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Autore: tortuga1    24/11/2013    1 recensioni
Gli uomini e le donne sono spesso lontani pur vivendo vicini, così tanto da avere difficoltà ad incontrarsi. Pensando a questo mi è venuta l'idea di SPLIT, una storia ambientata in un futuro possibile, nella quale uomini e donne sono stati separati per un esperimento che aveva il fine di salvare l'umanità dall'estinzione. Ma qualcosa non è andato per il verso giusto, e alla fine del viaggio uomini e donne non si sono più incontrati...
La storia comincia così, nella comunità di sole donne che ha colonizzato come previsto il pianeta Terra Due, e da secoli ormai ripete un rituale di clonazione.
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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XIII.

 

È tornata in meno di mezz’ora, fresca nella tuta pulita, e si è seduta davanti allo schermo, appoggiando i gomiti sul piano della mensola. Le sembra di stargli più vicina, così.

- Fammi capire… loro non sanno più niente dell’umanità, perché lo ha deciso una di voi?

- Sì, è stata Elizabeth. Lei… è morta.

- Come tutte le altre, morta e rinata, no?

- Lei no, non ha voluto essere reimpiantata. È stata ferita durante… la guerra. Questo Ester me lo ha detto. E allora prima di morire ha dettato le nuove direttive, e ha incaricato Miko e le altre due di farle rispettare.

- Chi sono le altre due?

- Helga e Francesca. Le loro linee. Quando ero piccola non capivo perché le avevano prese, quelle due. Nessuna specializzazione, solo capacità generiche. Ora invece capisco. Sono la squadra di sicurezza. Hanno le armi e se necessario…

- Che altro ti ha detto Ester? È importante, cerca di pensare… – Paula contrae i lineamenti, cercando di reprimere le lacrime. È passato troppo poco tempo.

- Mi ha raccontato della Terra, e a me sembrava una favola. Delle antiche civiltà, della storia della medicina. Mi ha detto che gli uomini non erano i nostri nemici, vivevano in pace insieme alle donne. E poi una cosa stupida, ma ha aspettato gli ultimi dieci minuti per dirmela. Non aveva più fiato.

- Dai, dimmelo cosa ti ha detto.

- Che diritto hai tu di sapere queste cose, e poi è una sciocchezza. Per me è diverso, sono le sue ultime parole…

- Per favore. – Paula lo guarda con durezza, ma l’espressione di Sebastian la calma. È strano, ha l’impressione di essere davanti ad uno specchio, ora lui sembra soffrire come soffre lei, ha gli occhi lucidi, ed è sicura che non sta fingendo.

- Te lo dirò. Ma tu non ridere. Mi ha detto che la missione consisteva nel rifare l’umanità, e noi ci saremmo… unite agli uomini, e avremmo avuto… figli.

- Cosa c’è da ridere? Mi sembra una cosa ragionevole, non credi?

- Sì! Come no! – tamburella nervosamente con le dita sul piano della mensola. – mi ha detto pure che tutte le cellule staminali degli uomini sono andate distrutte, e per questo Eli aveva deciso di dettare le direttive. Per dimenticare, per dimenticarvi.

- Continua. – la guarda attentamente, gli piace quando lei muove le labbra per articolare le parole, il suono leggero del suo respiro nel microfono, gli piace tutto di lei.

- Come… sai che c’è dell’altro? Stava morendo, vaneggiava di sicuro.

- Forse vaneggiava. Cos’ha detto? Coraggio, è importante che tu me lo dica.

- Mi ha fatto giurare di non dirlo a nessuna, a nessuna di noi.

- Io non sono una di voi. Io sono un altro.

- È... vero. Ma sono rimasta delusa. Ha detto che era questa la conoscenza più importante, che doveva aiutarci a lottare, a vincere le difficoltà. E poi, che delusione.

- Perché, delusione? Che ha detto?

- Ha detto che la missione non è fallita. Solo questo, questa sciocchezza. Mi ha delusa perché non era una cosa nuova, era una vecchia favola che mi raccontava da bambina, ma questa volta, povera Ester, credeva di dirmi una cosa essenziale. Lo ha ripetuto un paio di volte per essere sicura che io l’avessi capito bene, poi è morta.

- Senti. Se mi prometti di non dire niente a nessuna, ma davvero niente, ti confido una cosa.

