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Autore: Nadine_Rose    25/10/2013    1 recensioni
Nadine ballava, rideva ed era viva.
[Continuo di “Un amore diviso da un filo spinato”]
Nadine e Werner sedettero vicino alla riva del lago all’ombra di un’alta conifera e restarono lì, stretti l’uno all’altra, avvolti dall’aria fresca dell’estate berlinese mentre dentro di loro scoppiava la primavera. Una nuova stagione era cominciata per la loro vita ma i due contavano ancora i loro inverni.
[Capitolo 33: Il dono della vita]
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopoguerra
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Capitolo 8

                                                                       

La verità ha i tuoi occhi


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Quando Nadine riprese i sensi, si ritrovò sdraiata su un divano con la camicetta un po’ sbottonata e due ragazze che la osservavano preoccupate. “Sta riaprendo gli occhi! Sta riaprendo gli occhi!” esclamò una delle due con tono molto agitato.  Pian piano, Nadine si mise a sedere - sentiva la testa come schiacciata da un grosso macigno - mentre l’altra ragazza le porse un bicchiere d’acqua che però non prese. Nadine era troppo sconvolta e frastornata per quella verità che aveva dinanzi. Quell’uomo, Kurt, era lì, immobile, di fronte a lei, col volto ferito … vivo. Sì, Kurt era vivo e adesso la guardava con apprensione e meraviglia. Dopo alcuni istanti di esitazione, l’uomo s’incamminò verso di lei zoppicando. Si accovacciò e la guardò profondamente negli occhi, in quegli occhi nocciola, gli unici in grado di confermare chi lei fosse. Kurt già sapeva che dietro quell’immagine di donna, dal viso lievemente truccato, dai capelli raccolti in uno chignon spettinato, dalle forme del corpo armoniose, si nascondeva la ragazza conosciuta a Ravensbrück ma le chiese ugualmente: “Tu sei davvero Nadine?” Lei distolse per un attimo lo sguardo e, trattenendo a stento lacrime convulse, rispose con un’altra domanda: “Tu eri morto! … Sei morto tra le mie braccia! … Non può essere vero! … Cos’è successo?!” E la memoria di Kurt andò a quel giorno …

 

16 giugno 1940, campo di concentramento di Ravensbrück

 

Kurt iniziò ad avvertire dolori lancinanti in tutto il corpo, in particolare gli bruciava la faccia e, a ogni respiro, provava una fitta al naso. Tentò di aprire gli occhi ma gli fu impossibile: il dolore era troppo forte. Il giovane era fisicamente distrutto e mentalmente confuso. Immaginava di essere morto e si domandava il perché di quel male. Pensò di essere capitato in un girone dell’inferno e ne ebbe la conferma quando capì di essere completamente nudo e sporco di fango. Non era riuscito a salvare Nadine dal lager e quella sarebbe stata la sua eterna punizione. Dietro di lui c’erano alcuni cadaveri di donna ma questo Kurt lo avrebbe appreso più in là. Con sforzo disumano, riuscì lentamente a sedersi e, all’improvviso, udì una voce in lontananza: “Ehi, tu … Stai fermo … Vengo a prenderti.” Il giovane era sempre più confuso. Fu sollevato e sorretto da quell’uomo che, con espressione angosciata, disse: “Povero ragazzo … Guarda come l’hanno conciato … Povero figliolo.”

Quell’uomo si chiamava Franz, aveva cinquant’anni e apparteneva alla Widerstand[i]. Fratello di un gesuita, sin dal 1933, si era opposto al nazismo e, con l’inizio delle deportazioni, si aggirava per la Germania in cerca di qualche anima da salvare. Grazie al coraggio e alla generosità di quell’uomo - che lo accolse nella sua casa, lo fece curare e lo tenne con sé come un figlio -, Kurt ebbe la possibilità di salvarsi e di riprendersi, dopo la guerra, la sua vita.

