Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: mikchan    01/12/2013    2 recensioni
*SEQUEL DI LIKE A PHOENIX*
Il tempo passa, la vita continua e i brutti ricordi diventano passato. Per tutti è così, anche per Amanda, giornalista in carriera, sfruttata dal suo capo, in crisi con se stessa e con i sentimenti che prova per il suo ragazzo e in cura da uno psicologo. Tutto questo, e Amanda lo sa, è dovuto proprio a quel passato che non l'ha abbandonata, alla perdita delle cose più importanti che avesse al mondo. Ma il passato ritorna, sempre, e per Amanda si ripresenta in una piovosa giornata invernale.
Saprà il suo passato darle un'altra opportunità, oppure è davvero tutto finito?
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Like a Phoenix'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Image and video hosting by TinyPic

14- BITCH AND EGOIST


"Mi raccomando. Se stai di nuovo male non fare l'eroina della situazione".
Sbuffai sonoramente, staccando la testa dalla sua spalla e fulminandolo con lo sguardo. "Se me lo ripeti un'altra volta ti picchio", lo minacciai.
Adam scoppiò a ridere, abbracciandomi ancora più forte. "Mi manchera, Lupacchiotta".
"Sto via cinque giorni, non tutta la vita", sussurrai, tornando a nascondere il viso nella sua camicia per evitare di farmi vedere in lacrime. Sarebbe stato un problema spiegargli perché non stavo piangendo solo per la mia partenza.
"Lo so", sospirò. "Però ora che ci siamo ritrovati non vorrei più lasciarti andare".
Mi morsi il labbro, costringendomi a non piangere. Mi sentivo una stronza, un'immensa egoista e non mi meritavo la sua tristezza.
"Vado per lavorare", gli feci presente, deglutendo per cacciare il groppo in gola che minacciava di farmi scoppiare.
"Lo so", ripeté. "Ma non potremo stare insieme nemmeno il giorno del tuo compleanno".
"Ci vedremo via Skype", gli ricordai. "E poi non è importante, è solo uno stupido compleanno".
"Ventotto anni non sono stupidi".
"Ma mi avvicinano ai trenta", mugugnai, ricordandomi all'improvviso le parole di Mr Klant.
"Si ricordi che il futuro non è mai troppo lontano".
Vaffanculo, quello era uno psicologo o un ciarlatano che prevedeva il futuro? Strinsi tra i pugni la camicia di Adam e lui mi abbracciò stretta.
Stronza, egoista.
"Ora devo andare", sussurrai, tirando su con il naso come una bambina.
"Okay", rispose lui, lasciandomi andare e regalandomi un sorriso triste. "Chiamami appena arrivi", mi ricordò, accarezzandomi una guancia.
Mi allungai sulla punta dei piedi e gli lasciai un piccolo bacio a stampo. "Te lo prometto", sussurrai sulle sue labbra.
Adam mi guardò in silenzio un attimo, per poi afferrarmi la nuca e costringermi in un bacio più profondo. Unimmo i nostri corpi in un abbraccio disperato, ritrovandoci poi ad ansimare, senza fiato.
"Ti amo", sussurrai, abbassando subito lo sguardo.
Stronza, egoista.
Adam abbozzò un sorriso. "Non scappare, Lupacchiotta", disse e lessi la supplica nei suoi occhi.
"Mai", risposi, stringendogli la mano. Aprii la bocca, decisa finalmente a riverlargli quel segreto che tenevo nascosto da quasi tre settimane, ma la richiusi subito, terrorizzata.
"Ci vediamo tra cinque giorni", mi salutò, dandomi un bacio sulla fronte.
Io annuii, afferrando il mio bagaglio a mano e seguendo Claire verso il check-in. Prima di voltare l'angolo lo salutai un'ultima volta, provando un tuffo al cuore quando incontrai il suo sorriso.
Stronza, egoista.
Passai il controllo in silenzio e a testa bassa, limitandomi poi a seguire Claire tra i vari negozi mentre aspettavamo che chiamassero il nostro volo. Quell'ora sembrava non passare più, mentre i pensieri mi vorticavano in testa senza fine, tormentandomi.
Come potevo continuare a mentirgli in quel modo?
Era quella la domanda che non voleva abbandonarmi e che mi tormentò anche per tutto il volo fino ad Oslo.
Erano passate più di due settimane da quando avevo scoperto di essere incinta. Le previsioni di Jamie erano state giuste ed erano state confermate dai quindici test di gravidanza che avevo comprato e la visita ginecologica che la mia amica mi aveva costretto a fare.
