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Autore: mamogirl    01/12/2013    2 recensioni
Gli era rimasto solo quello. Non c'erano stati addii, non c'erano stati discorsi colmi di dolore, sofferenza e rimpianto. Rimpianto per ciò che avevano appena perso, rimpianto per tutte quelle cose che non avrebbero più avuto e che non si sarebbero più realizzate.
Gli era rimasto solo quello. Un numero di telefono che non squillava più, a cui nessuno avrebbe più risposto, mettendo così fine a quell'interminabile agonia. Una segreteria telefonica che avrebbe raccolto tutte le sue parole, custodite in uno spazio cibernetico dove nessuno le avrebbe potute cancellare o distorcere.
Dicevano che era pazzo. Dicevano che avrebbe dovuto lasciarsi il passato alle spalle, che era ciò che Nick avrebbe voluto.
Ma a Brian era rimasto solo quello. Un numero, una segreteria, e parole che non avrebbe potuto più pronunciare faccia a faccia.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brian Littrell, Nick Carter
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Veloce nota prima di lasciarvi all'epilogo.
Grazie. Grazie a chiunque ha letto silenziosamente, grazie a Laphy e BSBForever per essere le migliori lettrici possibili, grazie alla mia beta e altra metà che sin dall'inizio sapeva comesarebbe finita questa storia e mi ha spinto a finirla. Grazie a Brian e Nick per essere un'infinita fonte di ispirazione e perchè, senza di loro, non sarei mai tornata a scrivere. 
Ora, buona lettura. Non mi uccidete. LOL

