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Autore: CamillaAngelotti    29/10/2013    0 recensioni
Una ragazza di diciassette anni, Camilla Ori, dopo essere stata trovata in una strada di montagna in situazioni drammatiche, sul punto di morte, si salva per miracolo, dopo quattro mesi di coma; al suo traumatico risveglio in un ospedale di Trento, si rende conto di non ricordare assolutamente niente del proprio passato, nonché della propria identità e si trova costretta ad accettare la convivenza con i misteri nascosti in un corpo a lei sconosciuto. Quando finalmente la situazione sembrerà migliorare, con l’inizio di una nuova vita, Camilla dovrà riuscire a lottare contro il dolore provocato da ricordi e immagini confuse del passato. La ragazza dovrà riunire tutte le proprie forze per capire chi fosse prima di essere trovata in quella strada il venti luglio del 2000, ma soprattutto dovrà imparare a guardarsi le spalle e a dare un nome alla malefica ombra che sembra non abbandonarla dai suoi ricordi più lontani…e che forse la segue ancora.
GENERE: GIALLO PSICOLOGICO
Genere: Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Era una mattina di marzo come tutte le altre, se non addirittura migliore. Il debole calore del sole, che spuntava appena dall’orizzonte, riscaldava un piacevole paesaggio di montagna vicino a Trento.
Una fresca brezza mattutina accarezzava con la sua delicatezza le chiome degli alberi, creando un’impercettibile coreografia dettata dal lento e carezzevole ritmo del dolce canto degli uccellini, che preannunciava l’arrivo imminente della primavera. Due fitti boschi si ergevano ai lati di una strettissima strada di montagna, in modo da creare un fresco mosaico di ombreggiature con le grandi chiome vivaci, trafitte dai tiepidi raggi di sole. Quasi nessuno passava mai da quella strada, ma era un luogo magnifico, che attraversava quasi tutto il bosco, ricco di piacevoli ed incontaminate distese sulle quali l’uomo si era per il momento risparmiato di mettere lo zampino.
Tuttavia, in quella giornata di primavera, intorno alle undici di mattina, una macchina passava per quella strada di montagna, che sembrava isolata dal resto del mondo; c’erano a bordo due ragazze intorno ai venticinque anni, delle quali una sembrava più grande dell’altra, ma non di molto. Era alla guida, si chiamava Luisa; a rispecchiare la sua personalità ribelle, i capelli biondi ricadevano selvaggi fin sotto le spalle mentre cantava a squarciagola, finché l’altra, seduta accanto a lei, non spense la radio con una certa irritazione volutamente evidente. Quest’ultima, di nome Viola, aveva invece un aspetto estremamente calmo e, in realtà, piuttosto triste; i capelli castani chiari e il vestitino viola la differenziavano dallo stile sportivo e semplice di Luisa, la spinta e allegra ragazza alla guida. Erano entrambe incinta e la più grande delle due, in altre parole quella bionda, che si stava godendo le note della sua canzone preferita, fulminò Viola con lo sguardo per averle interrotto il divertimento. La mora sembrò non reagire a quell’occhiata infastidita e tornò a guardare malinconicamente fuori dal finestrino, passando i polpastrelli sul pancione.