Da quel giorno ero sprofondata in un baratro. In qualche modo avevo detto ad Adam del viaggio in Norvegia, ma non ero riuscita a rivelargli anche l'altra notizia. Ero terrorizzata, completamente e assolutamente terrorizzata. Non tanto dal fatto di essere di nuovo incinta, ma dalla reazione di Adam. Cosa avrebbe detto quando l'avrebbe saputo? Mi avrebbe mollata di nuovo, confermando le teorie di mia madre? Oppure avrebbe accettato di crescerlo insieme a me?
Se di una cosa ero certa, infatti, era che non avrei ucciso questo bambino nemmeno se mi avesse obbligata. Me ne ero innamorata subito, nonostante la paura, perché era il figlio di Adam e non potevo non volergli bene almeno la metà di quanto amavo il padre.
Nei miei pensieri era così facile convincermi che sarebbe andato tutto bene, eppure sapevo che sarebbe stato difficile, anche se Adam mi fosse stato accanto. Non mi ero dimenticata delle parole del medico, cinque anni prima. Sarebbe stato complicato per me portare avanti una gravidanza e farlo in una situazione delicata come la mia diventava praticamente impossibile.
E anche di questo avevo paura. Temevo di illudere Adam, di promettergli un figlio e poi di non essere capace a compiere quest'impresa. Più volte, nelle ultime notti, avevo sognato di svegliarmi in preda alle convulsioni, in un mare di sangue, mentre Adam mi guardava dall'alto, ridendo. Sapevo che era solo un incubo, ma ne ero terrorizzata, ancor più di perdere il bambino o Adam, perché li perdevo entrambi, nel modo più terribile che potessi immaginare.
Avrei dovuto dirglielo in ogni caso, ne ero consapevole. Ma le mie paure erano troppe e troppo radicate e ogni volta che provavo, mi trovavo poi a fare marcia indietro.
Più passava il tempo, però, e più difficile sarebbe stato affrontarlo. Presto la pancia si sarebbe incominciata a vedere e, ne ero certa, aveva già iniziato a porsi delle domande sulle mie continue nausee e sulle stupide scuse che inventavo per non restare a dormire da lui.
Stronza, egoista.
Mi addormentai con le lacrime agli occhi e la testa piena di pensieri, sognando di bambini immersi nel sangue, disastri aerei e, infine, un bellissimo vestito bianco.
Non seppi esattamente quanto dormii, ma, nel momento in cui iniziarono le manovre di atteraggio, Claire mi scosse leggermente per una spalla, svegliandomi e ricordandomi di allacciare la cintura di sicurezza.
Non dissi nulla per il resto dell'operazione, cercando anche di fermare il mio cervello che continuava a ronzare.
Mi concentrai sul fatto di essere finalmente arrivata in Norvegia, un paese che mai avrei immaginato di visitare. Effettivamente non ne sapevo molto, ma, come da tradizione, avrei tanto voluto vedere l'aurora boreale e i famosi fiordi. Questi pensieri riuscirono ad occuparmi in parte la mente e, quando scendemmo dall'aereo, isolai quella parte così rumorosa e ripassai quelle nozioni di inglese che non prendevo in mano da anni. Ovviamente quell'incontro si sarebbe tenuto in lingua mondiale, appunto l'inglese e, anche se non ero proprio una cima, sapevo cavarmela nelle situazioni più importanti. Avrei poi trovato qualche modo di capire quello che si sarebbe detto al congresso, per il momento ero soltanto preoccupata a ricordarmi come chiedere di arrivare in centro città. Fortunatamente le abilità lingustiche di Claire erano molto migliori delle mie e, presto, ci trovammo a bordo di un treno ad alta velocità che ci accompagnò dall'aereoporto alla stazione centrale di Oslo, vicino alla quale c'era il nostro albergo e l'edificio in cui si sarebbe tenuto l'incontro.
Appena uscimmo dalla stazione la prima cosa che notai fu l'enorme tigre al centro della piazza, ovviamente finta, ma talmente realistica che dovetti fermarmi un attimo a fare qualche fotografia.[1]
Dopodiché, seguendo le indicazioni del GPS dal telefono di Claire ci incamminammo per le vie di questa meravigliosa città, che avremmo avuto l'opportunità di visitare proprio quel pomeriggio e il mattino seguente, nell'attesa dell'inizio del meeting il pomeriggio dopo.
Le strade dell'isola pedonale erano ampie ma piene di persone, spesso intervallate da semafori che ognuno rispettava. La cosa soprendente, nonostante l'enormità della gente che ci circondava, era il clima tranquillo e posato, assolutamente diverso dalle grandi metropoli a cui ero abbituata. Sorpassammo moltissimi negozi, alcuni conosciuti altri completamente tradizionali, guardammo con stupore il grande numero di persone che, sedute a terra, chiedevano l'elemosina, uno distante a pochi metri dall'altro, incontrammo tantissimi artisti di strada, intenti a suonare, cantare o disegnare per qualche spicciolo.
