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Autore: watch me burn    23/11/2013    2 recensioni
Chi è June Curtis? June è una ragazza confusa, spaventata, che sta scoprendo il mondo e sta scoprendo, sulla sua pelle, che la vita, quando ci si mette, sa essere veramente bastarda.
Sean, invece, è fighter, un pugile. Ed è semplicemente il ragazzo più straordinario che lei abbia mai conosciuto. E' colui che la capisce meglio di tutti, colui che con un sorriso spegne tutti i suoi incubi.
Vi presento June, vi presento me.
Genere: Fluff, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 11 – Casa
 
Ma come può un cuore innamorarsi di una persona che, già dal principio, si sa che non sarà in grado di amarti? Insomma, com’è possibile essere così masochisti?
Eppure io lo sapevo, lo sapevo che lui non mi avrebbe amato come avrei voluto io, sapevo che era troppo concentrato sulla sua carriera (e come biasimarlo?) per amare me. Anche se, in un certo senso, mi ama.
«L’unico amore che adesso posso darle è quello per questo sport».
Ma che cosa vuol dire? Che mi ama, ma non può farlo, oppure che non mi ama e non mi vuole amare?
Eppure… Eppure quando sono con lui è tutto diverso. Lo vedo che quando è con me non si comporta come con le altre ragazze e non lo dico solo perché sono innamorata persa, lo dico perché è così. Lui con me ride, scherza, è come se fosse spensierato quando è con me, è come se riuscissi a fargli scivolare via tutte le paure e le insicurezze.
«Lui non sorride molto, ma quando ci sei tu… si illumina» mi aveva detto qualcuno ed era incredibilmente vero.
E questo, quando lo vedo, mi basta.
Si può vivere interamente per un sorriso? Il suo sorriso. Cercarlo sempre, tra la folla, in mezzo agli sguardi, girarsi per strada quando un uomo ti passa accanto e porta un profumo così simile al suo. La vita può girare intorno ad una sola persona?
 
«Un giornalista? Che diavolo ci serve un giornalista?» domandai alla mia compagna di banco, mentre lanciavo il diario nello zaino e sbuffavo scocciata.
«A me chiedi? Non ne ho idea» s’interruppe, persa nei suoi pensieri «dovevamo fare una specie di corso di scrittura, mi sembra che ne parlavamo a inizio anno» mi spiegò.
«A inizio anno» sottolineai io, «siamo a febbraio» e, sottolineando quest’ultima parola, vidi la mia compagna di banco scoppiare a ridere, poggiando la fronte sulla mia spalla e singhiozzando dalle risate.
«Chiara, che ho detto mò?» e la risposta che ricevetti fu una risata ancora più forte.
«E mai possibile che niente ti va bene?» tossì lei, cercando di smetterla di ridere «effettivamente ne abbiamo parlato un po’ in anticipo»
«un po’? Per una come me che non ricorda nemmeno cos’ha mangiato ieri a pranzo è decisamente troppo tempo!» esclamai, ma venni interrotta dalla porta che sbatteva e dall’entrata in scena della prof di filosofia che si spostava, con un movimento plateale, la chioma di capelli tinti e rossi che le era ricaduta sulla spalla.
«Che montata» sospirai io, nel vedere il luccichio dei suo settecento braccialetti che le arrivavano quasi fino al gomito e la collana pacchiana e dal gusto alquanto discutibile, che portava al collo. Chiara sorrise aprendo il libro di filosofia su Platone e provando ad iniziare a prendere appunti.
Il giorno dopo, di certo, non fu più luminoso e bello degli altri. Quel giorno iniziammo quel corso di scrittura con quel maledetto giornalista che, a dirla tutta, mi stava già antipatico a priori. Perdemmo tempo a ciarlare di cose assolutamente inutili ed ovviamente trascurabili, ma non importa. La cosa preoccupante avvenne al secondo incontro con l’uomo che, a fine lezione, ci chiese di scrivere un testo su qualcosa di importante che ci circonda: una società, un gruppo di cantanti del paese, un personaggio famoso che conosciamo… Ed io, ovviamente, trovai subito di chi scrivere, anche se non sapevo se avrebbe accettato.
Quella sera, in palestra, mi costrinsi a chiederglielo.
Presi coraggio, mi avvicinai a lui e prendendolo per il polso lo portai leggermente in disparte e gli chiesi se potevo scrivere un articolo su di lui.
Sean sorrise.
«Certo che puoi» posò gli occhi su di me, prima di alzare lo sguardo e farlo scattare da tutte le parti, «se vuoi vengo da te domenica pomeriggio. Così magari lo scriviamo insieme».
Insieme.
«Certo, nessun problema» balbettai e, schioccandogli un bacio sulla guancia, me ne andai saltellando come una bambina rincoglionita e lui sorrise.
Non c’è niente di più bello del suo sorriso.
Avete mai l’impressione di essere nati per fare qualcosa? Qualcosa nel quale siete davvero bravi. Ecco, io inizio a pensare che la cosa nella quale sono brava sia farlo ridere.
 