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

§ Last Message §

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

Dodici mesi.
Dodici mesi prima, la vita di Brian sembrava quasi un dipinto ormai pronto alla sua conclusione: non era perfetto, vi erano macchie qua e là, ma non gli era mai importato perché tutti gli altri colori sopperivano e lo rendevano più di quanto avrebbe mai potuto sperare. Poi era bastato un semplice strappo, una macchia più grande e profonda delle altre, per ritrovarsi fra le mani solamente la cornice di quel dipinto.
A distanza di un anno, ancora Brian faceva fatica a ricordare quel giorno: le immagini arrivavano sfocate, disturbate come in un nastro ormai rovinato mentre l’audio era stato completamente disconnesso. Di quel giorno, Brian ricordava solamente le emozioni o, forse, la totale assenza di esse, come se una parte di lui fosse morta in quell’incidente insieme a Nick. Per molto tempo Brian si era sentito in quel modo. Aveva costruito la sua vita attorno a Nick, aveva disegnato progetti che includevano sempre loro due e, all’improvviso, si era ritrovato gettato nella corrente senza una direzione o un appiglio. Risalire, in quei dodici mesi, non era stato facile. Era caduto così tante volte che, in certi attimi, si era chiesto e domandato se valesse ancora la pena rialzarsi visto che oramai aveva perso la bussola che aveva sempre guidato e orientato i suoi itinerari.
Eppure, alla fine, l’aveva sempre fatto.
Eppure, ora, dodici mesi dopo, si trovava lì, con una vita davanti a sé e l’ultimo filo da recidere.
Eccolo, quindi, che ritornava lì in quel luogo dove tutto aveva avuto inizio. Non era cambiato niente in quel punto della strada, le strisce delle carreggiate erano ancora più sbiadite di quel lontano giorno e solamente un mazzo di fiori ricordava che qualcuno aveva perso la sua vita. Non sapeva esattamente perché si fosse fermato lì, non riusciva a trovare consolazione o un senso ma, forse, era solo un modo per ricordarsi che era successo, un’ennesima metafora di come tutto, prima o poi, doveva per forza ricominciare dimenticandosi il passato.
Il cimitero non distava molto da quel punto così Brian lasciò la macchina in un piccolo parcheggio di un supermarket, lo stesso dove per anni lui e Nick si erano recati per fare la spesa, e incominciò a camminare nell’aria pungente. L’autunno, da compare e fratello dell’estate, aveva deciso di cambiare squadra e passare a quella vincente dell’inverno, trasformando così il suo aspetto in un freddo compagno che si divertiva a prendere in giro il resto del mondo. Era ancora troppo presto per la neve, l’aria ancora non aveva quell’odore che preannunciava la caduta dei fiocchi bianchi ma presto strade e campi, tetti e marciapiedi, avrebbero cambiato aspetto mentre la città e la gente si sarebbe preparata per il Natale. Il Natale precedente Brian aveva chiesto una sola cosa, pur sapendo che non sarebbe stato esaudito: era ancora in quella fase, durata forse più a lungo di quanto avrebbe voluto con il senno di poi, in cui era fermamente convinto che fosse stato tutto un incubo, uno scherzo di brutta tiratura da parte di Nick. Lo voleva accanto, lo rivoleva come solo qualcuno che ha perso parte di se stesso può desiderare così ardentemente da perdere la ragione. L’anello, quella fede che Nick aveva voluto donargli dopo la sua morte, non lo aveva mai tolto, anche se ora era più nascosto e più vicino all’unico luogo dove la memoria di Nick non sarebbe mai stata cancellata: una catenina, una semplice catenina d’oro che terminava esattamente sul petto, lì dove due cicatrici, una fisica e un’altra solamente spirituale, si incontravano e si facevano compagnia.
Non era mai stato lì, tranne il giorno del funerale. Non avrebbe mai dimenticato dove Nick era sepolto, anche se quel giorno e tutti i preparativi erano sempre una nebbia sfocata. Ma era lì la sua lapide, in un angolo un po’ appartato e con ancora mazzi di fiori e biglietti portati da fans che ancora piangevano, come lui, la sua scomparsa.
Anche Brian, quel giorno, aveva portato con sé dei fiori. Solo tre, perché aveva sempre pensato che quello fosse il numero perfetto e perché era sempre ricomparso in ognuna delle date più importanti nella loro storia. Tre fiori e tre differenti significati, legati e intrecciati fra loro. Il primo era una rosa di una tonalità rosa pallido, per ricordare che prima di tutto Nick era stato il suo migliore amico.