 

“Dopo la guerra ti ho cercato, Nadine …” esordì Kurt, dopo averle raccontato di quel giorno “… Sono ritornato a Ravensbrück per sapere se ce l’avessi fatta ma senza risultato. Per anni ho vissuto col senso di colpa per non averti portato via da quel posto.” Entrambi erano seduti sul divano e bevevano una tazza di camomilla. “Ma come hai fatto a sopravvivere, Nadine?” continuò l’uomo ancora meravigliato. La signora Hofmann si alzò e, dandogli le spalle, disse: “Sono stati anni molto duri. Ogni giorno pensavo che sarebbe stato l’ultimo della mia vita. Ho subito enormi crudeltà … Beh, io lo considero un miracolo … E tu come hai passato gli anni della guerra?” “Con la famiglia di Franz passavamo di casa in casa, di città in città e nell’ultimo periodo ci nascondevamo nei boschi per fuggire ai nazisti …” rispose Kurt e aggiunse: “… Franz era già morto. Era stato scoperto da un soldato delle SS mentre tentava di salvare una bimba da un rastrellamento. Per me era come un padre.” Poi Nadine gli chiese dei suoi genitori e di Käthe

 

I coniugi Hochmann si separarono nell’inverno del 1942. Friedrich e Ingrid s’incolpavano a vicenda della scomparsa del figlio, le loro liti erano sempre più violente e per il bene di Käthe avevano deciso di lasciarsi. Ma, nel frattempo, la ragazza - trascurata dai genitori perché chiusi nel guscio del loro dolore e sprofondati nell’abisso dei sensi di colpa, attratta dallo strano fascino della divisa e soggiogata dall’ideologia che dominava la Germania - perse la testa per un capitano delle SS di dieci anni più grande di lei. Da subito, quell’uomo si era rivelato un violento arrivando persino ad alzare le mani sul suo futuro suocero per una piccola divergenza di opinioni. Plagiata dal nazista, la giovane Käthe abbandonò gli studi e i suoi sogni e si sposò dopo pochi mesi di fidanzamento.

 

“Mia sorella ha vissuto quattro anni d’inferno. Quell’essere, che non merita nemmeno di essere chiamato per nome, la rinchiudeva in casa, la picchiava, la violentava. La picchiava anche in gravidanza quel bastardo!” il tono di Kurt divenne arrabbiato “Grazie a Dio, il processo di Norimberga ha posto fine alla sua orrenda prigionia … Lo arrestarono e, prima di essere giudicato, si tolse la vita con del veleno.” “Povera Käthe.” affermò Nadine con le lacrime agli occhi e Kurt continuò dicendo: “Käthe adesso sta bene. Vive da sola con suo figlio e, pian piano, sta rimettendo insieme i pezzi della sua vita per ricominciare tutto daccapo.”  

 

Dopo la separazione da sua moglie, Friedrich si mise alla ricerca del figlio partendo dalle fotografie di Ravensbrück. Si recò al lager e lì i suoi occhi iniziarono ad aprirsi. Capì che cos’era in realtà il “campo di rieducazione” femminile e da dove proveniva quella cenere che ogni mattina trovava sulla sua macchina. La sera stessa, ritornando a casa, assisté all’uccisione di un bambino autistico durante un rastrellamento e, a questa scena, fu il suo cuore ad aprirsi. In meno di un secondo, Friedrich ritornò uomo, ritornò padre e, da un giorno all’altro, fece del “Der Hochmann” un giornale di opposizione al nazismo. Era l’autunno del 1943.

 

“Mio padre fu abbandonato da tutti i suoi dipendenti. Rimase da solo a scrivere e denunciare gli abusi dei nazisti …” affermò Kurt, mostrando un certo orgoglio “… E, poco tempo dopo, le SS fecero irruzione nel suo ufficio, in quest’ufficio. Lo trascinarono in strada e, senza un processo, senza una sentenza, lo impiccarono a quel palo della luce.” Glielo indicò dalla finestra e, con voce angosciata, continuò il suo racconto: “Mia madre fu arrestata nello stesso giorno e portata a Dachau perché moglie di un traditore. Da lì non ha fatto più ritorno.” Nadine e Kurt si scambiarono uno sguardo. Nei loro occhi si leggevano la stessa malinconia, la stessa resa a quel passato brutale, la stessa voglia di un futuro migliore. I loro erano gli occhi di due sopravvissuti.

“Kurt, sono molto stanca. Sapresti indicarmi un albergo?” domandò Nadine e Kurt, abbozzando un sorriso, rispose: “Vieni a casa mia. Ti farò conoscere la mia famiglia.”

 

Quante sere ho consumato a tempestarmi di domande,

quanta gente ho conosciuto per sapere di più

e ferite più profonde che ora tu non guarirai,

però i tagli ricevuti non mi fermeranno mai.

 

Enrico Ruggeri, La canzone della verità

 



[i]Resistenza, in tedesco

   
 
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