Capitolo
secondo
Arieccomi con
il secondo ed ultimo capitolo di questa mini-FF! Prima di cominciare, rispondo
alle recensioni^^
DJ Kela
(first): Mi fa piacere che ti sia
piaciuta e mi dispiace di non poter sviluppare di più la loro storia. Ma avevo
deciso fin dall’inizio che doveva essere di pochi capitoli, massimo tre, perché
questo è solo un punto di vista, un piccolissimo scorcio di sei anni di guerra,
senza contare il prima ed il dopo. Ma non preoccuparti, in questo secondo ed
ultimo chap ci saranno anche delle spiegazioni, se le coglierai XD Per questa
decisione, ringraziate tutti il mio caro amico Verga che non fa mai capire
niente delle situazione e dei personaggi! XD
P.S. volevo
dire scrittura, non lettura, scusa =.= grafica molto futurista! Ma ho visto che
il secondo è scritto ad un'unica grandezza, per fortuna per i miei occhi XD bacione!
Eroicafuriosa: ti ringrazio per il consiglio datomi e non me la sono affatto
presa^^ Tuttavia vorrei farti notare che di “storico”, di date ed avvenimenti
ufficiali, essenzialmente non c’è nulla. La data di questo racconto è il 1
luglio 1943, mentre l’avvenimento storico più vicino è la caduta di Mussolini
il 24 luglio del medesimo anno^_^ Ho preso ispirazione dalle lezioni di scuola
solo per queste date e per il contesto e la situazione: nel ’43 si era capito
benissimo che Hitler era un pazzo, gli stessi soldati ed ufficiali tedeschi lo
capirono…tant’è che il primo attentato ad Hitler fu organizzato proprio da un
ufficiale, se non erro^^. Inoltre ho chiesto a mia nonna che ha vissuto quel
periodo e lo ricorda benissimo. Il mio paese fu occupato dai tedeschi, come
ogni paese d’Abruzzo più o meno…certo, scrivere tutti quello che mi ha
raccontato ci vorrebbe un libro intero XD ma è ovvio che prendo molto più spunto
dalla sua testimonianza che dai libri, soprattutto perché si parla di un
paesino abruzzese di alta montagna e non di Roma o Berlino^_^
DJ Kela
(second): ciao bella!^_^ non
preoccuparti per msn, mi rifaccio viva io! In verità sono stata costretta a
trasformare l’abruzzese in italiano perché sarebbe stato incomprensibile per
tutti i lettori XD ma ti assicuro che tedesco ed abruzzese insieme è peggio del
vietnamita! X°D
Ti ringrazio
per la recensione ed i complimenti, sono contenta che ti sia piaciuta la descrizione
della fuga! Per quanto riguarda il soldato…nel primo capitolo, ad un certo
punto, descrive Laura come “La ragazza che lo perseguitava in ogni ora di
giorno, che gli faceva fremere il cuore quando la
vedeva passare…”. Bhè, se lo perseguita ogni notte credo s’intende che è
innamorato di lei da molto tempo^^
Non ho descritto la situazione al fronte per
il semplice fatto che non entrava molto nel contesto, e sarei andata troppo
fuori tema: il mio intento è quello di narrare un pezzo di guerra con gli occhi
di una contadina abruzzese analfabeta^^E comunque esistono i tedeschi umani,
mia nonna ne conobbe uno che una volta l’aiutò a trasportare i covoni di fieno
con il padre e la sorellina!^_^
Bene! Dopo
questa digressione manzoniana sulle recensioni…vai con il secondo chap! ^__^
Aprì
lentamente gli occhi ed osservò il soffitto. Non s’era svegliato perché era
riposato ma perché il letto su cui dormiva era duro come la pietra, scomodo
peggio delle brande militari. Si sedette, con una smorfia di dolore sul viso, e
portò indietro i capelli biondi, allungatisi un po’ dall’ultima volta che aveva
visto le lame del barbiere. Osservò il suo compagno di cella, il comandante Von
Gaskel, mentre fissava il pavimento oltre le sbarre della prigione.
-
Quanto ti hanno dato? – gli chiese, osservandolo.
-
Cinque anni più altri due anni con sorveglianza obbligatoria – rispose il
comandante, con tono serio, quasi affranto.
Rechmart
sorrise fra sé, quindi volse gli occhi verso i due soldati che ora stavano
aprendo la porta della cella.
-
Ci vediamo dopo…- commentò il comandante, mentre lo ammanettavano, sicuro che
sarebbe ritornato con il peso della condanna sulle spalle. Rechmart annuì,
sorridendo, e seguì i due soldati verso il tribunale.
-
Ufficiale Friedrich Ludwig Rechmart, siete stato accusato di omicidio plurimo e
colposo contro civili ed innocenti, nonché di aver partecipato alle idee e alle
azioni del regime nazista. Cosa dici in tua discolpa? -.
Rechmart
osservò dal basso il giudice, seduto ed ammanettato. Spostò lo sguardo sugli
altri superiori nazisti che lo fissavano, minacciosi. Prima di parlare riportò
gli occhi di ghiaccio del giudice.
-
So che non servirà a nulla, vostro onore, ma io mi pento per ciò che ho fatto e
chiedo scusa davanti a voi e a Dio per quanto accaduto. So che quella gente non
tornerà più in vita e so anche che merito la mia condanna. Mi accorsi troppo
tardi che avevo ceduto ai pensieri folli di un uomo folle – rispose, suscitando
alla fine una violenta reazione dei fedeli nazisti che lo accusavano di alto
tradimento nei confronti dei Fuhrer. Quando
nella stanza tornò la calma, il giudice lesse l’esito della seduta.