“Ricordi? – Domandò Brian direttamente alla lapide. Non aveva senso usare quel telefono che conforto e sicurezza gli aveva dato in quei dodici mesi. Nick era lì, anche se solo poteva sentirlo. E bastava solo quello. – Quando sono arrivato, non mi parlavi nemmeno. Eri timido e non sapevi come comportarti con uno sconosciuto di cui qualcuno aveva solamente tessuto le lodi per ore e ore. Ma poi è bastato insegnarti a fare un perfetto centro da lontano per vincere la tua timidezza. Ed ero anch’io timido. Strano, vero? Mi ritrovavo in un posto che non avevo mai visto, con tre estranei che dovevo convincere affinché potessi rimanere anch’io nel gruppo. Eravamo simili, eravamo estranei in due modi differenti ma è stato proprio quello che ci ha permesso di diventare complici, compagni e, infine, migliori amici. Non sono mai riuscito a capire come tu, un ragazzino di appena tredici anni, fossi riuscito a entrarmi dentro e a vedere tutto quello che tenevo nascosto dietro la maschera di eterno clown. Vedevi oltre il sorriso, le battute e la risata, riuscivi sempre a capire quando stavo per mandare tutti a quel paese e ti presentavi con la semplice richiesta di giocare. Sapevi che lo sport era il mio unico sfogo. Eri frustante, però. Non pensare che non ci fossero tanti momenti in cui mi arrabbiavo con te, soprattutto per quella tua mania di voler sempre sapere tutto ad ogni costo. E c’era una cosa che non potevo raccontarti. C’era un unico segreto che non avrei mai potuto svelarti perché avevo paura che avrebbe rovinato tutto. Ero terrorizzato dall’idea di perderti. Anche se ora è quasi ironico pensarlo, non trovi?”
Inginocchiandosi, Brian appoggiò sulla lapide la rosa e gli altri due fiori, un’altra rosa rossa e un girasole. Con la punta dell’indice, sfiorò le lettere intagliate nella lastra di marmo, fermandosi a quell’ultima cifra che rendeva tutto così dolorosamente vero e reale.
“Eri il mio mondo. Il mio sole. Ti ho seguito ovunque, anche quando stavo ancora cercando di resistere a quei sentimenti che provavo per te. Ti ho combattuto perché a te non importava che cosa pensasse la gente, mi amavi e bastava solo quello. Io avevo paura, ero terrorizzato dall’intensità con la quale volevo e agognavo per poter stare con te. Dicevi... dicevi che era grazie a me se avevi imparato a amare ma non posso prendermi questo merito. Amare era sempre stato dentro di te, lo avevi semplicemente camuffato perché nessuno ti aveva mai mostrato come fare o come non renderlo qualcosa di tossico come quello dei tuoi genitori. Ma tu, Nick, mi hai insegnato a farmi amare, a accettare che anch’io meritavo di essere ricoperto di attenzioni e cure nello stesso modo in cui facevo con gli altri. Non sono mai stato bravo a dipendere da qualcuno, la vita mi aveva costretto a essere sempre forte e a non mostrare mai le mie debolezze. Con te non mi dovevo sforzare, con te potevo essere debole senza sentirmi in difetto o vergognarmi.
Sarà dura, ora. Sarà dura riaprire il mio cuore a qualcun altro. Non solo perché c’è ancora il tuo nome scritto sopra. Soprattutto perché non voglio ritrovarmi così, non voglio più ritrovarmi a dover far i conti con una vita spezzata e cocci da rimettere insieme faticosamente. Un giorno accadrà. Non perdo la speranza, non l’ho mai fatto. Anche quando urlavo, anche quando la disperazione era più forte di qualsiasi altra voce, avevo sempre questa piccola fiamma di speranza da custodire e far crescere.”
Le parole morirono senza altro fiato o respiro. In quei dodici mesi Brian si era ancora confidato in Nick come sempre aveva fatto, aveva affidato ad una segreteria telefonica ogni lacrima e ogni grida, ogni sospiro mozzato in gola e quelle prime risate che lo avevano riportato dall’altra parte del sole, la parte che brillava e scaldava anche nei giorni d’inverno. Sarebbe stato strano non chiamare più quel numero, sarebbe stato strano non appoggiarsi a quell’ultimo gradino che ancora sapeva di Nick. Sarebbe stato strano ma era anche l’ultimo passo verso una nuova primavera e, per quanto spaventato e terrorizzato, Brian finalmente si sentiva anche pronto a fare quel passo. Non c’era felicità né estasi o entusiasmo, non potevano esserci quando si ritrovava a dover addio alla persona più importante della sua vita; c’era solamente una malinconica accettazione di come sarebbe stato il futuro e il presente e la consapevolezza di dover affrontare le nuove sfide contando sulle sue sole forze.
Non si poteva essere pronti per quel momento. Dire addio sembrava qualcosa di definitivo, forse ancor più pesante di quella lapide. Le dita tremavano lievemente dentro la giacca ma non per il freddo: il pugno si apriva e si richiudeva attorno al telefonino, scivolando sulla sua superficie e toccando i pulsanti senza però digitare nessun numero. Aveva già deciso, così voleva chiudere quell’anno di messaggi lasciati ad una segreteria senza avere mai una risposta. Avrebbe lasciato un ultimo messaggio, un’ultima parola e poi avrebbe chiuso quella storia, facendo cancellare quel numero che nessuno avrebbe più usato.
“Ti amo, Nick. Anche se non ci sei più, anche se sto per iniziare una nuova vita, continuerò ad amarti. Non come prima perché non c’è il tuo di amore a dar fuoco al mio. Ma continuerò a farlo e, chissà, forse un giorno ci ritroveremo.”
Brian si alzò in piedi, trovando finalmente il coraggio di tirare fuori il telefonino dal suo nascondiglio dentro la tasca della giacca. Con un respiro, esalato più per far uscire la tensione e l’apprensione, digitò il numero, ormai pronto a sentire quel beep metallico e poi quella voce...
Drin.
Drin.

