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Autore: Eynieth    27/10/2013    2 recensioni
Matilde ha una sola paura. E tanti sogni, ma sono collegati l'uno all'altro.
Sogni. Paura.
Paura. Sogni.
E i suo sogni la conducono per nove mesi in Francia, dalla famiglia Ulliel. Per realizzare i suoi sogni stravolgerà la sua vita, ma non stravolgerà solo la sua...
Genere: Erotico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Finito quel dannato pranzo a cui ero arrivato in orario solo perchè Matilde ha avuto l'accortezza di svegliarmi, torniamo nella mia stanza. Non avrà ancora intenzione di mettersi a lavorare sui vestiti, spero! Non sopporterei di passare il resto della giornata a guardare il soffitto mentre lei cuce.

Eppure entra in quel dannatissimo studio e alzo gli occhi al cielo chiedendomi cosa avessi fatto di male. Poi mi viene un'idea e mi cambio velocemente indossando una maglia nera con il nome di uno dei mie gruppi preferiti e un paio di jeans larghi e strappati. Poi mi metto davanti alla porta dello studio e la guardo.

«Siccome non ho intenzione di stare qui dentro in attesa di un miracolo, vuoi venire a fare un giro a Parigi?» vedo i suoi occhi illuminarsi, probabilmente non vi è mai stata, e poi cercare tra i vestiti il più adatto. «Guarda che con me puoi indossare benissimo una maglia e un paio di pantaloni comodi. So che ti senti meglio che con tutti quelli che hai prodotto negli ultimi mesi, anche se sono davvero belli... Come vedi anche io non ho intenzione di indossare nulla di elegante e non mi faccio problemi come mia madre. Sentiti libera.»

Mentre cerco tra le mille cose, il mio cellulare e le chiavi, la vedo affiancarmi vestita con una maglia e dei pantaloni larghi. Sorrido appena e le faccio cenno di seguirmi, mentre afferro anche una giacca di pelle ed esco dalla stanza. Scendiamo dalle scale proprio nel momento in cui sta passando mia madre che ci squadra poco contenta dell'abbigliamento. Mi limito a farle un gesto sbrigativo e poco interessato con la mano e la sorpasso senza molti problemi. Non sono più un bambino e posso decidere da solo come vestirmi. Vedendo l'espressione stupita e quasi scandalizzata di Matilde rido.

«Cos'è quella faccia? Non dovresti spaccarti in due giorno e notte per non farti sgridare da mia madre.» rispondo semplicemente arrivando in giardino e mi avvio verso il garage, dove c'è la mia Harley Davidson. Altro che limousine, io amo quella moto. Passo un casco alla ragazza mentre mi infilo il mio e la invito a sedersi dietro di me. «Se hai paura aggrappati.» Infilo la giacca in pelle e metto in moto. La sento stringere le dita sulla mia schiena e ridacchio appena mentre parto e in pochi secondi sorpasso il cancello della villa. Adoro le moto in generale perchè è molto più semplice e veloce spostarsi con esse: le code le sorpasso a zig zag e posso sgusciare facilmente tra una macchina e l'altra.

In meno di venti minuti raggiungiamo Parigi e accosto dove trovo i parcheggi per le moto. Non faccio in tempo a togliere il casco che una marea di fotografi, fan e turisti vari ci accerchia muniti di macchine fotografiche e strillanti come cornacchie. Guardo Matilde e la vedo visibilmente a disagio, mentre cerca di nascondersi dagli obbiettivi enormi dei paparazzi. La prendo per mano e inizio a correre trascinandomela dietro con poca grazia. Corro sicuro e veloce, mentre sento una marea di persone inseguirmi. Improvvisamente sbocco in un vicolo e stringo a me la ragazza tappandole la bocca. I curiosi ci superano e iniziano a guardarsi intorno delusi di averci perso di vista. Quando ormai se ne sono andati, lascio l'italiana e mi infilo gli occhiali da sole, mentre lei inizia a sgridarmi. Mi ero dimenticato che dopo la mattinata con quei tacchi, probabilmente correre non era stata la migliore delle idee.

