Capitolo 8
La verità ha i tuoi occhi
Quando
Nadine riprese i sensi, si ritrovò sdraiata su un
divano con la camicetta un po’ sbottonata e due ragazze che la osservavano
preoccupate. “Sta riaprendo gli occhi! Sta riaprendo gli occhi!” esclamò una
delle due con tono molto agitato. Pian
piano, Nadine si mise a sedere - sentiva la testa
come schiacciata da un grosso macigno - mentre l’altra ragazza le porse un
bicchiere d’acqua che però non prese. Nadine era
troppo sconvolta e frastornata per quella verità che aveva dinanzi. Quell’uomo,
Kurt, era lì, immobile, di fronte a lei, col volto ferito … vivo. Sì, Kurt era
vivo e adesso la guardava con apprensione e meraviglia. Dopo alcuni istanti di
esitazione, l’uomo s’incamminò verso di lei zoppicando. Si accovacciò e la
guardò profondamente negli occhi, in quegli occhi nocciola, gli unici in grado
di confermare chi lei fosse. Kurt già sapeva che dietro quell’immagine di
donna, dal viso lievemente truccato, dai capelli raccolti in uno chignon
spettinato, dalle forme del corpo armoniose, si nascondeva la ragazza
conosciuta a Ravensbrück
ma le chiese ugualmente: “Tu sei davvero Nadine?” Lei
distolse per un attimo lo sguardo e, trattenendo a stento lacrime convulse,
rispose con un’altra domanda: “Tu eri morto! … Sei morto tra le mie braccia! …
Non può essere vero! … Cos’è successo?!” E la memoria di Kurt andò a quel
giorno …
16 giugno 1940, campo
di concentramento di Ravensbrück
Kurt iniziò ad
avvertire dolori lancinanti in tutto il corpo, in particolare gli bruciava la
faccia e, a ogni respiro, provava una fitta al naso. Tentò di aprire gli occhi
ma gli fu impossibile: il dolore era troppo forte. Il giovane era fisicamente
distrutto e mentalmente confuso. Immaginava di essere morto e si domandava il
perché di quel male. Pensò di essere capitato in un girone dell’inferno e ne
ebbe la conferma quando capì di essere completamente nudo e sporco di fango.
Non era riuscito a salvare Nadine dal lager e quella
sarebbe stata la sua eterna punizione. Dietro di lui c’erano alcuni cadaveri di
donna ma questo Kurt lo avrebbe appreso più in là. Con sforzo disumano, riuscì
lentamente a sedersi e, all’improvviso, udì una voce in lontananza: “Ehi, tu …
Stai fermo … Vengo a prenderti.” Il giovane era sempre più confuso. Fu
sollevato e sorretto da quell’uomo che, con espressione angosciata, disse:
“Povero ragazzo … Guarda come l’hanno conciato … Povero figliolo.”
Quell’uomo si chiamava
Franz, aveva cinquant’anni e apparteneva alla Widerstand[i]. Fratello di un gesuita,
sin dal 1933, si era opposto al nazismo e, con l’inizio delle deportazioni, si
aggirava per la Germania in cerca di qualche anima da salvare. Grazie al
coraggio e alla generosità di quell’uomo - che lo accolse nella sua casa, lo
fece curare e lo tenne con sé come un figlio -, Kurt ebbe la possibilità di
salvarsi e di riprendersi, dopo la guerra, la sua vita.