Era davvero una realtà molto diversa da quella a cui ero abituata e me ne accorsi immediatamente quando, appena poggiammo le valigie in hotel e uscimmo di nuovo, ci trovammo in una strada trafficata, dove vigeva un ordine assoluto, quasi manacale. Non c'era nessuno che urlava, nessuno che correva, nessuna macchina che suonava per sorpassare. Era come se tutti lì prendessero la vita con più tranquillità e, in qualche modo, non potei fare a meno di pensare a quello che mi stava accadendo.
In quel momento, infatti, la mia vita era tutt'altro che tranquilla, ma la colpa era solo mia perché insistevo a trovare problemi dove non ve ne erano e mi facevo prendere subito dal panico. Se ne fossi stata capace, mi sarei comportata come i Norvegesi: avrei cercato di valutare con calma la situazione, decidendo alla fine per la decisione migliore da prendere, senza inutili scenate o equivoci che avrebbero solamente peggiorato la soluzione.
A peggiorare il tutto, infine, c'era il mio compleanno, che sarebbe caduto due giorni dopo. Nonostante avessi ripetuto mille volte ad Adam che non mi importava, in realtà era un traguardo che temevo di raggiungere. Ventotto anni erano troppo vicini ai trenta e io non avevo ancora combinato niente della mia vita. Certo, ultimamente tutto pareva sistemarsi, ma con la notizia di questa gravidanza tutti i miei pilastri erano crollati. Un bambino era una benedizione, lo sapevo, ma avrebbe solamente complicato tutto e, in quel momento, l'ultima cosa di cui avrei avuto bisogno erano complicazioni.
Involontariamente, passai tutto il pomeriggio a crogiolarmi tra questi pensieri. Nonostante le foto, infatti, quasi non mi accorsi di quello che facevo. Passai davanti al famoso Urlo di Much, esposto nella Galleria Nazionale [2], come se fosse acqua; camminai in mezzo a piazze affollate e aiuole verdeggianti [3] come se non esistessero, passeggiai lungo la costa del porto[4] come se stessi volando. Non so se Claire si accorse di qualcosa, ma, quando alla sera tornammo in albergo dopo aver cenato in un piccolo ristorante e aver passeggiato di nuovo per le vie della città, visitando inoltre il bellissimo palazzo dell'opera, fu come se mi risvegliassi da un lungo sonno. Ovviamente non dormii per nulla durante la notte, un po' per il sonnellino durante il volo, ma soprattutto per il timore di sognare di nuovo e vedere cose che mi avrebbero solamente spaventata.
La giornata seguente fu frenetica. Durante la mattinata concludemmo il tour di Oslo, visitando un museo d'arte contemporanea [5] e il famosissimo Parco delle sculture di Vigeland [6], dove vedemmo esposte bellissime opere di questo artista, assolutamente realistiche ed espressive, con i loro movimenti ampi e carichi di emozioni. Rimasi assolutamente colpita da quelle opere per il grande impatto visivo che offrivano, ma soprattutto per quello che comunicavano, nonostante fossero solo statue. In particolare, mi fermai un attimo davanti ad una raffigurazione, nella quale un padre prendeva sulla schiena un bambino[7]. Sarebbe stata una scena normalissima, quasi quotidiana, ma per me assunse un significato molto particolare. Subito mi chiesi se Adam si sarebbe mai comportato così con un eventuale figlio e, senza neanche un po' di esitazione, risposi affermativamente. Adam era lui stesso un po' bambino e, se quello che portavo nella pancia fosse stato un maschio, si sarebbe divertito a giocarci senza pensieri e l'avrebbe trattata con devozione e amore se fosse stata una femmina. Certo, tutto questo se non mi avesse lasciato prima a causa delle mie insensate paure.
Stupida, egoista.
Passai il resto della mattinata in una specie di trance, arrivando non so come al grande edificio dell'Opera [8], dove si sarebbe tenuto il meeting per quei quattro giorni.
Tuttavia, appena il presidente iniziò a parlare, mi immersi in quel mondo, fatto di inglese, persone di mille nazionalità, con mille storie diverse da raccontare e mille idee diverse da esporre.