Luisa la osservò spazientita per qualche secondo, cercando di capire cosa avesse intenzione di fare, finché non frenò di colpo, alzando un gran polverone sullo sterrato:
-Non possiamo continuare così, Viola!- la rimproverò infastidita, catturando l’interesse della mora, che di colpo sussultò al gesto violento mettendo la mano sulla pancia:
-Perché hai frenato così? Sei impazzita?-
-Perché hai spento la musica? Che cos’hai?- chiese Luisa con un tono a metà fra la curiosità e il dispiacere
-Non hai più sedici anni, a volte dovresti ricordarlo- farfugliò con gli occhi bassi –Non c’è bisogno di urlare a squarciagola, non siamo in discoteca-
-Ho ventisei anni, non cinquanta! Credo che sia peggio fare come stai facendo tu… guardare fuori dal finestrino non ti porterà ad essere felice- la rimproverò la bionda con un dolce dispiacere nella voce
-Beh, forse perché a me interessa essere una brava persona, forse perché io mi preoccupo davvero degli errori che faccio e non ci passo sopra tranquillamente... -
-Se intendi accusare proprio me di non imparare dai miei errori, stai sbagliando persona, Viola-
-Ne sei sicura, sorellina?! Non penso di aver sbagliato ad accusarti di superficialità. Almeno ammetti i tuoi errori, sarebbe il primo passo per cambiare…-
-Io devo cambiare?! Non scaricare su di me i tuoi problemi, non è certo colpa mia se non sei soddisfatta della tua vita...- questa frase sembrò offendere molto la povera Viola, che urlò contro la sorella, dopo qualche secondo di silenzio:
-Parli proprio tu? I tuoi figli non hanno neppure un padre… e, dopotutto, neppure tu sai chi sia!- la offese piuttosto pesantemente, senza rendersi conto della gravità di ciò che aveva detto; doveva essere un area di conversazione piuttosto delicata a giudicare dagli occhi sconvolti e umiliati di Luisa. Il silenzio calò fra di loro, la bionda sospirò e con un gesto veloce mise di nuovo in moto la macchina, continuando a fissare il paesaggio davanti a lei e cercando forse di non mostrare le proprie debolezze. Dopo qualche minuto di silenzio, Viola si voltò verso la sorella e parlò con calma, con occhi sinceri e dispiaciuti, cercando di scusarsi per lo sfogo che aveva avuto poco prima:
-Senti, Luisa, io... non volevo, scusa... - cercò di finire la frase, ma si rese subito conto che non era il momento di discutere. Luisa sembrava strana, fissava fuori dal finestrino, immobile e rigida
-Che ti prende?- chiese la sorella piuttosto preoccupata, appoggiandole una mano sulla spalla
-Viola… credo che dovresti guardare anche tu- riuscì a mormorare debolmente, tendendo l’indice in direzione del piccolo bosco che fiancheggiava la stradicciola. Viola si guardò intorno, eppure non vide niente; c’erano alberi, solo alberi:
-Di che parli?- chiese con una leggera paura alla sorella ancora sconvolta e fissa a guardare in quel boschetto –Non vedo niente-
Luisa deglutì e socchiuse le palpebre con un sospiro, quindi indicò ancora, cercando di essere più precisa:
-Laggiù, Viola… laggiù- borbottò con la gola secca, cercando di non far tremare la voce. Viola credette che la sorella stesse scherzando, quindi inizialmente sorrise e la guardò ridacchiando. Ma si ricredette subito. Non ci volle troppo perché anche lei si accorgesse di ciò che aveva appena pietrificato la sorella; la guardò interrogativamente, in silenzio, senza parlare, come se la paura fosse diventata troppa per lasciare spazio alle parole.
Tra gli alberi, in quel paesaggio così piacevole, così pacifico e calmo, avevano appena visto una macchia bianca; inizialmente, non era altro che una lontana e confusa figura, ma subito si era fatta più chiara: era una persona. Una ragazza. Aveva una veste bianca, una specie di camicia da notte rotta e quasi interamente sporca di sangue, i capelli sporchi erano selvaggiamente sciolti sul viso, tanto da nascondere quasi gli occhi. La figura debole e traballante si fece estremamente chiara e spaventosa non appena riuscì ad uscire dal groviglio di alberi dal quale era arrivata, trascinando i piedi nudi sul ghiaino di quella piccola stradicciola. Sembrava un fantasma. Chiunque avrebbe avuto i brividi a vederla, così apparsa dal nulla, così misteriosa… come aveva potuto ridursi in quel modo? Non poteva essere reale. Entrambi le ragazze per un paio di minuti la fissarono come se, appunto, non esistesse, come se quel piccolo incubo non stesse davvero accadendo. Eppure i piedi feriti ma veloci della ragazza si avvicinavano alla macchina piuttosto in fretta; iniziò infatti ad affrettare il passo non appena si accorse della loro presenza, tentando di correre per arrivare alla macchina, probabilmente per chiedere aiuto... o per fare loro del male, al contrario. Chi avrebbe mai potuto saperlo? Viola iniziò a spronare la sorella di muoversi per tornare a casa, fingendo di non aver visto niente:
-Vai, avanti! Andiamocene via!- farfugliò cercando di mantenere quella poca calma che la paura le aveva lasciato
-No... - rispose Luisa, i cui occhi sembravano piuttosto concentrati su quella misteriosa figura bianca
-Ho detto di schiacciare quel maledetto pedale, Luisa!-
-Non possiamo lasciarla qui- disse severamente la bionda, rimproverando l’egoismo della sorella con tono fermo e autoritario
-Smettila di fare l’eroina, sai bene che in questi casi cercare di essere coraggiosi può essere pericoloso!-
-Aspetta...- mormorò Luisa con perplessità, chiedendosi quale sarebbe stata la cosa giusta da fare. Non voleva sbagliare, non voleva fare una scelta della quale poi si sarebbe pentita… e quella scelta sarebbe stata fuggire. Intanto la ragazza cercava di avvicinarsi alla macchina senza cadere, inciampando sui sassi del sentiero sterrato; non appena allontanò una ciocca di capelli dagli occhi, Luisa poté vedere i suoi occhi. Erano orribili. Orribili in quanto specchio di un dolore infinito, di un’agonia continua… il suo sguardo non faceva paura. Faceva solo pena, tantissima pena. Piangeva, le lacrime avevano scavato due righe sul viso incrostato di sangue e fango e gli occhi arrossati si guardavano intorno cercando forse di orientarsi. I capelli castani erano lunghissimi, sporchi e annodati, buttati sul viso provato dal dolore… era davvero gravemente ferita, il suo occhio destro gonfio e nero. Era stata picchiata? Entrambe le ragazze per un secondo pensarono alla possibilità di scendere e di aiutarla, credendo che non potesse fare loro del male, ma poi la figura bianca, a circa una ventina di metri di distanza dalla macchina immobile, mise la mano sotto la grande camicia sgualcita e ne tirò fuori un’ascia. Una vera ascia, sporca di sangue, tagliente... né Luisa né Viola ne avevano mai vista una così da vicino.
Luisa imprecò e schiacciò il pedale per tornare indietro, vedendo la ragazza continuare a fare loro dei gesti dei quali non riuscirono a decifrare il significato, quando decise di frenare per fermarsi ancora:
-Aspetta, Viola... dobbiamo aiutarla- mormorò, indecisa e spaventata
Effettivamente, non sarebbe mai potuta sembrare un pericolo... tutt’altro. Era completamente tagliata e riempita di lividi sul viso, sulle braccia e le gambe; la camicia da notte sembrava di almeno due taglie più grande, era quasi completamente macchiata di sangue e, rotta e sgualcita, lasciava scoprire alcune parti della pelle. C’era una scritta con il numero trecento, in nero, in alto a sinistra... sembrava stata scritta con un pennarello, a mano. Le gambe erano completamente tagliate, il sangue usciva ancora; erano ferite fresche. Sembrava essere passata attraverso un rovere, i tagli erano numerosi e i piedi erano incrostati di sangue e terra, pieni di lividi e di ferite. Camminando sul sentiero sterrato, aveva lasciato una scia rossa sul terreno e probabilmente i sassi non aiutavano i piedi doloranti; come se tutto quel dolore non fosse abbastanza, due grandissime macchie di sangue ancora fresche si notavano all’altezza dello stomaco e del petto, dove la ragazza stava tenendo premuta la mano sinistra. Nonostante quelle terribili condizioni, sembrava trovare ancora un barlume di speranza di essere aiutata, usando le sue ultime forze per raggiungere la macchina, ma le ragazze non sapevano minimamente come avrebbero reagito se si fosse avvicinata ulteriormente e le avesse raggiunte. Stavano solo a guardare, non avendo abbastanza coraggio per aprire gli sportelli, ma neppure per andare via facendo finta di niente, trascinandosi a vita un enorme peso per non averla aiutata.
Luisa si decise ad ignorare qualsiasi esitazione e con un grandissimo atto di coraggio, sentendo il battito salire a mille per la tensione del momento, aprì lo sportello della macchina; un leggero venticello le smosse i capelli, e un grandissimo senso di angoscia l’assalì non appena vide la ragazza da vicino: non sembrava neppure umana ed era difficile sorgere della pelle pulita nel suo corpo distrutto e accasciato sulla strada… Luisa sentiva il bisogno di andarle incontro, ma aveva sempre un’ascia in mano e non avrebbe mai avuto il coraggio di tentare di aiutarla quando avrebbe potuto ricevere la morte come ricompensa. Tuttavia la fissò piena di compassione, mentre piangeva e cercava disperatamente di parlare, le ginocchia nude buttate sul ghiaino e le mani che ricadevano arrendevoli sulle cosce.