«Je suis désolé, ma non mi piaceva vederti a disagio. E poi sono dei seccatori sempre pronti a sparlare senza sapere nulla.» le rivolgo un sorriso a mo di scuse, mostrando la fossetta, e mi appoggio ad un muro. «Bene. Ora che li abbiamo seminati, dove vorresti andare? Sei mai stata a Parigi?»

Mi fa cenno di no col capo e annuisco appena. La meta migliore è una e una sola: la Torre Eiffel. Le sussurro di seguirmi, ma quando mi chiede dove avessi intenzione di andare, rimango vago. Cammino sicuro e deciso per le strade che ormai conosco meglio della mia cabina armadio e quando so che stiamo per arrivare le intimo di chiudere gli occhi. Alza un sopracciglio guardandomi diffidente.

«Fidati. Voglio farti una sorpresa. Non faccio scherzi. Je jure.» metto una mano sul cuore sollevando l'altra e lei ride appena per poi annuire e chiudere gli occhi. Sorrido e la afferro per un braccio sussurrandole di fidarsi e farsi guidare. Dopo pochi minuti mi fermo.

«Puoi aprire gli occhi, Matilde...» dico in un soffio mentre accendo una sigaretta e aspetto la sua espressione di meraviglia e sorpresa.

 

 

 

Appena finiamo di mangiare, mi chiudo di nuovo in studio, decisa a finire il vestito. Almeno fino a quando Gaspard non entra nello studio, tutto vestito di nero. Alzo solo per un attimo lo sguardo, poi torno a lavorare al vestito. Almeno fino a quando non pronuncia quel magico nome. Parigi.

Alzo gli occhi di scatto. Parigi. In un mese che sono qui, non ci sono mai andata. Mi si illuminano gli occhi. Mi alzo e comincio a cercare qualche vestito, pensando a quale può essere il più adatto.

Quando Gaspard mi dice che posso vestirmi come voglio, mi si illuminano ancora di più gli occhi.

Mi avvicino alla mia valigia che è rimasta chiusa da quando sono arrivata qui. Prendo dei jeans scoloriti e strappati e una maglia nera, abbastanza larga, a maniche lunghe, a cui ho fatto dei buchi verso il fondo, sulla spalla e su tutta la schiena. Mi avvicino al mucchio delle scarpe, e scostando tutte quelle con i tacchi, trovo i miei adorati anfibi neri. Quanto mi mancavano!

Mi cambio velocemente, disfo la treccia e lascio i capelli sciolti sulle spalle. Mi sistemo gli occhiali e mi avvicino a Gaspard, sorridendogli felice.

Lo seguo, e quando Annalise ci guarda male, distolgo lo sguardo, un po’ in imbarazzo. Ma quando Gaspard la congeda con un gesto, lo guardo sbalordita. Io non mi permetterei mai di comportarmi così con mia madre.

«Tutto quello che faccio qui, lo faccio per migliorare, non per non farmi sgridare da tua madre…»

Lo seguo verso il garage, dove mi trovo davanti una moto. Non chiedetemi quale, per me sono tutte uguali. Però è una moto! Mi passa il casco e con qualche difficoltà riesco a infilarlo, e mi siedo dietro a Gaspard. Arrossendo gli passo le braccia in vita e lo stringo. Non sono mai stata in moto, nessuno mi ci ha mai portata, e io non l’ho mai chiesto a nessuno.

Sento il vento che mi scompiglia i capelli, che mi entra nei buchi della maglia, mi sfiora con i tentacoli freddi la pelle scoperta delle gambe. Chiudo gli occhi e appoggio il viso sulla schiena di Gaspard.. forse non riuscirò a ringraziarlo abbastanza per il giro di Parigi che mi sta offrendo.

