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Autore: Ely79    02/12/2013    2 recensioni
Vorreste trasformare la vostra ridicola Urbanhare in un mostro capace di far sfigurare le ammiraglie del Golden Ring? Cercate più spinta per i vostri propulsori a vapore compresso? Spoiler e mascherine su disegno per regalare una linea più aggressiva al vostro mezzo da lavoro? Una livrea che faccia voltare ogni testa lungo le strade che percorrete? Interni degni di una airship da corsa, con quel tocco chic unico ed inimitabile?
Se cercate tutto questo, grande professionalità ed un pizzico di avventura, allora siete nel posto giusto: benvenuti alla "Legendary Customs".
[Ambientazione Steampunk]
Genere: Avventura, Commedia, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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L.C. - Cap. 24
24

Iron fingeva interesse le tiritere politiche di Jeff, lo sfasciacarrozze. Sapeva quanto amasse ascoltare il suono della propria voce e non l’avrebbe privato di quel divertimento, purché sgombrasse il loro deposito a tempo di record e gli fornisse un’utile copertura per valutare la situazione.
«E ora che Hernández si è preso la poltrona, voglio vedere se manterrà le promesse o ci tratterà come i bastardi che c’erano prima!» stava dicendo in quel momento. «Insomma, questo ha fatto tanto la voce grossa, popolo-popolo-popolo, ma adesso? Come la mettiamo con la droga che gira per le strade? Nessuno è riuscito a toglierla prima, voglio vedere lui! Tanto sappiamo che la mettono in giro i politici, che sono tutti drogati e ubriaconi che vendono quella robaccia solo per mettersi in tasca…»
L’arringa di Jeff si trasformò in un brusio di sottofondo, mescolata agli sbuffi acuti del braccio meccanico che artigliava la ferraglia. L’attenzione di Iron era integralmente rivolta al cancello d’ingresso, presidiato da una decina di giornalisti con relativi fotografi e tirapiedi al seguito. La loro insistenza lo infastidiva terribilmente. Se si fosse trattato di semplice curiosità verso il lavoro dell’officina, non gliene sarebbe importato poi molto: anni addietro alcuni giornali avevano prodotto lunghi articoli riguardo ai mezzi che avevano elaborato per qualche celebrità. Ora era diverso. Pareva che le airship fossero solo di contorno alle vicende personali dello staff. Avevano già tirato in ballo la vecchia vita di Scorch con tanto di atti processuali, rovistato negli atti della separazione di Clay e Sandy additando i poveri pargoli come due derelitti sicuramente turbati e sofferenti oltre misura, sbandierato ai quattro venti la parentela di Jack No Way con Italico e Flash Balzaretti, descritto Choncho e Maria Pilar come loschi immigrati dal passato torbido e dai dubbi colpi di fortuna. Il fatto che fossero state rivolte simili accuse aveva mandato Choncho in bestia a tal punto che avevano dovuto chiuderlo per un paio d’ore nel bagno per evitare che andasse in cerca del colpevole. Iron era sicuro che fosse solo questione di tempo, prima che arrivassero a colpire anche lui. Non si sentiva pronto ad affrontare i pregiudizi di un’intera città, ma neppure si sarebbe nascosto. Gli piacevano gli uomini? Sì. Si esibiva in un locale di drag queen? Verissimo. Era felice? Ci stava provando. Ovviamente nessuno gli avrebbe domandato delle sue competenze all’interno della società, infischiandosene dei sedici anni di duro lavoro. Delmar doveva aver intuito la sua preoccupazione e continuava a ripetergli con quel suo faccione tondo e sporco di briciole che gli stava bene, che era quanto spettava a uno schifoso finocchio invertito come lui. Anzi, a suo giudizio era strano che non si fosse già buttato nel fiume con una pietra al collo per risparmiare una figuraccia alla “Legendary” e alla loro famiglia.
Jeff sobbalzò all’improvviso, strappandolo alle sue considerazioni.
«Chi ha urlato?»
«Non ho sentito niente. Ti sarai sbagliato» rispose controllando sull’indicatore della pesa la quantità raggiunta.