- Secondo quanto stabilito dalla corte, l’Ufficiale
Rechmart è stato condannato a cinque anni e sei mesi di reclusione carceraria,
più altri due di sorveglianza obbligata. La seduta è tolta - .
Dopo nemmeno un’ora da quando era stato portato
via, il comandante Von Gaskel vide ritornare il suo compagno di cella, scortato
da due militari.
- Quanto ti hanno dato? – gli chiese, quando furono
soli.
- Cinque anni e sei mesi, più due di
sorveglianza…più o meno come te – rispose Rechmart, sdraiandosi sul letto e
portando le mani dietro il capo.
- Che cosa hai detto in tua discolpa da fare così
tanto presto? – chiede ancora, curiosa, il comandante.
- Che Hitler è un pazzo – rispose Rechmart ridendo
appena.
- Cosa?? Ma sei matto?? –
- ….No, non più…-.
Vi fu un attimo di silenzio, in cui Rechmart
continuò ad osservare il soffitto e Von Gaskel ad osservare quel suo sorriso
perenne, come se fosse inconsapevole che trascorreranno lì cinque lunghissimi
anni.
- Che cosa ti fa sorridere, me lo spieghi
Friedrich? – gli chiese d’improvviso, davvero curioso.
Rechmart sorrise ancora di più e continuò a fissare
lo sguardo sul soffitto. La risposta fu breve.
- Un sorriso - .
1
luglio 1950
Camminava lentamente lungo il marciapiede di Corso
Emanuele di Roma. Era appena uscita dall’Università e stava tornando a casa,
dove la famiglia l’aspettava per il pranzo. Un giorno d’estate non
eccessivamente caldo, anche perché il giorno appena c’era stato un violento
acquazzone che aveva nutrito la terra e rinfrescato l’aria.
Osserva l’orologio da polso e sospira, andando poi
a sistemare le pieghe della donna che le scivolava fino alle ginocchia. A volte
ripensava a qualche anno prima, quando viveva ancora nel suo paesino aquilano.
Ripensava a suo padre che faceva il fabbro e viaggiava nei paesi vicini per
vendere i suoi prodotti. Le pentole di rame…pensò, nostalgica del suo
paese. Le pentole di rame che aveva messo in ordine con l’Ufficiale. Una morsa
le strinse forte il cuore che cominciò a battere velocemente, come impazzito.
Chinò gli occhi sulla strada, l’espressione triste.
Aveva atteso per cinque anni quell’ufficiale dagli
occhi di ghiaccio. Sapeva che non si sarebbero mai rivisti, lui stesso glielo
aveva detto. Eppure non poteva pensare ad un altro né poteva accettare i
corteggiamenti degli altri ragazzi. La tormentava quel ragazzo, ogni notte,
ogni giorno, senza darle tregua. Doveva fare uno sforzo immane, durante lo
studio, per non pensare a lui.
Già, quando giunsero a Roma diedero un lavoro a suo
padre e a suo fratello, abbastanza importante da guadagnare un bel po’ di
soldi. E così potè andare a scuola, insieme a Maria, e poi all’Università.
Ora studiava, aveva delle amiche ed usciva con
loro; non facevano più la fame, come quando abitavano in Abruzzo. Eppure non le
bastava…lei voleva rivedere l’Ufficiale dagli occhi di ghiaccio. L’Ufficiale
che le aveva salvato la vita, cinque anni fa. L’Ufficiale che probabilmente era
stato condannato all’ergastolo o, peggio, giustiziato. Le si strinse il cuore a
quel pensiero e scosse appena il capo: no, non poteva essere morto. Non doveva
essere morto…
Passò davanti un’affollata fermata del pullman,
dato che era l’ora di punta. Le persone la evitavano per un pelo oppure le
andavano appena addosso, ma lei non badava a nessuno, immersa com’era nei suoi
pensieri.
- Laura!! – un grido improvviso la fece tornare
alla realtà. Riconosceva quella voce, dopo così tanti anni, ma pensò stesse
sognando, come sempre. Eppure si volse indietro, vagando con lo sguardo tra la
gente e sopra le loro teste. Nulla. Sorrise appena, amareggiata, e riprese a
camminare.
- Laura!!! – di nuovo quella voce che la chiamava,
quasi disperato, superando le voci di tutti gli altri. La ragazza si volse di
nuovo, prima di girare l'angolo,
rendendosi conto che non stava sognando. Lo sguardo saettava da un viso
all’altro, velocemente...e poi intravede dei capelli biondissimi. Spalancò
appena gli occhi, incredula. Era proprio lui? O forse stava sognando? O magari
era qualcun altro e non l’Ufficiale…Non le importava, doveva controllare. Tornò
indietro, correndo, facendosi largo tra la folla, con la cartella che sbatteva
da tutte le parti.
Eccolo, lo vedeva. Camminava a fatica contro
corrente, verso di lei, ed aveva gli occhi di ghiaccio che brillavano come il
sole.
Si fermarono, quando furono uno di fronte
all’altro. Laura posò la cartella e terra, l’Ufficiale la sacca da militare.
L’uomo la osservò, ansante, e posò le mani sui suoi
fianchi. Si sorrisero e si abbracciarono, forte, mentre ridevano. La gioia che
provavano era troppa per non poterla esprimere. Rimasero minuti interi in quel
vialetto, al riparo dal sole, stretti l’un l’altro.
Non si dissero nulla per tutto il tempo. Non fecero
altro che stringersi l’un l’altro.
E, felici, sorridersi.