Arriviamo in poco tempo, veloci sulla strada, e Gaspard parcheggia in un posto riservato alle moto. Appena lui si toglie il casco, viene accerchiato da paparazzi, fan e turisti, veniamo accerchiati da flash abbaglianti e da frasi sconnesse e sovrapposte l’una all’altra. Mi riparo il viso con un braccio, non sono assolutamente abituata a tutta questa luce. Poi sento qualcosa, o qualcuno, che mi prende per un braccio senza alcuna delicatezza, e mi trascina da qualche parte. I piedi doloranti mi urlano pietà, ma Gaspard continua a correre, trascinandomi per mezza Parigi, fino a quando non mi stringe a sé e mi tappa la bocca con una mano. Vedo di sfuggita i nostri “inseguitori” guardarsi in giro smarriti e poi disperdersi per le vie di Parigi.

Quando mi lascia, mi piego in due per riprendere fiato. «Sei matto! Mi hai trascinato per mezza Parigi… non era di certo questo che immaginavo quando mi ha proposto il giro… Mi fanno un male cane i piedi!» però mi zittisco quando mi dice che non gli piaceva vedermi a disagio. E poi di cosa dovrebbero sparlare i paparazzi? Non stiamo facendo niente… ma forse loro non lo sanno.

Quando alzo lo sguardo, lo vedo sorridere. È la prima volta che lo vedo sorridere, ed è la prima volta che gli vedo la fossetta. Mi viene voglia di allungare una mano e sfiorarla, ma mi trattengo. Che idee strane che mi vengono in mente.

Scuoto la testa, quando mi chiede se sono mai stata a Parigi. Ho davvero tantissima voglia di visitarla, non sto più nella pelle.

Seguo Gaspard che cammina sicuro tra le vie di Parigi. Provo a chiedergli dove mi sta portando, ma non accenna a dirmi niente di specifico. Inizio a mordermi il labbro, curiosa.

Ad un certo punto mi chiede di chiudere gli occhi. Alzo le sopracciglia. Certo.. correre per Parigi, fatto. Figuracce in bagno, in camerino e in camere, fatte. Poi, cosa devo fare ancora? Però quando Gaspard “promette”, non posso fare altro, se non ridere e chiudere gli occhi, lui mi prende per un braccio e mi fa camminare un po’. La tentazione è grande, ma non sbircio.

Quando mi dice che posso aprire gli occhi, mi vedo davanti la torre Eiffel, siamo quasi sotto la grande torre simbolo di Parigi. Mi viene voglia di saltellare lì, attorno, è bellissima. Mi giro verso Gaspard, felicissima.

«Grazie! È… bellissima!» mi avvicino a lui. E gli tolgo la sigaretta dalle mani, gettandola lontano. «Adesso cosa mi fai vedere?» chiedo emozionata.

Gaspard guarda la sua sigaretta e poi me. Io alzo le spalle. Il fumo fa male. «Allora?»

Il ragazzo mi prende per mano e mi porta in una pasticceria lì vicino. La commessa lo saluta, il che può dire due cose: o si conoscono di vista, o lo conosce per fama. Non che mi interessi. Ci sediamo a un tavolino molto vintage in ferro battuto e Gaspard ordina alcuni dolci tipici, due per ogni tipo. Tutta felice guardo il piatto con i dolci e mi brillano gli occhi. Al diavolo la dieta, e al diavolo Lisa, tanto non sarà mai come lei, e mi piace mangiare.

Soprattutto i dolci.

Prendo un pasticcino e lo mangio. È buonissimo! Guardo Gaspard. E ne prendo un altro. E un altro. Sono tutti troppo buoni!

Poi Gaspard paga e mi sento un po' in colpa. Sono uo quella che ha mangiato di piú, provo a convincerlo a farmi pagare la mia parte, ma lui declina l'offerta con un gesto della mano.

Seguo Gaspard per Parigi, non so dove mi vuole portare, ma dopo che mi ha fatto vedere la torre Eiffel, mi fido di lui e delle sue scelte, quindi lo seguo. Peccato che dopo poco il silenzio che cade tra noi diventa davvero tanto imbarazzante. Cosí Gaspard mi chiede cosa studio, ma non è forse evidente?, e qual'è il mio sogno. «Studio moda a Milano, sono una delle piú brave del mio corso...» dico distogliendo lo sguardo. Per l'altra domanda... Non so cosa si aspetta Gaspard. Forse una ragazza della mia etá penserebbe all'amore, alla famiglia... Cosa ne so? So che i miei sogni non riguardano tutto questo. So che i miei sogni sono strani. Forse stupidi.