Per assurdo, l’aumento delle scorie e dei ferrivecchi non era andato di pari passo con quello delle attività dell’officina, bensì era di molto inferiore. Se il lavoro era quasi triplicato, la produzione di rottami inutili era di poco oltre la norma.
«No, bello. Ho sentito eccome! Qualcuno gridava» s’impuntò Jeff guardando attorno.
Eccettuato Hito, intento alla pulizia dei suoi strumenti, e i giornalisti, non c’era anima viva nei paraggi. Dall’officina arrivavano il ritmico clangore della piegatrice e il battere di un martello.
«Jeff, tu stai troppo tempo attaccato al tuo bestione» lo canzonò.
«Beh, veramente è lui che è attaccato a me!» scherzò strizzandosi l’inguine con entrambe le mani e prendendo a saltellare in maniera ridicola.
Con quei capelli neri e ispidi, sembrava un porcospino su un cavallo imbizzarrito.
«Ho sentito che stai preparando qualcosina di speciale» buttò lì Jeff, tornando a manovrare le leve.
Anche lui partecipava occasionalmente alle serate del “Bull(es) de mousse”: pur non essendo omosessuale, trovava estremamente divertente esibirsi abbigliato come Lorna Giggs o Penny Valentine. Non era particolarmente abile a livello canoro, ma poteva contare su buone doti di caratterista che rendevano le sue performance memorabili, anche quando si presentava sul palco con la barba di un paio di settimane.
«Vuoi qualche anticipazione?»
«Tanto non me le daresti. Volevo solo la conferma. Sai com’è fatta Brigit: a volte s’inventa le cose per obbligarci a darle quello che pretende o per spingere le vedette a competere».
Iron si limitò ad assentire, portando il discorso su qualcosa di più interessante e di gran lunga meno stressante.
«Ieri sono andato a provare l’abito per la serata. Una bomba».

***

Clayon e Niklas stavano salendo le scale, scambiandosi impressioni riguardo la 7.201.
«È assurdo che i componenti dei diruttori costino così tanto!» rampognò il primo.
«No, è assurdo che occorrano quattro mesi per averli» contestò il cugino, sbattendo le dita sul plico che avevano appena sfogliato. «Scherziamo? Le dime e gli stampi per la realizzazione ex-novo sono reperibili in una settimana presso il Deposito Brevetti della Colonia, è possibile farne copia entro un tempo ragionevole e con costi di gran lunga inferiori. Non abbiamo bisogno dei servizi della FinTrast, ce li faremo noi quei pezzi, con le nostre mani» dichiarò fermandosi sul pianerottolo tra le rampe, imitato dall’altro.
«Questa cosa mi piace, anche se è un po’ rischiosa. Noi non siamo una fonderia, le poche volte che ci siamo buttati su queste cose è stato per piccoli elementi, non per un intero sistema frenante».
«Vero, ma parliamo di un mezzo che una volta sistemato non supererà le tre miglia orarie. Sarà praticamente fermo» osservò con velato sarcasmo, aggiustando il polsino della camicia.
Clay lo fissò indeciso se ridere o darsela a gambe: col passare dei giorni gli sembrava di ritornare all’adolescenza e ai primi anni della “Legendary”, quando Scorch era una specie di dio in terra che con una sola parola sapere riordinare il caos e lui solo un ragazzotto sporco di grasso perfino nelle budella. Era felice per il suo cambiamento, ma dentro avvertiva il bisogno di prendere con le pinze la situazione: troppe volte suo cugino aveva dato segni di miglioramento che poi erano crollati miseramente alla prima difficoltà.
«Cosa intendi per tempo ragionevole?» domandò sperando di nascondere quei pensieri.
Niklas scorse le carte, osservando disegni e annotazioni.
«Direi… incluso l’inoltro della richiesta e la ricezione dell’assenso dal Deposito, l’acquisto del materiale da usare, la colata stessa e tutto il resto… non più di venticinque di giorni. Trenta al massimo, se dovessimo rettificare le copie e qualcuna dovesse risultare fallata. Resta il fatto che se ordiniamo già adesso il materiale per la fusione, entro un mese al massimo avremo…»
Grida e un fragoroso tonfo esplosero contemporaneamente sopra di loro. Qualcuno urlava ancora.
