare del suo meglio per aiutare e sostenere il bassista. Inizialmente Nikki è felice del solido rapporto che si è creato tra lui e questa diciassettenne sconosciuta, ma subentrerà la gelosia nel momento in cui lei inizierà a frequentare uno dei suoi compagni di band. Mentre dovrà fare i conti con questo, Grace, che è molto affezionata a lui e quindi non vuole abbandonarlo, dovrà fare il possibile per non essere trascinata nell’abisso oscuro di Sikki.
[1987]
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mick Mars, Nikki Sixx, Nuovo personaggio, Tommy Lee, Vince Neil
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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8) NIKKI

Stupida ragazza. Oppure sarebbe stato più corretto dire “stupido Sixx”? Non lo sapevo. Allora non sapevo un cazzo di niente, se è per questo. L’unica cosa che avevo capito era che Grace mi stava mandando in fumo il cervello perché mi faceva pensare troppo. Fin dal primo momento in cui l’avevo vista al negozio di dischi, avevo capito che mi avrebbe dato da pensare, ma ancora non sapevo se in positivo o negativo.

Adesso, però, facciamo il punto della situazione.

Nonostante avessi visto di molto meglio, Grace era una bella ragazza. Sembrava simpatica e forse non aveva afferrato cosa stesse succedendo in casa mia ma per me, che mi sentivo terribilmente solo e avevo bisogno di qualcuno che si prendesse cura di me e di cui prendermi cura a mia volta, era più che interessante. Dall’altra parte, però, mi rendevo conto che, a differenza delle sue coetanee che avevo avuto modo di conoscere e che venivano tutte da situazioni difficili che le avevano portate a compiere scelte sbagliate proprio come era successo a me, Grace frequentava regolarmente l’università, probabilmente aveva una bella famiglia di persone oneste che abitavano in una di quelle case a due piani con la bandiera americana fuori, e non si meritava di avere a che fare con uno come me. Questo era proprio il motivo per cui le avevo detto di non farsi più vedere a casa mia. Sapevo che se l’avessi incontrata un’altra volta mentre ero fatto ci avrei provato, quindi pensavo che sarebbe stato meglio allontanarla prima che mi fissassi con lei come avevo fatto con Vanity, la cui situazione, già critica di per sé, era precipitata da quando avevamo iniziato a frequentarci, portandola sempre più vicina al limite.

Mentre mi arrovellavo su questi pensieri, consapevole del fatto che avrei fatto meglio a lasciar perdere, ricevetti una telefonata proprio da parte di Vanity, che mi annunciò cantando che stava arrivando. Non dissi niente se non un biascicato “sì, va bene”. Detestavo quella donna perché era completamente pazza e spesso si presentava a casa mia sbraitando quando avevo altri ospiti, se non addirittura allo studio di registrazione. Mi impegnavo per sembrare il più normale possibile di fronte a Doc e ai miei compagni di band, poi arrivava lei e rendeva vano ogni mio sforzo con la sua incontrollabile follia dettata da una dose di troppo. Cominciava a fare robe assurde, a gridare, a predicare cose in cui nessuno di noi credeva e a saltarmi addosso, mentre io pregavo mentalmente che, così come era arrivata, sparisse. Stavo bene con lei solo quando eravamo da soli nella mia villa perché tra tossici ci si capisce sempre, o quasi.

Quella sera arrivò saltellante e con una scorta di cocaina che aveva comprato per tirare avanti per più giorni, dimenticandosi che gliel’avrei fatta fuori in un attimo. Accendemmo la televisione perennemente sintonizzata su MTV e ci sedemmo sul divano, lei a rigirarsi tra le mani il sacchetto e io a guardare la polvere che conteneva mescolarsi.

“Allora, Nikki, cosa vuoi fare oggi?” domandò. Aveva un modo di parlare fastidioso: teneva le vocali lunghissime e il tono acuto mi perforava i timpani.

Alzai le spalle. “Cos’hai lì?”

Fece saltare il sacchetto sul suo palmo. “Un regalino per te, tesoro.”

“Perché non lo apriamo?” proposi malizioso mentre mi stiracchiavo.

Vanity sghignazzò e si affrettò a disporre un paio di piste sul tavolino dopo averlo liberato dalle bottiglie vuote e dai posaceneri straripanti. Estrasse poi una banconota dal portafoglio e l’arrotolò, infine me la porse con un gesto teatrale.

“A te l’onore!” esclamò levando le braccia in aria.

Mi chinai sul tavolino e aspirai tutta la striscia, incurante del naso in fiamme. Vanity era stata furba e me ne aveva preparata poca, così quando feci per avvicinarmi anche alla seconda pista lei mi allontanò spingendomi con rabbia.