Probabilmente capì il motivo dell’esitazione delle sue “soccorritrici”, perché, dimostrando una grandissima forza e volontà d’animo, si alzò sulle povere ginocchia tagliate e buttò l’ascia in terra con un goffo movimento tremante. Si guardò piena di terrore ripetutamente all’indietro, tentando di spiegare qualcosa a Luisa; con le poche forze che sembrava le fossero rimaste, fece con la mano destra il simbolo del telefono e l’appoggiò all’orecchio, chiaramente pregando chi aveva davanti di chiamare qualcuno per chiedere aiuto. Cercava di parlare, ma tremava così tanto che dalla sua bocca uscivano solo disperati gemiti e suoni gutturali privi di senso. Ormai fra Luisa e la ragazza c’erano solo un paio di metri, ma l’insicurezza e l’indecisione bloccavano entrambe; l’una per l’indecisione su come comportarsi, l’altra per la poca fiducia che probabilmente tutti i dolori le avevano lasciato.
Luisa lanciò alla sorella uno sguardo serio, determinato e convinto, per farle capire di stare tranquilla e di chiamare ambulanza e polizia, dopodiché sussurrò un debole “va tutto bene”, forse con l’intento di rassicurare paradossalmente più se stessa che la ragazza sul punto di morte davanti a lei. Scandì bene le parole:
-Puoi capire la mia lingua?- con uno sguardo straziato la ragazza ferita annuì, così Luisa prese carta e penna dalla propria borsa e si avvicinò ancora di più, senza però osare toccarla e voltandosi continuamente per tenere l’arma sotto controllo:
-Come ti chiami?- La ragazza tentò inutilmente di aprire la bocca, ma, per quanto si sforzasse, non uscivano parole dalle labbra screpolate e ghiacce
-Non puoi parlare?- insistette Luisa; la ragazza fece di no con la testa e allungò il braccio, così Luisa le dette un foglio, in realtà il retro di una vecchia ricevuta che aveva in borsa, perché tentasse di scrivere qualcosa. Oh, era orribile vedere quelle povere mani tremanti cercare inutilmente di tener ferma la penna! Ci provava con tutto l’impegno del mondo, impugnava la penna e tentava di scrivere, ma le ricadeva subito dalla mano debole e tremante… ci stava mettendo tutte le sue forze, ma non era abbastanza. La camicia da notte era completamente bagnata, il corpo livido e ghiaccio, mentre le labbra viola tremavano tentando di pronunciare delle parole. Dopo aver provato più volte a scrivere, con due grossi lacrimoni che le rigavano le guance buttò in terra il foglio, sconfitta, ma Luisa si accucciò e glielo porse nuovamente, incitandola:
-Avanti, puoi farcela- La figura bianca mugolò e tentò ancora di afferrare la penna… era forte, si vedeva. Era un animo potente intrappolato in un dolore lancinante, ma non si sarebbe arresa, i suoi occhi riflettevano un cuore battagliero, vincente. E così, in una scrittura da prima elementare, stavolta scrisse sul foglio “300”. Un numero. Luisa cercò di sorridere per nascondere la paura che stava provando:
-No, io ti ho chiesto il nome… io sono Luisa, tu come ti chiami?- la ragazza annuì di nuovo e, vedendo lo sguardo incerto di Luisa, le mostrò il numero sulla camicia da notte. Quella ragazza non aveva un nome. Chi era? Cosa le era mai successo? Luisa ebbe una mezza idea di tornare in macchina e scappare, ma non lo fece, quindi si limitò ad annuire e a chiederle altre informazioni:
-Sono molto gravi le tue ferite?- sebbene la domanda fosse banale, la ragazza assentì con un piccolo fioco suono della voce, alzandosi la camicia con le mani tremanti e mostrando una grande ferita sullo stomaco e un’altra sull’addome, proprio dove si trova il cuore, a sinistra; la prima era molto profonda, la seconda probabilmente un po’ meno, cosa che le aveva permesso di restare in vita. E il dolore sembrava tremendo a giudicare dallo sguardo della ragazza, che fra le lacrime rosse e fredde continuava a premere su entrambe le ferite
-Conosci il nome della persona che ti ha fatto del male?- chiese Luisa, trattenendo a stento la nausea. A quella domanda, la ragazza sembrò spaventarsi ancora di più di quanto potesse mai esserlo, si girò in fretta all’indietro e iniziò a respirare affannosamente, quindi Luisa cercò di tranquillizzarla, facendola sdraiare sulla stradina e tentando di aiutarla con la respirazione. A quel punto Viola, finalmente, con passi lenti e accorti raggiunse la sorella:
-Dove si trovano le persone che ti hanno fatto questo?- non ci fu risposta. Luisa provò molta pena per quella giovane ragazza e si mise a piangere, scaricando la tensione accumulata:
-Ti prego, devi avere coraggio!- dopo aver detto di no più volte, probabilmente per far capire che non poteva parlare, infine tentò di spiegare, prese il foglio e scrisse il nome “Matilde”.