Fu tutto molto diverso da come me l'ero immaginato. Per prima cosa, non ebbi poi grandi problemi con l'inglese, a parte qualche madornale errore di grammatica, ma, in generale, riuscii a capire ogni cosa. Dopo il discorso iniziale, ci furono due conferenze, una sull'editoria mondiale, l'altra sulla psicologia per la scelta dei manoscritti. Quest'ultima fu particolarmente importante e, nonostante l'impaccio della lingua, riuscii a prendere molti appunti, memore anche delle lezioni di psicologia del liceo.
Alla fine della giornata, decidemmo, insieme ad alcuni giornalisti di altre nazioni, di mangiare qualcosa assieme e poi fermarci in un pub per chiaccherare. Accolsi subito con entusiasmo l'idea, un po' perché ormai ero intrata in 'modalità inglese', ma soprattutto perché una serata in compagnia mi avrebbe evitato pensieri sgraditi, come le poche ore che mi separavano dal mio compleanno.
Tuttavia, durante la serata, le cose degenerarono, perché una giornalista tedesca iniziò a raccontare del suo bellissimo bambino biondo, figlio del suo biondissimo marito, che amava entrambi alla follia. Quando prese le foto dal portafoglio uscii dal locale, scusandomi malamente e adducendo la scusa di dover telefonare al mio ragazzo. Ed era vero, solo che farlo in quelle condizioni, ovvero quasi in lacrime e con il respiro corto, l'avrebbe soltanto fatto preoccupare inutilemente.
Mentre decidevo di mandargli un messaggio il telefono iniziò a squillare e mi trovai davanti il suo nome, lampeggiante come un richiamo. Incerta, dopo qualche respiro profondo, accettai la chiamata.
"Pronto?", sussurrai, schiarendomi la gola.
"Mandy!", esclamò la voce dall'altra parte. "Perché non mi chiami mai?".
"Stavo per farlo", mentii, strigendomi nel cappotto. Nonostante fosse inizio aprile, infatti, le temperature erano ancora piuttosto basse e il vento che tirava era freddo e pungente.
"Perfetto, allora", ribatté lui.
"Mhmh", risposi, incerta su cosa iniziare un discorso. Non ero dell'umore adatto, quella sera. Sentivo che presto sarei crollata e non volevo farlo con lui, altrimenti avrei finito per riverlargli in malo modo lo scomodo segreto che nascondevo.
"Va tutto bene?", mi chiese infatti dopo un secondo di silenzio.
Sospirai. "Sono solo un po' stanca", mentii.
"Sicura?", insistette.
"Certo. Ora siamo in un pub con alcuni colleghi stranieri. Ma oggi è stata una giornata pesante".
"Cosa avete fatto?", mi chiese, e io sospirai, sollevata di averlo indotto a cambiare discorso.
Iniziai a raccontargli tutto, sentendo il cuore alleggerirsi mano a mano che le parole uscivano e le sue arrivavano al mio orecchio.
Fu lì, non so come, che il mio cervello decise che era arrivato il momento di porre una fine a quello scherzo. "Quando torno dobbiamo parlare", dissi di getto.
"Mi vuoi lasciare?", mi chiese lui esitante.
"No!", esclamai, forse con troppa enfasi. "C'è solo una cosa che ti devo dire".
"Dimmela ora".
"Voglio farlo di persona, Adam".
"Cosa cambia? Ormai mi hai incuriosito...".
"Non posso dirtelo così, dal nulla", mi lamentai.
"Se non mi vuoi lasciare non c'è altra notizia che potrebbe ferirmi. A parte se avessi un altro. Hai un altro?".
"Certo che no!".
"Bene, allora non ho problemi".
"Non ne hai neanche se ti dico di essere incinta?".
Silenzio. Adam non rispose e capii di avere fatto una mossa sbagliata. "Lo sei?", mi chiese serio prima che potessi aprire bocca e correggermi.
"Se lo fossi cosa faresti?", gli chiesi io, dando voce a quella domanda che mi tormentava.
"Lo sei?", ripeté con tono duro.
Aspettai un attimo prima di rispondere, poi sospirai. "Sì".
Silenzio. Di nuovo. Merda.
Non avrei dovuto dirglielo in quel modo, avrei dovuto aspettare di averlo davanti e guardarlo negli occhi. Ma come potevo resistere altri quattro giorni senza vederlo e assicurarmi che tutto andasse bene?
"Adam?", sussurrai, quando il silenzio si fece insopportabile.
Temetti di tutto. Urla, insulti, pure bestemmie, ma, per un'altra volta, ebbi fatto male i miei conti. "È mio?", sussurrò.
"Certo", risposi, sicura.
"Come fai ad...".