Con un gesto d’istinto, Brian chiuse la telefonata.
Doveva aver sbagliato numero, doveva aver sbagliato numero, si disse mentalmente mentre il cuore incominciava a battere con furiosa paura contro lo sterno. Non poteva essere, non poteva suonare come se qualcuno avesse acceso quel telefonino dopo un anno.
Rifece il numero, questa volta prestando attenzione ad ogni singola cifra che componeva. Un attimo di esitazione, un secondo di paura e apprensione mentre premeva l’ultimo pulsante che avrebbe fatto partire la telefonata.
Non arrivò il beep metallico.
Non arrivò quel messaggio automatico che era stato l’unico orecchio che aveva ricevuto e ascoltato le sue preghiere e lacrime in quegli ultimi dodici mesi.
Drin.
Drin.

Il telefono suonava. Uno, due, tre squilli che annunciavano che la linea era libera, in attesa solamente di qualcuno che rispondesse. Il tempo, attorno a Brian, sembrava essersi in pausa anch’esso, volente testimone di quello che poteva solamente essere un brutto scherzo. Forse Brian stava ancora dormendo, forse si stava solo immaginando quella scena mentre era ancora protetto dalle coperte dei sogni.
Gli squilli si interruppero. Qualcuno aveva preso il telefono e aveva risposto.
“Bri.”
Non una domanda. Non un’esclamazione. Una sola sillaba. Il suo nome. Quel nomignolo che solamente una persona, solamente una voce, riusciva a pronunciare in quel modo. Ma quella voce non doveva più esistere, quella voce doveva esser stata ormai soffocata da fiamme e poi terra. Come poteva esistere quella voce se il corpo a cui apparteneva aveva cessato di respirare un anno prima?
Brian sentiva solamente il battito del cuore, un battere che prendeva il tempo insieme a quella sillaba.
Thum. Bri. Thum. Bri.
Non riusciva a parlare. Non riusciva a muovere le labbra e formulare, anch’egli, un’altra unica sillaba. La sua gola si era trasformata in un arido deserto e nemmeno l’aria riusciva a trovare una via d’uscita perché andava a sbattere contro il muro di terrore, ansia e speranza.
Sì, speranza.
Quella speranza che aveva finto di aver nascosto sotto una finta nuova sicurezza e accettazione. Quella speranza che si era trasformata in conforto quando il dolore era ancora un mostro troppo grande e potente per poterci anche solo parlare contro. Quella speranza che tutti, da famigliari e amici fino a sconosciuti, avevano cercato di abbattere con parole di compassione e pietà, scuotendolo e mettendolo di fronte all’immagine di una falsa illusione.
Non c’erano dubbi, però. Non c’erano dubbi che non fosse uno scherzo, non c’erano dubbi sul fatto che non fosse una mera e pallida imitazione. Quella voce che aveva pronunciato il suo nome, Bri, apparteneva solo ed esclusivamente ad una persona. Brian l’avrebbe riconosciuta fra mille e altre voci più o meno simili, Brian avrebbe riconosciuto quella sottile punta di dolcezza mentre veniva pronunciata l’ultima vocale.
“Nick?”
La sua, quella domanda, fu un sussurro rotto. Nel silenzio risuonò come un urlo ma sarebbe bastato un qualsiasi altro suono, persino quel cuore che continuava a battere e a rifiutarsi di credere, per nasconderlo e rubarlo via. Nell’attesa di una risposta, Brian continuò a riprendersi mentalmente: era uno sciocco, era un pazzo solamente per tenersi aggrappato alla speranza. Nick era morto, Nick non poteva rispondergli dopo dodici mesi di agognante silenzio.
“Voltati.”
Brian non si mosse. La paura lo aveva letteralmente paralizzato. La logica continuava a gridargli che, voltandosi, si sarebbe accorto della realtà, ovvero che era completamente solo in quel luogo. Non c’era nessuno e, soprattutto, non c’era quella persona sulla cui tomba aveva appena appoggiato dei fiori e pianto ancora la sua scomparsa. Eppure voleva voltarsi. Doveva farlo, doveva rendersi conto di aver finalmente toccato il fondo.
Complimenti, si congratulò mentalmente, sei finalmente impazzito.
Ma. C’era un ma, un piccolissimo se che stava incominciando a strepitare contro la gabbia in cui era stato rinchiuso.
E se non fosse impazzito?
Se non avesse toccato il fondo?
Se Nick fosse stato davvero lì, dietro di lui?
Era morto eppure era lì. In qualche modo, in qualche strano e assurdo modo, Nick doveva essere lì perché la voce che gli aveva risposto al telefono era la sua. Senza se e senza ma.
Lo fece. Brian si voltò, lentamente e cosciente di ogni suono attorno a lui. Brian si voltò e lì, ancor prima di rendersi conto dove – o meglio su chi – il suo sguardo si era posato, temette di essere sul punto di svenire. Ogni colore era stato risucchiato via, ogni forma e contorno era diventato uno sfocato insieme di linee e di punti. Alberi, sentieri e lapidi erano diventati un agglomerato, quasi una nebbia, tranne una figura. Tranne quella figura che si stagliava di fronte a lui.
Era cambiato. Nick. Nick era cambiato. Era più magro, indossava degli abiti che Brian non aveva mai visto né ricordato di averglieli mai regalati. I capelli era diversi, corti, quasi rasati, erano più scuri di quel biondo che aveva amato. Sì, aveva amato quel biondo anche quando Nick sbagliava la tinta e diventava un giallo canarino e lo faceva assomigliare ad un cartone animato. Ma anche con quel biondo scuro, ormai simile al castano, non c’erano dubbi che quella figura fosse Nick. Perché Brian l’avrebbe riconosciuto ovunque, con qualsiasi trucco o maschera. Lo avrebbe riconosciuto anche se l’azzurro degli occhi era diventato una chiara sfumatura verde.
Era Nick. Vivo. Respirava quindi non poteva essere morto. Ma doveva essere morto, doveva trovarsi in quella cassa che era stata poi coperta da terra. Ma no.
Nick era vivo.
Nick era vivo ed era davanti a lui.
“Sì, Brian. Sono tornato.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Siete ancora vive? lol
Sin dall'inizio, sin da quando ho avuto l'ispirazione per questa storia, questo doveva essere l'epilogo. In parte, credo che abbia subito molto l'esperienza di Sherlock ma voleva essere anche una prova, riuscire a ingannare il lettore in modo che questo finale potesse essere un vero shock. Non so se ci sono riuscita, questo starà a voi dirmelo. 
Il futuro, per questa storia, prevede una one-shot dal punto di vista di Nick: non sarà lunga come "Hello" ma sarà la storia letta e raccontata dal suo punto di vista. E poi... beh, poi ci sarà di sicuro qualcosa che racconterà come Brian e Nick possono superare, se possibile, quest'anno.
Mi sono divertita a scrivere questa storia. Ammetto di avere una vena bastarda ma ci sono stati capitoli in cui ho davvero sofferto insieme a Brian.
Grazie ancora e alla prossima
Cinzia.

   
 
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