Forse non dovrei dirglielo, chissà cosa penserà di me... che sono una stupida... illusa.. ho dei sogni così assurdi, che forse più che sogni sono paure,. Ma dopo tutto, rimarrà qui per poco, poi tornerà alla sua vita, alla sua fama, e io tornerò ai miei sogni-paure. Quindi, perchè non dirglielo? A me non cambia niente... «E... probabilmente è stupido, ma... il mio sogno è... non essere dimenticata. Diventare qualcuno, non perdere la memoria del mio nome...» non lo guardo, non voglio leggergli in faccia quello che pensa di me. Guardo la strada, ma mi sento in dovere di dargli una spiegazione. «Mia madre soffre di alzimer, ormai non sa neanche il suo nome. Nè il mio. Per lei non sono nessuno, quasi una sconosciuta. Io... non voglio essere dimenticata, come mia madre...» non so quanto tempo ho parlato, so che ho fatto fatica a non piangere. Non voglio piangere davanti a Gaspard, non voglio sembrare stupida e debole, penso che una sia più che sufficiente.

Ci fermiamo davanti alla moto, non ricordo neanche come ci siamo arrivati. Ma non voglio parlare con Gaspard, dopo che gli ho raccontato tutte queste cose mi sento fragile, nuda... senza nessuna protezione contro il mondo. Prendo il casco e lo indosso e salgo in moto. Gaspard non ha ancora detto niente, non so se per lasciarmi del tempo, perchè ha cambiato opinione su di me, se aveva un'opinione, perchè mi crede stupida o ingenua. Non posso dire di preferire il suo silenzio, perchè sono combattuta. Una parte di me vorrebbe sapere cosa ne pensa, un'altra pensa che sia meglio così.

Corriamo veloci sulle strade di Parigi, attraversiamo un ponte e siamo sull'Ile de France, Gaspard parcheggia la moto, e fortunatamente, questa volta, non ci sono curiosi e paparazzi ad aspettarci. Quando tolgo il casco, posso vedere davanti ai miei occhi Notre-Dame. L'ho sempre vista in fotografia, vederla dal vivo è... immensa. Posso vedere i Gargoyle ghignarmi dalle guglie alte. E' un inno all'immensità e alla solennità. E' antica, e mi infonde profondo rispetto.

Chissà come ha fatto a pensare una struttura del genere, l'architetto che l'ha progettata. Quanta fantasia e creatività doveva contenere la mente di quell'uomo. Chissà se io riuscirò mai ad avere anche solo un decimo della sua fantasia...

Penso di essermi persa a guardare la cattedrale, senza prestare la minima attenzione a Gaspard. Mi risveglio solo quando mi chiede a cosa sto pensando.

E... no, questo non glielo dico. «A niente... entriamo, dai!» lo prendo per un braccio e lo tiro verso l'entrata di Notre-Dame. All'interno della cattedrale mi sento una piccola formichina. La navata è enorme e altissima. Le vetrate in alto, fanno entrare la calda luce del pomeriggio autunnale, illuminando e giocando con i colori sui muri e sul pavimento della cattedrale. Mi inginocchio e faccio il segno della croce, e cammino lungo la navata.

Pensare a mia madre, parlarne con Gaspard, mi ha fatto ricordare le sue storie e le sue foto. Quante volte ho visto l'album delle foto, con lei che percorreva una navata simile a questa, il vestito bianco, ampio, come se fosse una principessa d'inverno, con i cristalli cuciti sulla gonna e sul corpetto, lo scialle in soffice pelo candido, i capelli acconciati e cosparsi da perle e cristalli. Felice. E poi mio padre. Anche lui raggiante nel suo completo candido. I protagonisti del loro amore.

Chissà se mio padre si aspettava quello che gli è successo. Chissà se si aspettava di morire, sei anni dopo, per mano di un delinquente, mentre faceva il suo lavoro e difendeva la gente...