Irruppero nell’ufficio come due furie, pronti a qualsiasi cosa tranne ciò che gli si parò dinanzi: nella stanza c’erano solo Boy, Charlotte e LucyBelle.
La donna era a terra, schiacciata sotto la finestra con gli occhi sbarrati e le labbra livide. Tentava di respirare, ma dal suono strozzato che fuoriusciva dalla sua gola, era evidente che le riuscisse a malapena. Il lemure squittiva saltellandole intorno e allungando le zampe anteriori sul suo viso, quasi volesse accarezzarla.
La giacca di Jessie penzolava nel vuoto dalla botola sfondata del sottotetto e lui stava rannicchiato tra le carte sparse a terra, un braccio sulla testa e l’altro attorno alle ginocchia che teneva strette al petto.
«Smettila! Smettila!» gridò lui agitandosi.
«Boy finiscila di urlare, calmati» lo incitò Clay, inginocchiandosi per cercare di scoprire se fosse ferito o solo dolorante.
«Falla stare zitta! Zitta! Basta!» strepitò lui scalciando con la gamba destra.
Sembrava fosse attraversato da una scarica elettrica che lo faceva tremare violentemente.
«Charlotte! Respira, Charlotte! Con calma, con calma» chiamò Niklas sorreggendola. «Dio mio, che cazzo le hai fatto? Guardami, Charlotte. Guardami. Tranquilla, andrà tutto bene».
«Dev’essere asma. Bisogna aiutarla a respirare» fece distrattamente Clay, ricordandosi della serata al City Garden.
L’ingegnere allungò una mano verso la camicetta, ma un rantolo più acuto dei precedenti lo costrinse a fermarsi, spaventato forse più di quanto non fosse lei. Non voleva farle del male, né approfittarsi in alcun modo della situazione. Si vergognò dell’immagine orrenda che doveva averle dato in quei due anni, così bassa e spregevole da terrorizzarla anche in quel momento.
Boy piagnucolava in sottofondo, il lemure emetteva strani starnuti e Clayton taceva.
Cercò di trovare le parole giuste per rassicurarla riguardo le sue intenzioni, riuscendo solo a boccheggiare, gli occhi che guizzavano come impazziti sul suo volto.
«Fermo».
Bastò quella parola a farlo trasalire vistosamente, scansandosi all’istante quando la mano di Odrin toccò la sua spalla.
«Le è già successo. So cosa fare. Prendete Boy e portatelo via, prima che lo strangoli» consigliò, cingendo le spalle della donna.
Il progettista non accennava a muoversi. Stava in ginocchio, a domandarsi che diavolo ci facesse lì il loro addetto agli interni.
«Andate. A lei penso io» insisté l’Andull senza guardare altri che la segretaria, che ricambiava tentando di prendergli la mano.
Clay agguantò il cugino per la giacca, trascinandolo indietro.
«Scorch, dammi una mano. Boy non sta in piedi».

***

«Che ci facevi là sopra?» domandò Clay, allungandogli un paio di pasticche di antidolorifico.
Boy le inghiottì senza masticare né bere, abituato com’era a ingurgitarle dopo ogni scontro con il caro Benny.
«Fatti miei» borbottò pulendosi le labbra con la manica.
Scorch gli tirò un nocchino dritto sui piercing del sopracciglio facendolo sussultare, per poi sistemargli sul ginocchio sinistro un blocco di carne preso dalla ghiacciaia del cucinino.
«Non direi. Ti sei quasi azzoppato e hai fatto prendere un accidente a Charlotte! Sono fatti tuoi, suoi e anche nostri se lei non si riprende e ci troviamo con un uomo in meno» lo sgridò. «Forse non te lo ricordi Boy, ma qui siamo una squadra, lavoriamo tutti insieme!»
Dall’armadietto dei medicinali, Clayton spiò il cugino da sopra la spalla. Cominciava a sentirsi in soggezione quando parlava a quel modo, e sì che erano trascorse appena tre settimane dal suo addio all’alcol.