Per me, ormai, c’era solo domenica. Non vedevo l’ora che arrivasse quel pomeriggio.
Sabato passò in fretta e domenica arrivò. Mi feci la doccia, mi preparai per bene, misi apposto casa e lo aspettai. O meglio, fingevo che non mi interessasse di quando sarebbe arrivato, ma in realtà camminavo su e giù, nervosa.
“Sto arrivando” lessi, quando lo schermo del cellulare si illuminò. Ero talmente tanto agitata che non sapevo cosa fare, ma non ebbi nemmeno tempo di pensare che il cellulare iniziò a suonare: «Just gonna stand there and watch me burn that's alright because I like the way it hurts, just gonna stand there and hear me cry that’s alright because I love the way you lie… Merda, dovrei rispondere» dissi, dopo aver smesso di cantare e passai un dito sullo schermo, avviando la chiamata.
«Ce ne hai messo di tempo per rispondere» mi rimproverò dolcemente lui. Arrossii.
«Ehm, si scusa. Avevo il telefono lontano» tossii, imbarazzata. Ma perché ero imbarazzata? Non era mica la prima volta che mi chiamava, eppure… «be’, quindi? Dove sei?» mi affrettai a dire.
«Se ti affacci alla finestra mi vedi» sorrise lui. Feci come mi aveva detto, mi affacciai e lo vidi lì, poggiato alla sua auto scura, che mi sorrideva. Pensavo di svenire all’istante. Scossi la testa e corsi giù, da lui. Aprii il cancello e rimanemmo lì, a fissarci per dei secondi che parvero interminabili. Poi lui mi si avvicinò e ci abbracciammo.
Dio solo sa quanto avevo bisogno di quel contatto, di quel calore che solo lui sapeva trasmettermi. Era proprio vero che tra le sue braccia mi sentivo a casa. Lui mi sorrise, mi schioccò un bacio tra i capelli ed insieme salimmo a casa mia. Lui si tolse le scarpe ed entrò, si sfilò la giacca blu e l’abbandonò sulla sedia in cucina e si mise a sedere sul divano, invitandomi a sedere accanto a lui. Io mi sedetti dall’altra parte del divano, il più lontano possibile da lui perché non volevo cedere, non quel giorno, non volevo cedere a lui.
Sean mi sorrise e scivolò più vicino a me, mentre stavamo parlando. Poi mi prese per le spalle e mi tirò a lui ed io, in quell’instante, capii che non ero in grado di resistergli. Lui mi abbracciò e prese ad accarezzarmi i capelli, a baciarmi la fronte. Restammo così, nel silenzio più totale, ma non c’era imbarazzo anzi, tutt’altro. Ero appoggiata al suo petto e lo vedevo alzarsi ed abbassarsi ritmicamente, sentivo il suo respiro sui miei capelli, il battito del suo cuore ed il suo profumo mi riempivano la testa. Dio, il suo profumo.
«Hai un profumo buonissimo» sussurrai io, temendo però di rovinare quell’istante così bello. Lui sorrise e mi strinse ancora di più «ah sì?» chiese ridendo ed io scoppiai a ridere. Poi lui mi posò una mano su un fianco e l’altra dietro la schiena e mi obbligò a distendermi insieme a lui, accanto a lui.
Sean stava con la schiena premuta sullo schienale del divano, mentre le sue braccia mi cingevano il corpo, stringendomi al suo petto ampio. Intrecciammo le nostre gambe ed io chiusi gli occhi, volendo ricordare per sempre tutto questo. Ogni tanto parlavamo e ridevamo, ma sprecavamo solo poche parole, probabilmente perché era troppo bello quello che stavamo vivendo. D’un tratto ci rimettemmo seduti, non so chi per primo l’ha voluto, ma rimanemmo sempre abbracciati. Poi lui mi prese le gambe e le appoggiò sulle sue.