- Te lo prometto. Cosa vuoi dirmi?

- Che la missione non è fallita, e io so perché.

Ester si è lavata con cura, la sporcizia di tanti giorni le sembrava disgustosa, e ancora di più i segni bluastri delle corde sulle braccia. Solchi profondi e lividi, e, miracolo, nessuna lesione. Maledette carogne, però efficienti come macchine. Per la verità è stata tutta opera di Miko, le altre forse l’avrebbero uccisa per eccesso di zelo. E infatti la carogna le sorvegliava e non permetteva che fossero loro a toccarla, nemmeno per darle da bere. Si ritrae dallo specchio dove si era attardata, il corpo magro è ancora abbastanza tonico, solo le spalle cominciano ad incurvarsi un po’. Dovrebbe fare ginnastica, ma a che cosa servirebbe? Forse sarebbe meglio fare esercizio in modo più utile, per esempio nella serra. L’unico problema è che per arrivarci bisogna fare un tragitto ad ostacoli, in gran parte all’esterno della nave. La serra la curavano gli uomini, mentre le donne si dovevano occupare dell’arte e della letteratura. Catalogare la cultura umana, scegliere a cosa dare priorità, fondare le basi per un nuovo sistema d’istruzione. E invece, tutto cancellato, che rabbia, che peccato. A lei era toccato il teatro, lo aveva studiato profondamente e tante cose le erano rimaste incollate alla memoria. Ora tutte quelle informazioni sono perdute, ed è proibito anche solo pensarci. Quando le hanno prese, lei, Emily e le altre quattro, stavano cercando una via d’uscita. Una, Judith, aveva suggerito di copiare di nascosto le informazioni, usando tutti i dischi ottici che avessero potuto trovare, però Emily aveva calcolato che alla velocità di scrittura massima ci sarebbero volute comunque un paio di settimane. Troppe, quando già le cercavano con l’interfono, dato che non si erano presentate alla riunione convocata da Miko. Allora Stephy, bionda e delicata nonostante i suoi sessant’anni, aveva ricordato un vecchio film, nel quale la cultura distrutta dalla dittatura veniva conservata con la tradizione orale. Ma lei, Ester, aveva risposto che facendo così avrebbero salvato solo una decina di opere, quelle che ricordavano a memoria. E poi le avevano prese, separate e rinchiuse da sole negli armadi dei cavi, a meditare sulle direttive. Forse la proposta di Stephy non era poi così male. Indossa la giacca della tuta e guarda nel nascondiglio segreto dietro l’alloggiamento del computer. Una fessura strettissima dove nessuna è andata a guardare, bene, la scheda c’è ancora. Non si può più collegare a niente, tutte le consolle multimediali sono state distrutte. Pazienza, in qualche modo si farà, prima o poi. La scheda ha due forellini ai lati, ci passa benissimo il laccetto di cuoio che Ester teneva legato ad un polso, in ricordo di un giorno lontanissimo sul pianeta Terra. Annoda il laccio e mette la scheda al collo, è piatta e da fuori non si vede. Basterà una generazione e nessuno saprà più cos’è, salvo la sua linea. Per la prima volta sorride allo specchio, sembra più giovane quando sorride, tira su la zip ed esce nel lungo corridoio degli alloggi. È di nuovo libera, come se nulla fosse successo, e fra dieci giorni dovrà cominciare il primo impianto. Bussa alla prima porta alla sua sinistra, aspetta con pazienza, Tania certe volte impiega un certo tempo per rispondere. Finalmente la porta scorre, compare Tania. Ester fa un passo indietro e reprime un grido.

- Sono così messa male? – la voce di Tania è alta e stridula, sembra strano che sia rimasta uguale, mentre la sua faccia…

- … no. – Ester la guarda con attenzione e sospira di sollievo. Solo ecchimosi e gonfiori, nessun osso è rotto, l’occhio non è perduto, fra un paio di giorni si potrà aprire di nuovo. Il labbro è spaccato, però guarirà. – no, fai solo impressione, sembri una bistecca al sangue.

- Lo so, cazzo.

- Però la buona notizia è che tornerai come prima, più o meno. Ci vorrà un po’ di tempo.