«Ehi, paparino, non è mica morta!» sbottò inacidito l’apprendista.
Cazzo, no. Cazzo che non era morta: mi ha sfondato la testa! Ma che diavolo è successo? Scorch ha detto che non stava gridando quando sono entrati, ma non può essere! Io l’ho sentita! rimuginò.
Aveva avuto l’impressione di essere finito in mezzo a degli enormi ingranaggi che l’avevano afferrato, stritolandogli il cranio. Ogni grido che aveva udito gli era esploso dritto all’interno del cervello, facendogli tremare persino le ossa dal dolore.
Cercò di scendere dal lettino, ma l’uomo lo afferrò per le spalle e lo inchiodò dov’era, fissandolo con rabbia.
«Resta qui e non ti muovere, vado a rispondere. Se provi a fare un passo prima che arrivi di Dottor Hernzt, guai a te» disse andando a rispondere al telettrofono.
Era chiaro che Charlotte non doveva essersi ancora ripresa dallo spavento o quell’affare avrebbe smesso di trillare da un pezzo.
«Che ti prende, Boy?» domandò Clay avvicinandosi.
«Che mi prende? Mi si è spappolato il cervello, capo. Vedi tu…» sbottò trattenendo l’ennesimo conato.
«Non fare l’arrogante o t’infilo qui dentro» rispose mostrandogli la bacinella di metallo che teneva in mano.
Jessie scrollò le spalle, colpevole. Aveva ragione: non c’entrava niente con quanto era accaduto, stava solo preoccupandosi per le sue condizioni.
«Scusami. È solo che… davvero, mi si sta spaccando in due la testa. Non volevo spaventare Charlotte. È stato un incidente».
«Però non mi hai ancora detto che ci facevi nel sottotetto».
Jessie avrebbe voluto spiegarglielo, ma si sentiva un perfetto cretino. Non aveva detto nemmeno a Ozone delle sue capatine lassù, così decise di fornirgli solo una versione parziale di quanto era accaduto.
«LucyBelle mi ha fregato il portafogli e mi sono arrampicato sul tetto per riprenderlo, sennò chissà dove lo cacciava. Sono entrato, l’ho seguita, non ho visto la botola e… ecco tutto» concluse mimando la caduta con le mani.
«Da dove sei passato per entrare nel sottotetto?» domandò accigliato il capofficina.
Occorse qualche istante, prima che l’apprendista decidesse di rispondere.
«Dalla scala antincendio dietro la cucina. Su in cima c’è un pannello mezzo svitato e sono entrato da lì. A proposito, sarà meglio andare a sistemarlo o volerà via al primo temporale. E mi sa che ce ne erano altri».
«Che ci facevi là? L’entrata della “Legendary” è dall’altra parte».
Il ragazzo fece spallucce, tastando il ginocchio tra mille smorfie. Era gonfio, probabilmente l’avrebbe fatto zoppicare per giorni, ma non sarebbe stato un problema per il lavoro: aveva sopportato di peggio.
«Ozone mi ha mollato a piedi da un po’ e la mattina arrivo da Carretera Bruja, non da Amyngton Boulevard. Entro dalla portina vicino al locale caldaie. Quando venivo con lui, non mi succedevano queste cose: a Lucy non piace il rumore del suo trabiccolo. Oh, parli del diavolo…»
Proprio in quell’istante, il volto barbuto del maestro aveva fatto capolino dalla porta dell’infermeria. Lanciò uno sguardo preoccupato al discepolo coperto di polvere e con la gamba infagottata alla bene e meglio, e ottenne una coppia di pollici levati senza eccessivo entusiasmo.
Scorch si affacciò per annunciare a Clayton che Avelan era al ricevitore e voleva parlare anche con lui.
«Ho solo due orecchie e me le ha già distrutte» si lamentò, ricevendo uno sbrigativo cenno di assenso.
«Ozone, dopo vieni in ufficio. Dobbiamo parlare tu ed io» annunciò uscendo. «E ricomincia a venire con Boy, ultimamente stai arrivando in ritardo» soggiunse mostrandosi piuttosto risentito.