"Fidati, Adam. È tuo", ribattei. Sapevo cosa stava per dire, ma non vedevo Austin da settimane e non avevo fatto l'amore che con lui, nell'ultimo mese. Quindi il bambino poteva essere solo suo. O dello Spirito Santo, ma speravo proprio di no!
"Okay", mormorò poco dopo.
"Okay?", ripetei, scoinvolta.
"Quando torni ne dobbiamo parlare. Seriamente".
"Lo so. Avevo solo una grande paura che tu potessi abbandonarmi che...".
"E chi ti dice che tutto sia rimasto come prima?", ribatté.
Quelle parole mi ferirono e mi immobilizzarono. E io che credevo che tutto sarebbe andato per il meglio, dopo averglielo detto! Invece per Adam non valevo abbastanza e nemmeno un bambino lo avrebbe tenuto al mio fianco.
Ero stata una stupida, proprio come mia madre aveva predetto. Mi ero fatta mettere incinta dopo nemmeno un mese, ritrovandomi dall'altra parte del mondo da sola, in lacrime e al freddo.
"Amanda?", lo sentii chiamarmi, ma non risposi. Perché avrei dovuto?
Senza togliere il telefono dall'orecchio mi accasciai a terra contro il muro, in preda ad un dolore enorme, infinito. Ero sola. Sola con il mio bambino.
Chiusi gli occhi, incominciando a sentire il respiro mancarmi e la testa girare. Sapevo bene che in quelle occasioni dovevo solo stare tranquilla e non agitarmi, ma non riuscivo a fermare il battito del cuore, che frenetico rimbombava nel petto, testimone del dolore che mi stava attanagliando le viscere.
Iniziai a sentire il mio nome, dalla voce di Adam e da altre, ma era tutto talmente confuso che non mi accorsi nemmeno di venire sollevata, ancora tremante e in lacrime.
Non opposi nessuna resistenza: che senso avrebbe avuto? Adam aveva detto che era tutto finito, che non mi voleva più. Perché avrei dovuto combattere? Per il bambino? No, lui mi aveva portato via Adam e, a costo i sembrare egoista, non avrei sofferto per lui.  
Non so come, ma mi addormentai nel mio letto dell'albergo. Fu una nottata tremenda, popolata da sogni insensati e spaventosi, dove non c'era nient'altro che il nulla. E lì vagavo, cercando qualcosa che nemmeno io sapevo e provando ad uscirne.
Quando il giorno dopo mi svegliai e mi trovai davanti il volto preoccupato di Adam, credetti di essere in paradiso.



Salve gentee!
Lo so che avrei dovuto pubblicare ieri, ma queste ultime settimane sono state assurde e ho davvero pochissimo tempo per mettermi al computer e scrivere qualcosa di decente. Se aggiungete anche che, quando ho un pizzico di ispirazione, quell'idiota patentato di mio fratello decide di rimbambirsi davanti a You Tube, potete capire che questo non è proprio il mio periodo. Per questo vorrei avvisarvi che non so se riuscirò a stare al passo con gli aggiornamenti settimanali in queste due o tre settimane prima delle vacanze, perché sono già piena di impegni e, tra l'altro, sono anche a corto di capitoli. Quindi non disperate se non vedete l'aggiornamento nel week-end: se non muoio nel mentre, riuscirò a ritagliarmi qualche spazietto per scrivere e pubblicare!
Ora, passando al capitolo. Come avrete notato ci sono dei numerini vicino a certe parole, e questi numerini riportano a delle fotografie, che posterò qui in fondo perché sono decisamente incapace di creare un link o qualunque altra cosa che vi possa portare alle immagini su internet. La maggior parte sono foto che ho scattato io stessa, così come miei sono le emozioni e le descrizioni del centro di Oslo. Non so voi dove abitate, ma io, essendo molto vicina a Milano, che è per fama una città caotica e, devo ammetterlo, piena di maleducati, trovarmi davanti a una capitale così tranquilla, pur molto affollata, è stata una grande sorpresa.
Per quanto riguarda Adam ed Amanda... vi lascio così, con il fiato sospeso. Come ho detto, non ho ancora scritto il capitolo, ma so già cosa accadrà, quindi dovrete solo pazientare.
A presto
mikchan


[1] photo oslo-tiger_zps26865773.jpg
[2] photo DSCN2368_zpse1ef7412.jpg
[3] photo DSCN2373_zps18150355.jpg
[4] photo porto_zps96250e85.jpg
[5] photo DSCN2407_zps57623393.jpg
[6] photo DSCN2454_zps7dcb86be.jpg
[7] photo DSCN2459_zps56b91ca8.jpg
[8] photo oslo-opera-house_zps14a409c6.jpg

  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: mikchan