Non so che fine ha fatto Gaspard, ma io entro in un banco e mi inginocchio. E' da tanto che non prego, ma qualcosa mi spinge a farlo. A provarci. Dopo tutto, cosa mi è rimasto? Anche la speranza sta per esaurirsi. Forse non prego neanche, chiedo solo a un Dio, se esiste, di aiutarla. Di aiutare mia madre.

Sento una mano sulla spalla. E' Gaspard. Sento gli occhi lucidi, ma penso di non star piangendo. Non ancora, almeno. Mi passo le mani sugli occhi e li stropiccio, alzandomi in piedi.

 

 

 

Mi getta la sigaretta dalle mani curiosa di conoscere la prossima meta. Sorrido prendendola per mano e la porto in una delle mie pasticcerie preferite, dove fanno dolci fantastici. Saluto amichevolmente la commessa e ordino tutti i dolci disponibili e due per tipo in modo da poterli mangiare entrambi. Ci sediamo in un tavolino e lei inizia subito a gustarseli. Sorrido compiaciuto vedendo che le piacciono e soprattutto che non fa troppi complimenti a mangiare: ho notato che a pranzo stava attenta a tutto ciò che metteva in bocca e guardava con la coda dell'occhio mia sorella. Detesto le ragazze che si trattengono e fanno tutte quelle stupide diete anche se hanno un fisico già perfetto e Matilde di sicuro ce l'ha...Ma che mi metto a pensare!

Pago rifiutando la sua proposta di fare a metà: sono sempre e comunque un gentiluomo e non si fa mai pare una signorina. Usciamo e ho già in mente la prossima meta così ci avviamo verso la moto, dato che è piuttosto lontana dalla zona di Parigi in cui siamo.

«Cosa studi, Matilde? E qual'è il tuo sogno?» le chiedo per rompere quel silenzio imbarazzante che si è creato da quando abbiamo lasciato la pasticceria. Mi dice che studia, ovviamente, moda a Milano ed è una delle migliori del corso; si spiega il premio di soggiornare in Francia per nove mesi. Sulla seconda domanda rimane per diverso tempo in silenzio e mi mordo un labbro: probabilmente l'ho messa a disagio. Sto per porle una domanda di riserva, ma in quel momento mi spiega il suo sogno, ma allo stesso tempo la sua più grande paura. Mi racconta di sua madre, malata e del fatto che non si ricordi nemmeno come si chiami sua figlia. Mi si stringe il cuore e schiudo le labbra per cercare di consolarla, ma mi accorgo che non saprei cosa dirle: non ho la presunzione di pensare di poterla comprendere, in fondo non ho mai avuto a che fare con una malattia degenerativa di quel genere. Posso solo immaginare la sua sofferenza.

Raggiungiamo la moto e le passo il casco mentre tolgo le catene che la tenevano legata; monto con lei dietro e riparto cercando di pensare a qualcosa da dirle: non mi sembra giusto che Matilde si sia appena confidata con me e io non so nemmeno come fare per rincuorarla. Dopo una decina di minuti raggiungiamo la meta a cui avevo pensato precedentemente e parcheggio di nuovo, proprio davanti a una delle cattedrali più belle e famose d'Europa: Notre Dame. Sorrido vedendola incantata e mi ritrovo a pensare a quanto desidererei sposarmi proprio lì, in uno dei simboli della Francia.

«A che pensi, Matilde?» domando spostando lo sguardo dall'edificio al suo volto; non risponde, ma mi prende per mano e mi trascina all'interno. Entro con un segno di croce e una genuflessione e in quei due secondi perdo Matilde, o meglio, non bada più a me. Cammina nella navata centrale fino a raggiungere una panca e vi si inginocchia su. Abbozzo un sorriso e mi avvicino a delle candele: lascio cadere qualche moneta all'interno della cassa dove raccoglievano le offerte e accendo una candela pensando a Matilde e a sua madre. Hanno già sofferto abbastanza, fa che il suo sogno possa realizzarsi...