Brividi.
Mi abbracciò ancora, mi tenne stretta a lui e mi riempì di baci. Sulla fronte, sulle guance, sul naso, sul collo, sulla spalla e poi di nuovo sulla fronte, sui capelli e nuovamente sulla fronte.
«Ti basteranno tutti questi baci?» bisbigliò, guardandomi.
«Lo sai che non sarà così» risposi, accarezzandogli una guancia.
Decisi di svoltare la conversazione ancora più su di noi, su quello che potevamo essere.
«Lo sai che non è che non voglio stare con te» sospirò lui, guardandomi fissa «semplicemente non mi è possibile, non ancora», sentivo il calore della sua mano mentre mi accarezzava la schiena.
Io sorrisi, amareggiata, spostando lo sguardo dai suoi occhi ed in quel momento lui se ne accorse. Si accorse che c’era qualcosa che mi premeva dirgli, una domanda che mi perseguitava i pensieri, ma che non avevo il coraggio di fargli ed ancora adesso non so come se ne sia accorto. Lui mi legge dentro.
«Avanti» esordì lui continuando a fissarmi «dimmi che c’è»
«Niente» esclamai, voltandomi per un breve istante verso di lui.
«Non è vero» mi rimproverò «lo so che non è così. Dimmi che hai, ti prego» si addolcì lui, accarezzandomi una guancia e prendendomi il mento tra le dita, obbligandomi a guardarlo negli occhi.
Io sospirai quando incrociai il suo sguardo e là cedetti, di nuovo.
«Okay» alzai lo sguardo verso i suoi occhi «dimmi: non vuoi stare con me o non vuoi me?» gli domandai, sottolineando quel “me”. Lui mi fissò, serio. Poi un sorriso gli comparve sul volto.
«Non posso stare con te, lo sai perché…» poi aggiunse ancora qualche frase sconnessa che non ascoltai.
Non sa nemmeno lui che dire – pensai, triste.
«Ehi» sussurrò lui, sorridendomi, ma io mi alzai e andai verso la cucina. Mi appoggiai al bancone e bevetti un sorso d’acqua. Lui mi seguì, mi prese per i fianchi e mi fece girare, obbligandomi a guardarlo.
«Ehi» ripeté «non fare così», ma io abbassai lo sguardo. Lui mi prese il viso tra le mani e mi costrinse a fissare i miei occhi nei suoi.
«Me lo fai un sorriso?» mi chiese, sorridendomi ed io mi sciolsi.
«Ecco, così» disse, carezzandomi una guancia e stringendomi a sé.
Ancora tristemente amareggiata mi sedetti al tavolo della cucina, accanto a lui e lo ascoltai parlare.
«Non prendi appunti?» mi domandò d’un tratto.
«Dovresti aver imparato che per le cose che mi interessano ho un’ottima memoria» gli sorrisi, mentre lui si grattava una guancia non rasata.
Speciale. È speciale, per tutto quello che è, che ha passato e che ha fatto per me.
Probabilmente è proprio in quei giorni che mi sono innamorata di lui.

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Angolino Autrice:
Bhaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa chiedo umilmente perdono per questo mio imperdonabile ritardo T.T Colpa della scuola, degli allenamenti... Della vita.
Regge come scusa? aahahaha no ok, davvero.. mi dispiace..
Ma tanto non c'è quasi nessuno che recensisce questa storia *si dispera nell'angolo*
ma comunque voglio ringraziare le (poche) persone che mi seguono: grazie, voi mi date la forza di continuare.
Godetevi la storia e, se volete lasciare una recensione, non vi mangio mica :3
a presto: watchmeburn 
 
  
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