- Pazienza. – si tocca il labbro gonfio con una mano livida, e abbozza una smorfia. – dai, entra. Non vorrei che…

- Ma no, hanno ottenuto quello che volevano. Hanno cancellato tutto, e noi ora possiamo scegliere: morire ammazzate o andare d’accordo con loro. Il risultato è lo stesso, non cambia niente. Miko me lo ha detto chiaro, ed è peggio di qualunque cosa.

- Non lo so cos’è peggio, forse a te è andata bene. Miko mi ha lasciata nelle mani di quelle pazze. Mi hanno… – rabbrividisce e preme le mani contro il petto – non voglio nemmeno pensarci, a quello che mi hanno fatto.

- Chi erano?

- Helga, sapevo che era lesbica, ma non pensavo che arrivava a questo… e poi Francesca. Io ero sua amica, che stupida, parlavo con lei, certe volte si sentiva sola e veniva a trovarmi. E anche lei… – la voce di Tania si spezza, si mette a singhiozzare senza lacrime. Ester le appoggia una mano sulla spalla.

- Non fare così. Sono venuta per dirti che l’idea di Stephy è sempre meglio di niente. Ricordare e raccontare. Però dobbiamo stare attente, non credo che ci siano solo Francesca ed Helga, forse le sorveglianti sono di più. Non dovremo fidarci di nessuna, solo di quelle del gruppo.

- Judith è ancora dentro. E anche Emily. Le ho cercate, le loro stanze sono vuote. Naomi è uscita, l’ho vista di sfuggita ma ho avuto paura di parlarle. E Stephy… è stata lei a non volermi parlare. Mi ha guardata come se fossi trasparente e mi ha chiuso la porta in faccia.

- Tu… – Ester respira profondamente ed esita, è ancora in tempo per non farne niente. Ma no, in fondo è l’unica speranza. – tu ci credi nella missione?

- Io… ma che domande mi fai! Certo che ci credevo! Perché mi sono offerta volontaria, sapendo quello che mi aspettava? Avrei potuto finire il mio ciclo prima del collasso, fare l’amore, godermi ancora per un po’ le piante del mio giardino. E invece sono qui. Ci credevo, cazzo, ed è fallita!

- Non è fallita.

- Sei pazza. Ti ha dato alla testa lo stanzino buio, dai i numeri.

- Non è fallita. Guarda. – apre la zip della tuta e mostra la scheda, appesa al collo con il laccetto di pelle. Tania la guarda da vicino con l’occhio sano, poi si lascia andare sul divano.

- E questa cosa sarebbe, una bomba per fare scoppiare quelle stronze?

- No, è una scheda che mi ha lasciato uno… degli uomini.

- Quanto sei cretina. E tu mi dici che la missione non è fallita, solo perché uno di quei bastardi ti ha lasciato una scheda da videogioco? Senza consolle è solo un pezzo di plastica, non è buona nemmeno per pulircisi il culo.

- Non è di plastica, è titanio. Non so cosa contiene ma sono sicura che dev’essere qualcosa d’importante. Lui…

- Lui chi? – Tania salta su con una smorfia cattiva – quello che sparava o quello che era già morto? Ero lì e Miko mi ha costretta a prendere le carogne per portartele. Facevano schifo. Pesanti sacchi di merda.

- Quello morto. Era il medico, il mio… collega. Non era venuto per farci del male.

- Ma era insieme a quello che sparava!

- Sei cretina, non capisci! Quello che sparava ha ucciso anche lui, hai capito ora?

- Ma sì, questo lo capirebbe pure Helga, però chi ci dice che non erano d’accordo, all’inizio? E poi hanno litigato chissà perché?

- No. Solo uno era armato, l’altro no. E lui, il mio collega, sapeva che stava rischiando di morire. Ha preso il fucile per la canna…

- Che vuoi dire, che stupidaggine prendere il fucile per la canna, è impossibile sfuggire alla scarica così da vicino…

- Lui lo ha fatto, aveva una mano a brandelli.

- Ha cercato di ripararsi, è una cosa istintiva.

- All’inizio lo avevo pensato anch’io. Ma poi ho trovato la scheda, sotto la pelle del suo torace. Se l’era innestata da sé. E allora ho capito. Ha voluto essere sicuro che non capitasse niente alla scheda, e si è rivolto la canna verso la testa.