-Oh, Matilde è il tuo nome! Ok, Matilde, a breve arriveranno i dottori e andrà tutto bene... sei stata rapita?-.
Ancora la reazione fu la stessa. Continuava a negare, ma… perché?  Indicò goffamente il bosco, riabbassando subito il braccio per il dolore e tornando a premerlo sullo stomaco. I suoi gesti non erano chiari, aveva troppa paura, i muscoli erano troppo deboli… eppure aveva ancora un po’ di speranza, cercava di dire qualcosa, di spiegare cosa le fosse successo; ma, forse, si trattava di una storia troppo complicata anche per lei stessa.
-So che stai molto male, ma devi scrivere il nome della persona che ti ha fatto del male qui... conosci il suo nome?- la risposta fu positiva, ma lo sguardo era straziato, la ragazza si guardava indietro e piangeva, mugolava, farfugliava suoni che forse sarebbero dovuti essere parole sensate. I suoi occhi erano gli occhi più terrorizzati che le due sorelle avessero mai visto… quelle iridi marroni erano impregnate di paura e dolore, cercavano aiuto, cercavano una via di salvezza. Eppure rimanevano aperti, nonostante i lividi rendessero anche solo un piccolo movimento della palpebra più doloroso che mai… quella ragazza era pronta a lottare. Sembrava che temesse di essere osservata, muoveva la testa in modo strano e gli occhi si muovevano pieni di lacrime ovunque intorno a lei, come se aspettasse qualcosa… se si fosse calmata, sarebbe forse riuscita ad esprimersi, ma non faceva altro che smaniare cercando di spiegare qualcosa di probabilmente indispensabile alle ragazze. Tremava come né Luisa né Viola avevano mai visto qualcuno fare, le misero una giacca sulle spalle. Era bagnata e completamente ghiaccia, così Viola finalmente trovò il coraggio di usare la propria voce:
-Sei tutta bagnata… sei caduta nell’acqua, per caso?- stavolta la ragazza annuì e sembrò quasi sollevata di essere finalmente riuscita a far capire alle ragazze una delle tante cose che aveva bisogno di dire.
-Hai paura di qualcuno in questo momento?- con ansia la ragazza indicò il foglio -Hai paura di quella persona? Sei spaventata da chi ti ha fatto questo?-.
Matilde riprese nuovamente in mano la matita, tracciò finalmente una riga, poi si bloccò, gli occhi si spalancarono, la bocca si aprì in un lamento di dolore, le mani tremanti iniziarono a premere sulle ferite, ma soprattutto si strinsero sul petto, dal quale stava uscendo troppo sangue; probabilmente non ce l’avrebbe fatta. Le rimanevano gli ultimi minuti di vita.
Le due sorelle si resero conto che la ragazza, per il dolore, non avrebbe potuto parlare, né tentare di scrivere ancora o di interagire minimamente con loro. Da seduta, si buttò in terra senza respirare, stringendo le mani intorno al collo, come se si sentisse soffocare. Divenne completamente bianca in viso, il sangue non sembrava scorrere più nelle sue vene… era ghiaccia e tentarono di riscaldarla con dei vestiti ma non sembrava servire a niente. La ragazza con le mani cercava aiuto, come se si sentisse cadere, e tentava di trovare aria, rantolando. Viola scoppiò a piangere, non aveva mai visto una cosa del genere e non aveva idea di come comportarsi; Luisa sbiancò per la paura, ma non disse nulla e cercò inutilmente di riscaldarla e di aiutarla in tutti i modi possibili, sperando che l’ambulanza arrivasse in fretta. Sarebbe morta fra le mani delle due sorelle… sarebbe morta a minuti. Furono prese da un panico inimmaginabile e iniziarono a urlare per avere aiuto, piene di ansia e paura, finché, finalmente, non sentirono il rumore dell’ambulanza, portatore di speranza, ma, allo stesso tempo, di sofferenza.