Il motorista annuì solenne lasciandolo passare e chiuse la porta. Si avvicinò al ragazzo che l’osservava pieno di dubbi. Rigirava un paio di bulloni tra le dita, spingendo i polpastrelli callosi nei fori.
«Non lo so. Non hai sentito Charlotte?» mugugnò strizzando gli occhi per il fastidio, e Ozone negò cupo, accarezzando le trecce facendogli segno di raccontargli l’accaduto.
Quando poco prima il lamentoso richiamo di Boy l’aveva raggiunto al piano di sotto, vibrando attraverso il parapetto del ballatoio, aveva capito solo che era successo qualcosa di potenzialmente pericoloso per la loro sicurezza. Ciò nonostante, non aveva immaginato ci fosse di mezzo Charlotte, come ora gli stava spiegando.
«Non è la prima volta che mi succede con lei, vecchio» ammise sottovoce. «Quando è nei paraggi sento tutto amplificato, è come se anche i muri fossero di ferro o d’ottone. Che cazzo può essere? Qualche gioiello? Le stecche del corsetto? Ma se è così, perché le sue sì e quelle di Sandy o no? Sarà il materiale?»
Ozone sedette pesantemente sul lettino, facendolo cigolare. Dalle prove che avevano effettuato, Boy non era risultato insolitamente sensibile all’oro, all’argento, al rame, al nichel, né alla maggior parte dei metalli puri con i quali avrebbero potuto avere a che fare per lavoro. La possibilità che la donna indossasse frammenti di un metallo puro sarebbe stata accettabile se si fossero potute reperire grandi quantità dello stesso: per scatenare una reazione appena apprezzabile, sarebbe stato necessario che Charlotte avesse addosso un blocco da almeno sei libbre di metallo, cosa di per sé improbabile.
«Non dire stronzate» rimbrottò Boy scoccandogli un’occhiata in tralice. «Charlotte non andrebbe in giro con certe cose infilate… insomma… lì».
La sola idea era raccapricciante, sebbene degna delle molteplici esperienze in campo erotico del suo mentore. Tuttavia gli era impossibile anche solo accostare il nome della loro segretaria a qualsiasi bislacco giocattolo sessuale. Persino azzardare che una come lei s’intrattenesse in intimità con un uomo gli suonava assurdo, quasi stesse pensando a una sorella maggiore o, peggio, a sua madre.
«Ma dico, ti sembra il tipo che fa certi giochetti? E poi, con chi? Con Scorch? O con te?»
Affatto contrariato dall’insinuazione, l’attempato meccanico fece spallucce, ruotando i bulloni in un gesto eloquente.
«Ti prego, risparmiami queste fantasie. Non voglio vomitare ancora» rimbrottò il ragazzo. «Ozone, quella non me la racconta giusta. Perché io la sentivo gridare, se Scorch ha detto che la sua asma era così forte che nemmeno riusciva a respirare? Nessun’altro l’ha sentita, neanche tu! Solo io!»
La sua espressione contrariata e sofferente convinse il maestro ad abbandonare gli scherzi. Si portò la mano alla gola e per lunghi minuti Jessie rimase in ascolto, annuendo di tanto in tanto o replicando a monosillabi, finché le mute riflessioni non ebbero termine.
«E se ricapita? E se anche lei comincia a sentirci?» domandò sempre più allarmato. «Cosa facciamo?»

***

«Mi secca dirlo, ma Scorch ha ragione. Dobbiamo allentare quei lacci e farti respirare» disse sciogliendo il nastro attorno al colletto, non appena ebbe chiuso la porta alle spalle degli altri.
Charlotte lo fissava tremando con gli occhi pieni di paura, pallida e incapace di reagire.
«Pensavi che l’avrei lasciato fare a lui?» scherzò, tentando di strapparle un sorriso che non venne.
Armeggiò con i bottoni, facendoli passare uno a uno negli occhielli e fermandosi solo per scostarle i capelli dalla fronte. Scostò i lembi della camicetta, scoprendo la gabbia che stringeva il torace della donna. Non si era aspettato nulla di diverso: un corsetto color corda, molto semplice, quasi anonimo se non fosse stato per un sottile velo di pizzo che ricopriva le fasce che sostenevano il seno.