- Doveva essere un pazzo.

- Forse. Però io voglio che tu ricordi. Ricordati dell’uomo che è venuto, ricordati che non era un nostro nemico. Ricordati com’è morto, per salvare questa scheda.

- Mi ricordo, mi ricordo! E poi, cosa farò?

- Trasmetti questa memoria. Fra poco faremo l’impianto e nasceranno le piccole. Trasmetti alla tua doppia tutto quello che ricordi della Terra, della nostra civiltà, quello che loro vogliono cancellare. Forse un giorno servirà.

- Sei più pazza di lui. Non so perché sto continuando ad ascoltarti.

- Perché tu ci credevi, nella missione. È stato lui a dirmi che non è fallita.

- Hai fatto una seduta spiritica? Quelle stronzate che facevamo da bambine?

- No, stupida. Insieme alla scheda c’era un messaggio in un disco ottico.

- Vediamo.

- Non è possibile, il messaggio si è cancellato. Era programmato per girare una volta sola.

- E io dovrei crederci? Mi prendi per idiota?

- Ci resta soltanto questo, un po’ di speranza. Scegli, puoi smettere di sperare o pensare che ancora c’è qualcosa da fare. Un giorno o l’altro.

- Va bene, Ester. – Tania prende una mano di Ester e la stringe. – io mi fido di te. Ricorderò e racconterò.

 

Paula guarda trasognata la faccia serena di Sebastian, che sembra indifferente alle enormità che ha detto. Tutto diverso, tutto possibile. Cose da non crederci, ma lei sente che è tutto vero. Anche…

- Dai, fammi le domande.

- Non so cosa chiederti. È… troppo, quello che mi hai detto.

- Ma almeno ci credi?

- Sì. È assurdo ma sto cercando di crederci. E noi…

- Noi dobbiamo agire subito e ci serve aiuto. Di chi possiamo fidarci? Ti ha detto qualcosa Ester?

- Sì… che strano, non ci avevo pensato. Da piccola me lo ripeteva sempre, poi non ne ha parlato più. Però lo sai, da piccoli le cose restano più impresse.

- Cosa ti diceva?

- Un… gioco di quando eravamo bambine. Una squadra segreta. Nessun’altra doveva saperlo…

- Una squadra segreta? Che strana idea.

- Sì, da piccole ci riunivamo di nascosto, io, Adele, Ernesta, Sandy e Geneviève. E Flavia, naturalmente. Giocavamo a salvare la missione. Era solo un gioco. Però Ester diceva che potevo davvero contare su di loro, e invece dovevo… guardarmi da tutte le altre. Io non l’ho mai presa sul serio, ma ora…

- Forse c’era un motivo. Senti, devi contattarle. Stai attenta, sono sicuro che continuano a sorvegliarvi. Devi… dir loro che dobbiamo tornare alla nave madre. Solo questo, non devono sapere altro.

- Tornare alla nave madre! È impossibile!

- Non è impossibile, il modo c’è.

- Sì, costruendo un razzo alto cento metri, riparando il modulo e mettendocelo sopra. Un lavoro da niente. Ah, dimenticavo, il combustibile. Non basterebbero sette vite.

- Ti dico che il modo c’è, te lo farò vedere.

- Mi sembra così strano tutto quanto! Quello che mi hai detto è troppo, se è vero… e dire che io volevo ribellarmi alle direttive per… rompere questa prigione, con tutte le cose che succedono uguali all’infinito. Non lo sopportavo. Pensavo a questo una volta che ti ho detto, ti ricordi, che forse c’era chi stava peggio di te.

- Mi ricordo. Non sapevo chi eri…

- E ora ho paura, se quello che hai detto è vero…

- È vero.

- È una cosa vitale, troppo importante per una persona sola, è una cosa enorme. Non capisco perché l’hai detto a me, perché ti sei fidato così tanto…

- Perché di te mi sento sicuro, è stata Ester a conservare la scheda, è stata lei a impiantarmi, ad insegnarmi tutto. E adesso dovremo fidarci delle tue amiche, da soli non riusciremmo a fare niente.

- E se… se qualcuna di loro è d’accordo con… quelle? Che succederà?