“Non toccare, quella è mia!” gridò famelica.

La scansai con un braccio. “Preparatene un’altra.”

Vanity mi strappò dalle mani la banconota arrotolata, la accartocciò e la scagliò lontano nel salotto. “Ti ho detto che quella è mia.”

“Ne hai un sacco pieno, non fare storie.”

“Ti ho detto che non devi toccarla!” strillò, e stavolta sembrò trasformarsi in un’altra persona. Spalancò gli occhi, avanzò verso di me strisciando sul divano e mi lanciò contro una lattina vuota.

“Sei impazzita?” sbottai non appena la lattina mi colpì su una tempia. “Sei appena arrivata e hai già superato il mio limite di sopportazione. Puoi anche tornare a casa.”

“No!” sbraitò Vanity balzando in piedi. Aveva i muscoli delle gambe così in tensione che sembravano quelli di una lottatrice. “Sono venuta fin qui per te e adesso tu mi fai restare!”

Raccolsi il suo armamentario dal tavolino e glielo cacciai tra le braccia. “Scordatelo. Riprenditi la roba e sparisci prima che mi arrabbi.”

Improvvisamente smise di fissarmi con astio, rilassò i muscoli e mi rivolse un sorriso largo e sciocco che metteva in evidenza i denti bianchi. Mi puntò addosso lo sguardo allucinato e appoggiò la testa alla mia spalla più per sorreggersi che per manifestare il suo affetto.

“Ma sono la tua fidanzata, non puoi cacciarmi via così,” piagnucolò mentre cercava di stare in piedi. Fui costretto a sostenerla per evitare che scivolasse per terra in malo modo facendosi male perché, in fin dei conti, anche se la detestavo non volevo che succedesse.

“La tua fidanzata... sono la tua fidanzata...” continuava a ripetere, lo sguardo sempre più assente e il sorriso sempre più sforzato.

“No, non lo sei,” la corressi, ma non ne ero molto convinto perché non sapevo nemmeno io cosa fosse per me.

Vanity appoggiò il sacchetto sul tavolino e mi abbracciò. “Sì che lo sono, e ti voglio tanto, tanto, tanto bene.”

Era riuscita nel suo intento, come accadeva ogni volta: faceva un po’ di moine, piagnucolava, e alla fine riusciva sempre a ottenere ciò che voleva. Se però tra noi due c’era un fesso, quello ero io, e non perché mi fossi lasciato intenerire da Vanity, ma perché mi ero fatto corrompere dalla droga che mi portava. Il sacchetto di cocaina apparteneva a Vanity e sapevo che se l’avessi lasciata andare se lo sarebbe portato via con sé. Avrei sicuramente potuto chiamare Jason per comprarne dell’altra, ma avvicinarmi al telefono, comporre il numero e parlare erano fatiche inutili che per me, date le mie condizioni, erano ancora più dure. Dunque lasciai che Vanity si tornasse a sedere sul divano a gambe incrociate e finisse quello che aveva cominciato, dopodiché passammo il resto del tempo sospesi nel nostro paradiso artificiale.

Quando la mattina seguente mi svegliai, Vanity non era più lì, ma aveva lasciato un bigliettino con su scritto qualcosa di indecifrabile che non mi sforzai nemmeno di capire. Lo strappai in mille pezzi e li guardai imbambolato mentre scivolavano dalla mia mano fin sul pavimento. Cadevano lenti come fiocchi di neve e a osservarli mi sembrava che tutto intorno a me, il tempo compreso, andasse alla loro stessa velocità. Una volta che furono caduti tutti, l’effetto ralenti terminò. Passai sopra di essi calpestandoli per bene e il telefono squillò prima che potessi pensare a cosa avrei potuto fare quel giorno. Alzai la cornetta con una voglia tremenda di mandare a quel paese chiunque mi avesse chiamato e mi schiarii la voce. “Sì, pronto?”

“Ehi, sono Mick. Doc e io vorremmo sapere che fine hai fatto,” rispose il mio chitarrista con voce stanca e monotona. Era strano che mi avesse telefonato, e se lo aveva fatto, allora doveva essere molto importante.

“Non ho fatto nessuna fine. Anzi, purtroppo la fine non l’ho ancora raggiunta,” bofonchiai mentre mi stiracchiavo sul divano, ancora stordito dalla sera precedente.

“Non dire stronzate, Sixx,” mi rimproverò Mick. “Siamo agli studi di registrazione e manchi solo tu. Dovresti alzare il culo e venire anche tu.”

“Ma Mars, cazzo, è l’alba!” mi lagnai stropicciandomi con foga gli occhi ancora impiastricciati di matita nera.