“Dopo la guerra ti ho
cercato, Nadine …” esordì Kurt, dopo averle
raccontato di quel giorno “… Sono ritornato a Ravensbrück per sapere se ce
l’avessi fatta ma senza risultato. Per anni ho vissuto col senso di colpa per
non averti portato via da quel posto.” Entrambi erano seduti sul divano e
bevevano una tazza di camomilla. “Ma come hai fatto a sopravvivere, Nadine?” continuò l’uomo ancora meravigliato. La signora Hofmann si alzò e,
dandogli le spalle, disse: “Sono stati anni molto duri. Ogni giorno pensavo che
sarebbe stato l’ultimo della mia vita. Ho subito enormi crudeltà … Beh, io lo
considero un miracolo … E tu come hai passato gli anni della guerra?” “Con la famiglia di Franz
passavamo di casa in casa, di città in città e nell’ultimo periodo ci
nascondevamo nei boschi per fuggire ai nazisti …” rispose Kurt e aggiunse: “…
Franz era già morto. Era stato scoperto da un soldato delle SS mentre tentava
di salvare una bimba da un rastrellamento. Per me era come un padre.” Poi Nadine gli chiese dei suoi genitori e di Käthe …
I coniugi Hochmann si
separarono nell’inverno del 1942. Friedrich e Ingrid s’incolpavano a vicenda
della scomparsa del figlio, le loro liti erano sempre più violente e per il
bene di Käthe avevano deciso di lasciarsi. Ma, nel
frattempo, la ragazza - trascurata dai genitori perché chiusi nel guscio del
loro dolore e sprofondati nell’abisso dei sensi di colpa, attratta dallo strano
fascino della divisa e soggiogata dall’ideologia che dominava la Germania -
perse la testa per un capitano delle SS di dieci anni più grande di lei. Da
subito, quell’uomo si era rivelato un violento arrivando persino ad alzare le
mani sul suo futuro suocero per una piccola divergenza di opinioni. Plagiata
dal nazista, la giovane Käthe abbandonò gli studi e i
suoi sogni e si sposò dopo pochi mesi di fidanzamento.
“Mia sorella ha vissuto quattro anni d’inferno.
Quell’essere, che non merita nemmeno di essere chiamato per nome, la
rinchiudeva in casa, la picchiava, la violentava. La picchiava anche in
gravidanza quel bastardo!” il tono di Kurt divenne arrabbiato “Grazie a Dio, il
processo di Norimberga ha posto fine alla sua orrenda prigionia … Lo
arrestarono e, prima di essere giudicato, si tolse la vita con del veleno.”
“Povera Käthe.” affermò Nadine
con le lacrime agli occhi e Kurt continuò dicendo: “Käthe
adesso sta bene. Vive da sola con suo figlio e, pian piano, sta rimettendo
insieme i pezzi della sua vita per ricominciare tutto daccapo.”
Dopo la separazione da sua moglie, Friedrich si
mise alla ricerca del figlio partendo dalle fotografie di Ravensbrück. Si recò al
lager e lì i suoi occhi iniziarono ad aprirsi. Capì che cos’era in realtà il
“campo di rieducazione” femminile e da dove proveniva quella cenere che ogni
mattina trovava sulla sua macchina. La sera stessa, ritornando a casa, assisté
all’uccisione di un bambino autistico durante un rastrellamento e, a questa
scena, fu il suo cuore ad aprirsi. In meno di un secondo, Friedrich ritornò
uomo, ritornò padre e, da un giorno all’altro, fece del “Der
Hochmann” un giornale di opposizione al nazismo. Era
l’autunno del 1943.
“Mio padre fu
abbandonato da tutti i suoi dipendenti. Rimase da solo a scrivere e denunciare
gli abusi dei nazisti …” affermò Kurt, mostrando un certo orgoglio “… E, poco
tempo dopo, le SS fecero irruzione nel suo ufficio, in quest’ufficio. Lo
trascinarono in strada e, senza un processo, senza una sentenza, lo impiccarono
a quel palo della luce.” Glielo indicò dalla finestra e, con voce angosciata,
continuò il suo racconto: “Mia madre fu arrestata nello stesso giorno e portata
a Dachau perché moglie di un traditore. Da lì non ha
fatto più ritorno.” Nadine e Kurt si scambiarono uno
sguardo. Nei loro occhi si leggevano la stessa malinconia, la stessa resa a
quel passato brutale, la stessa voglia di un futuro migliore. I loro erano gli
occhi di due sopravvissuti.
“Kurt, sono molto
stanca. Sapresti indicarmi un albergo?” domandò Nadine
e Kurt, abbozzando un sorriso, rispose: “Vieni a casa mia. Ti farò conoscere la
mia famiglia.”
Quante sere
ho consumato a tempestarmi di domande,
quanta
gente ho conosciuto per sapere di più
e ferite
più profonde che ora tu non guarirai,
però i
tagli ricevuti non mi fermeranno mai.
Enrico
Ruggeri, La canzone della verità