- Non sono d’accordo con quelle, ne sono sicuro. Se Ester ti ha parlato di loro, possiamo fidarci. Ester era straordinaria. Come sarebbe bello se lei ci fosse ancora…

- Ma lei… c’è. Ci sono io.

- Sì, è vero. Mi piacerebbe starti vicino.

- Noi siamo vicini. Non ti sembra?

- Vicino per davvero. Fammi uscire. – il suo sguardo è così limpido, non può avere paura di lui.

- Va bene. Ti farò uscire. Non so come fare in fretta però. C’è un codice di sicurezza che tiene le porte sigillate. Ester ha dimenticato di darmelo, ma io credevo che non fosse importante, non avevo intenzione di farti uscire. Però non aver paura, ti tirerò fuori lo stesso. Credo che dovrò smontare un pezzo di paratia, disinserire il dispenser del cibo e poi avrai abbastanza spazio per strisciare fuori…

- Hai davvero deciso di farmi uscire? Sei sicura?

- Ma sì. Sono sicura. – sorride nervosamente – non mi piaceva la parte del carceriere.

- Non eri un carceriere. Non ti ho mai sentita così, nemmeno quando mi facevi credere di essere un alieno. Con i tentacoli. Ti divertivi, però.

- Un po’. – sorride e si raddrizza sulla sedia – ora mi metto al lavoro. Ci vorranno un paio d’ore per smontare la paratia, forse di più…

- Non serve. – compone un codice sulla tastiera e la parete scorre silenziosamente. Cammina deciso attraverso la soglia e si ferma di colpo nell’antisala, paralizzato da una sensazione sconosciuta. Paula è seduta alla consolle dietro l’angolo, per vederla basta fare tre passi, ma a lui sembrano una distanza infinita. La sente muoversi sulla sedia e parlargli.

- Dove sei finito… – un passo, un altro ancora, appoggia la mano sul metallo tiepido e si accorge che trema. Cos’è che lo turba tanto… con uno sforzo che gli sembra infinito fa il terzo passo e oltrepassa l’angolo. Paula lo guarda con la bocca aperta, anche lei paralizzata dallo stupore. Vede il suo petto che si alza e si abbassa rapidamente, le mani che istintivamente si sollevano come per difendersi, le pupille dilatate e la bocca socchiusa.

- Non aver paura. Ti prego. – anche la sua voce è strana, la sente difficile da controllare, come se dentro ci fosse di continuo un grido da reprimere. Deve avvicinarsi ancora, Paula lo attrae come una calamita.

- Non ho paura. – lo guarda fisso, legge nei suoi gesti e nel suo respiro un’ansia uguale alla sua. E poi sente qualcosa, qualcosa che non conosceva. – come hai fatto ad uscire…

- Ho tutti i codici di controllo della nave, e specialmente quelli della sezione medica.

- E tu… sei rimasto dentro lo stesso. – Paula cambia posizione sulla sedia, il respiro sta tornando calmo ma non riesce a stare ferma, incrocia le mani dietro la nuca e lo guarda dritto negli occhi. Il colore è leggermente diverso da vicino, non sono grigi, sono azzurri, no, verdi, dipende all’incidenza della luce o forse da quello che sta pensando. – Perché l’hai fatto?

- Perché tu non volevi che io uscissi. Mi volevi tenere dentro, ricordi?

- Sì… un po’ perché avevo paura di te… – si avvicina ancora, lentamente, e lei respira profondamente, ora ha capito cos’è che le sembra così strano, è il suo odore, misto a quello della tuta pulita e del sapone liquido con cui si è lavato. È diverso, è… si riprende e cerca di sorridere per nascondere il suo turbamento. – certe volte mi facevi rabbia. Avevo pensato di… tenerti là dentro per sempre.

- Eccoti la risposta. Per questo non sono uscito. Mi avresti odiato ancora di più. E tu non devi odiarmi.

- Io non devo… – è vicinissimo e allunga una mano, sottile con le vene azzurrine e le unghie cortissime, verso i suoi capelli. Sente il suo calore, e anche lui deve sentire la stessa cosa, perché la mano è incerta e sembra tremare. Sebastian si costringe ad avvicinarsi ancora, Paula sembra un fiore circondato dalla nuvola del suo profumo, un profumo che lo fa impazzire, e gli ricorda… no, non è possibile, gli ricorda l’immagine 12569. La tocca.

  
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