Mi avvicino a lei silenziosamente e la vedo con lo sguardo perso nel vuoto e gli occhi lucidi. Mi siedo e le poso delicatamente una mano sulla spalla, per cercare di esserle vicino, come non ero riuscito qualche minuto prima. «Forse non ricorda il tuo nome, ma non potrà mai dimenticarsi che sei sua figlia. Un genitore non può non riconoscere la persona a cui ha dato la vita: sono legati inesorabilmente. Lei vorrebbe vederti felice, forte e desiderosa di raggiungere i tuoi obbiettivi. Pensa a lei come era prima, non com'è ora. Pensa a quanto ti ama. Sii forte, per lei e per te stessa, Matilde.»

Chiudo gli occhi respirando profondamente mentre ripenso al desiderio espresso poco prima. Poi li riapro e le sorrido, anche se flebilmente, la prendo per mano ed esco dalla cattedrale. Guardo l'orologio del campanile e realizzo che ormai si è fatto tardi. «Purtroppo è ora di tornare...» sospiro dirigendomi verso la moto. Mi infilo il casco e sto per passarle il suo, ma mi accorgo che si sfrega le braccia e trema appena. La temperatura si sta abbassando; senza pensarci due volte le metto sulle spalle la mia giacca di pelle: sia mai che mia madre si arrabbi perchè si ritrova l'assistente ammalata. Sorrido vedendo che è gigante per lei: anche se si impossesserà del mio guardaroba, adoro vederla con vestiti enormi.

Sento l'aria gelata scorrere sotto la maglia e farmi rabbrividire, mentre torniamo verso la villa a tutta velocità. Una volta arrivati porto la moto in garage e prendo Matilde per mano: passiamo per un'entrata alternativa in modo da evitare mia madre e le sue inutili lamentele. Saliamo in camera e io mi butto esausto e infreddolito sul mio letto ignorando che sia ancora ricoperto dai vestiti della ragazza. Matilde, ovviamente, si dirige nel suo studio: che ci troverà di tanto interessante in un ammasso di vestiti? Sospiro e dopo qualche minuto decido di seguirla: sta sistemando ancora gli abiti per sé e si è cambiata. Indossa una mia maglia e un paio di pantaloni larghi e comodi. Sorrido spostando la poltrona, ignorando che sia ricoperta di stoffa e vestiti, e mi siedo vicino a lei per osservarla al lavoro.

«Non so cucire...» sussurro quasi impercettibilmente e quando vedo la sua espressione confusa mi passo una mano tra i capelli imbarazzato. «Pensavo: i miei genitori sono stilisti e io non so nemmeno come si tiene in mano un ago...». La sento ridere e mi avvicina due pezzi di stoffa a caso e mi mette in mano ago e filo. Prima mi mostra come fare e poi mi invita a provare. Inizio lentamente ad imitarla concentrato e rigido mettendoci tutto il mio impegno. Dopo circa cinque minuti finisco e faccio una smorfia vedendo i due pezzi di stoffa cuciti fra loro: sono un po' storti e in alcuni punti rovinati dal filo. «Sono un disastro!» poi guardo le dita ricoperte di buchetti nei punti in cui mi sono punto e tutti sanguinanti. «Ecco perchè cucite sempre voi donne: avete le mani più piccole e più fini per queste cose.»

Piagnucolo cercando di difendermi, imbarazzato. Ride ancora e disfa il casotto che ho fatto, per poi rispiegarmi lentamente come fare, ma questa volta, per il bene delle mie mani, mi rifiuto categoricamente di riprovare.

 

 

 

Sorrido tristemente alle parole di Gaspard. È bello pensarci, ma… non è vero, o forse non ne ho la certezza. E la mia vita si basa su certezze. Ma per oggi ho pensato abbastanza a cose tristi. Stringo la mano del ragazzo come se fosse una cosa normale, e lo seguo fuori da Notre-Dame. Lancio un ultimo sguardo alla grandezza della cattedrale. «Ci rivedremo… un giorno o l’altro…» le sussurro.

Un ultimo saluto.

E poi inizio a tremare dal freddo. Forse indossare solo una maglia bucata, non è stato il massimo. Dannazione!