Arrivò subito un dottore, le ragazze spiegarono l’accaduto in poche parole, mentre Matilde veniva messa con cautela sul lettino dentro il veicolo. Viola e Luisa furono costrette ad andarsene, furono entrambe allontanate, quindi, piene di paura, si abbracciarono e rientrarono in macchina. Lasciarono il numero al dottore, perché le avvertisse per sapere se la ragazza ce l’avesse fatta o no... ma la risposta sembrava praticamente già ovvia: Matilde non sarebbe rimasta in vita. Le due sorelle si allontanarono con un nodo alla gola, si sentivano in qualche modo legate all’accaduto, responsabili di quello che sarebbe successo. Tentarono un’ultima volta di entrare nell’ambulanza, ma gli fu ordinato di tornare a casa e di andare dalla polizia, spiegando l’accaduto. Il dottore le salutò educatamente, mantenendosi calmo, probabilmente abituato a situazioni simili e le ringraziò con la mano per il gesto coraggioso. Si voltò verso la ragazza e tentò di nuovo:
-Cerca di scrivere il nome... - Matilde si sforzò di tracciare un’altra linea, ma era storta e i segni confusi non avevano alcun senso. Cercò di riaprire la bocca e stavolta riuscì a pronunciare un suono simile alla lettera B, così il dottore le si avvicinò, con occhi speranzosi:
-Lettera B? Intendi la B, B di Bologna?- fra le deboli lacrime, annuì per l’ultima volta, riuscì a far uscire un minimo suono dalla bocca, cercando di far capire la parola, ma il suo modo di parlare era troppo confuso, capire sarebbe stata un’impresa più che ardua. Matilde iniziò a dimenarsi, a fare gesti, ma tremava, era debole e non poteva dire parole di senso compiuto... quando ormai forse stava per riuscire a dire il nome, iniziò a tossire, il battito cardiaco aumentò considerevolmente, così disse, dando la mano al dottore:
-Do... dovete... cercarlo-
-Chi? Chi?-
-Lui cerca... me... - socchiuse gli occhi lentamente, le uscirono due grandi lacrime dagli occhi gonfi e rossi, con la mano raggiunse il viso del dottore e lasciò una piccola carezza, quindi trovò le ultime forze per parlare:
-Io non sono... ca... cattiva, ma... lui mi cer... cerca ancora- mormorò con tono sofferente, mentre le palpebre si abbassavano
-Avanti, Matilde, resisti, arriveremo a breve...-
-Sono... stanca...- mormorò con un’altra lacrime, appoggiando la testa ferita al piccolo cuscino
-No, no, non devi addormentarti... puoi farcela, devi combattere, devi combattere!- la spronò il dottore, con speranza, tenendole la testa rialzata. Ma la ragazza era distrutta, sentiva queste parole molto confuse e  riuscì con l’ultimo respiro, a mormorare un debole, fioco “No...” e fu così che appoggiò ancora la testa al cuscino, lasciando che le palpebre si richiudessero. La mano ricadde sul materasso, magra e fredda, due lacrime amare le rigarono le guance sporche di fango, il corpo distrutto dal dolore e dalla sofferenza rimase immobile. I battiti scesero a zero, un pallido da morta le cadde sul viso, togliendo la vita da quel debole corpo.
Iniziarono le scariche elettriche. Niente. Ci fu un secondo tentativo: nessun risultato. Era morta. Il dottore fece una smorfia di dolore:
 -Non ce l’ha fatta- Il viso mostrava tanto dolore subito, le ferite erano tanto profonde... la sua vita era finita lì, per sempre. L’ambulanza mise la sirena, iniziò a dirigersi in fretta verso un ospedale... ma ormai ogni speranza era persa, sembrava quella ragazza avesse sofferto troppo per riuscire a rimanere in vita.
Non fu così, invece. A volte ciò che si pensa sia ovvio accadere, ciò che è chiaro agli occhi di tutti, non avviene, e fu proprio così che successe in quel caso. Quella ragazza, per destino o per pura fortuna che fosse, riuscì a sfuggire ad una morte che sarebbe sembrata inevitabile. Il cuore non aveva smesso di battere per sempre, perché già fin da quel momento si era dimostrato forte e pronto a combattere, un cuore potente, che non si fa abbattere dalle difficoltà... un cuore che aveva sofferto, che aveva tante cicatrici, ma che era ancora pronto a difendersi. Quella misteriosa ragazza apparsa dal nulla non era morta, ma in coma. Riaprì gli occhi solo quattro mesi dopo in un ospedale, vedendo offuscatamene i dottori in un luogo sconosciuto, senza ricordare niente. Senza avere la minima idea di chi fosse, senza saper parlare, senza saper fare qualsiasi altra cosa. Sola.  Confusa. Senza sapere chi fosse lei stessa o cosa le fosse successo... quella ragazza aveva dimenticato tutto, e per lei un grande incubo era appena cominciato. Quella ragazza ero io.

 
  
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