“No, sono le dieci e mezza del mattino e avresti dovuto farti trovare qui davanti un’ora e un quarto fa, come eravamo d’accordo.”

Avevo paura di guardare l’orologio, ma mi sforzai di farlo: erano le dieci e mezza, proprio come aveva detto Mick, e io mi ero di nuovo dimenticato dei miei impegni perché ero troppo preso nelle mie faccende personali.

Mi passai una mano sul viso imprecando sottovoce. “E va bene, arrivo subito. Aspettatemi lì.”

“No, Nikki, noi per oggi abbiamo già finito e abbiamo altri impegni,” rispose Mick. “Domani però fatti vedere, okay?”

“Sì, ci proverò.”

“Tommy sta passando da te. A domani, Sixx, e vedi di ricordarti.”

Non aggiunsi altro e gli riattaccai in faccia. Come accidenti faceva Mick Mars ad aver voglia di sapere se fossi ancora vivo dopo tutto quello che io e Tommy gli stavamo facendo passare? La risposta balenò nella mia mente malata: se io mi fossi ammazzato, lui sarebbe rimasto senza bassista, di conseguenza aveva fatto quella telefonata non perché fosse preoccupato per me e mi voleva bene, ma perché voleva accertarsi che fossi ancora vivo. Avrei voluto morire in quel preciso istante solo per vedere la faccia che avrebbe fatto.

Allontanai l’apparecchio del telefono con una spinta e sferrai un pugno sul divano. Perché tutti mi stavano vicino e mi cercavano solo perché ero famoso o facevo loro comodo? Chissà se anche Tommy stava arrivando solo per assicurarsi di avere ancora un bassista nella band? In preda all’hangover, decisi che era senz’altro così e che per ripicca non gli avrei aperto. Infatti, non appena suonò il campanello, sollevai il capo con gli occhi iniettati di rabbia, determinato a sopportare diversi squilli finché non avesse pensato che stessi male. Credevo che si sarebbe arreso e sarebbe andato via, invece lo sentii scavalcare il cancello e battere i pugni contro la porta.

“Sixx, cazzo, rispondi! Lo so che sei lì dentro, apri!” gridò.

“Non ora, T-Bone. Tornatene a casa e lasciami in pace,” risposi, ancora sdraiato sul divano e con un avambraccio sopra gli occhi per ripararmi dalla poca luce.

“Va tutto bene? Hai bisogno di qualcosa?” domandò.

“Non ho bisogno di niente.”

“Sei fatto?”

Premetti ancora di più il braccio sul viso. “Uffa, ti ho detto di no! Ci vediamo domani, adesso sparisci.”

“Non voglio sentirti così,” stavolta la sua voce era diversa, persino più triste, e aveva smesso di gridare e di battere contro la porta.

Mi diedi dell’idiota per averlo cacciato via in quel modo sgarbato. Non potevo certo cambiare idea all’improvviso e dirgli che poteva restare, perciò fui costretto a invitarlo ad andarsene, ricordandogli che ci saremmo visti l’indomani. Ci misi cinque minuti buoni per convincerlo a lasciarmi da solo, ma quando sentii il rombo della sua motocicletta allontanarsi mi pentii immediatamente della mia scelta. Appoggiai la testa al divano, fissai il soffitto e sospirai. Avevo bisogno della mia roba ed era al piano di sopra, quindi dovevo alzarmi e salire le scale con le gambe che mi tremavano. Volevo farmi e non farmi più allo stesso tempo, ero sospeso in un limbo e aspettavo di cadere da una delle due parti. Volevo solo che tutto finisse. Avrei voluto chiudere gli occhi, riaprirli e ritrovarmi in una casa pulita, illuminata, con Tommy seduto di fianco a me che sparava barzellette a non finire, lo stereo acceso, le finestre aperte e neanche un granello di coca entro il perimetro di casa mia. Forse quello che stavo vivendo era davvero un brutto sogno, allora provai a chiudere e riaprire gli occhi, ma ovviamente trovai tutto come prima. Battei un pugno sul divano, sferrai un calcio al tavolino da caffè facendo traballare le bottiglie vuote appoggiate sul ripiano di vetro e mi venne voglia di piangere.

Perché doveva essere così? Era colpa mia? Cosa c’era che non andava in me?




N. d’A.: Salve a tutti! =)
Vanity ha fatto la sua comparsa... ma in compenso anche gli altri Crüe, pian piano, si stanno facendo vivi.
Per stavolta è tutto e spero che sia di vostro gradimento. Ringrazio chi legge e recensisce!
A mercoledì prossimo!
Un abbraccio,

Angie

   
 
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