Gaspard probabilmente mi vede tremare, perché mi passa la sua giacca. È calda, e sa di lui. Un profumo forte e mascolino. Mi stringo le braccia attorno alla vita, la giacca mi è enorme, ma non sento più freddo. Faccio un timido sorriso a Gaspard e sussurro un: «Grazie».

Salgo dietro di lui sulla moto, e lo stringo. Sento che trema un po’ e mi sento in colpa. Probabilmente avrà freddissimo. Che egoista che sono!

Quando arriviamo alla villa, mi catapulto nello studio, mi sono concessa un pomeriggio di svago, ma adesso devo assolutamente finire il vestito. Mi cambio velocemente così da essere più comoda.

Dopo poco entra Gaspard e si siede su tutte le mie stoffe e vestiti. Faccio una smorfia. Già odio stirare, e cerco di farlo il meno possibile, facendo così non mi aiuta di certo.

Poi sussurra quelle tre parole. “Non so cucire.” Come fa a non saper cucire? Sua madre è una stilista famosa in tutta Francia, e lui non ha mai preso in mano un ago! Questa poi! Devo rimediare. Ridacchio prendendo due pezzi a caso tra le stoffe e faccio un paio di punti, per fargli vedere come si fa. Poi gli passò l’ago e gli metto sotto gli occhi le stoffe.

Guardarlo mentre cuce, mi fa sbellicare dalle risate. È una frana! Non fa un punto dritto o giusto. Dopo poco ci rinuncia, io prendo quello che ha fatto e lo disfo, provando a fargli rivedere come si fa. Lui scuote la testa rassegnato e mi fa vedere i polpastrelli bucherellati. Io sorrido e gli faccio vedere le mie dita.

«Io lo faccio apposta, per tenermi sveglia…» dico mordendomi il labbro. Gaspard mi guarda male. Cosa ci posso fare? Quando devo finire un vestito e sono stanca, devo trovare qualcosa per svegliarmi!

Guardo distrattamente il cellulare. È tardissimo!

«Gaspard! È tardi! Tra poco dobbiamo andare a cena!»

Lo spingo via dalla poltrona, guardando tutti i vestiti stropicciati.

Dannazione!

Ne cerco altri in giro per lo studio, ma riesco a trovare solo dei pantaloni grigio perla a sigaretta a vita alta e una maglietta a sbuffo bianca.

Mi sistemo i capelli in una crocchia veloce e mi sistemo gli occhiali. Cerco tra le scarpe qualcosa di adatto. E basso. Stavo cosí bene con i miei anfibi! Alla fine prendo delle parigine con poco tacco, nere. Gaspard è scomparso, probabilmente è andato anche lui a cambiarsi. Infatti lo trovo in camera. Ha indossato dei pantaloni grigi e una camicia bianca. Gli sorrido e scendo dalle scale. Quando arriviamo in salone, Annalise non ci saluta. Sará ancora arrabbiata per questo pomeriggio? Spero di no! Io mi sono divertita così tanto. Mangiamo in silenzio, nessuno parla. Cosí, quando finalmente abbiamo finito, sono felice di tornare in camera. E non ho piú voglia di cucire. Ho tempo per finire quel dannato abito. Mi tolgo tutto e indosso la maglia-pigiama. Sto per entrare nel letto che ha portato Gaspard, quando mi ferma e mi indica il letto a baldacchino. Intanto si è cambiato anche lui. Indossa solo dei pantaloni larghi e mi guarda con il suo sguardo che non ammette repliche. Non che mi interessi molto. Alzo gli occhi al cielo. «Il letto è il tuo.» lui scuote la testa. Cosa posso fare? Mi alzo e gli metto una mano sul petto, lo spingo indietro, indietro, indietro, fino a quando non trova il bordo del letto e cade su di esso. Prendo le coperte e lo copro. «Tu stai lì. A me va benissimo l'altro letto.» Non so come ho fatto a fare una cosa del genere. Non è assolutamente da me. Forse è perché gli ho raccontato quelle cose sua mia mamma. O perchè lui mi ha consolato. O perchè è sempre gentile nei miei confronti. Non lo so. Spengo la luce e mi infilo nel letto. Mi addormento subito dopo senza pensare a niente.

 

   
 
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