Fece scorrere la mano fino a trovare i lacci, curiosamente posti sul fianco e non sulla schiena come avrebbero dovuto essere. Lei si morse le labbra, mescolando lacrime agli ansiti. Continuò a fare cenno di no con la testa, man mano che sentiva il corsetto allentarsi. Rabbrividì con uno strilletto quando la mano di Odrin s’insinuò sotto la crinolina, liberandola.
«Stai tranquilla: ho chiuso la porta a chiave, nessuno verrà a disturbarci. Avrai tutto il tempo per…»
Qualcosa di duro e freddo premeva contro la camiciola, disegnando un arco sopra il seno sinistro. Charlotte cercò di stringergli il polso. Lui sorrise, mormorando parole in Andull per prenderla in giro e rassicurarla. Scostò la stoffa sottile, scoprendo lo spesso profilo di quella che pareva essere una borchia metallica grande quanto una mano.
«Cos’è quello?» sibilò ritraendo di scatto la mano.
Lei si morse le labbra, cercando di respirare.
«Cosa sei tu?» ringhiò disgustato arretrando fin contro il divanetto.
«Odrin, ti prego… lascia che… ti spieghi…» ansimò, mettendosi a sedere con immensa fatica.
Le occorsero alcuni minuti per riuscire a calmare i capogiri e il timore che l’attraversava con ondate violente.
«Questo è… il mio… cuore» esalò, i capelli che ricadevano arruffati sul suo viso ancora pallido.
Le mani dell’artigiano si contrassero rapide in pugni che premevano rabbiosi contro i pantaloni da lavoro.
«Io… non ho più… un cuore. Da molto… molto tempo» disse stringendosi nella camicetta.
«Taci».
«Ho dovuto farlo. Era la sola possibilità per…» tentò di spiegare.
Leggeva sul suo volto il profondo disgusto che la scoperta gli aveva provocato; la terribile sensazione che Aggad potesse aver ragione in qualche modo: lei non era degna di stargli accanto.
«Taci. Stai zitta» le intimò arretrando. «Hai commesso il peggiore degli abomini. L’atto più depravato che si possa immaginare. Violare la sacralità di un corpo, corromperne la perfezione sostituendo una parte con una macchina!» latrò.
«Ma io dovevo…»
«Taci!»
La sua voce era appena più alta del solito, ma intrisa di una tale rabbia da renderla assordante quanto un boato. LucyBelle rizzò il pelo per la paura e si nascose alle spalle di Charlotte.
«Non potevo dirtelo… Avevo… Ho paura» singhiozzò.
Avere una protesi meccanica al posto di un arto era una cosa che la gente accettava con tranquillità, ma la sostituzione di un organo con un congegno era una pratica che suscitava sdegno e ostilità: troppo spesso ci si era imbattuti in uomini che avevano usato apparati simili per commettere crimini, torturare o, peggio ancora, per imbrigliare i poteri dell’alchimia. E il solo sospetto di quest’ultima garantiva un biglietto di sola andata per la prigione di stato.
Il silenzio si fece denso e pesante. LucyBelle sporse il muso osservando i due che, immobili come statue, affrontavano lo scorrere dei secondi e dei minuti in attesa di qualcosa.
Le lacrime bagnavano le guance di Charlotte, spossata e afflitta. Odrin camminò per la stanza, in preda ad una rabbia mai provata prima. Sentì un profondo ribrezzo per il ticchettare delle condotte che dalle caldaie passavano sotto il pavimento: aveva l’orribile sensazione che ingigantissero l’eco di quel congegno perverso ammorsato nelle carni della donna.
«Non avere paura. Non averne più» disse fermandosi d’un tratto accanto alla porta.
Improvvisamente la sua voce era tornata calma. Si voltò con lentezza, inspirando profondamente.
«Dimentica tutto. Anche me. Non voglio avere niente a che fare con una retch».
Charlotte sbarrò gli occhi, atterrita. Nella tradizione Andull, le retch erano esseri malvagi e deformi, spiriti femminili erranti che seducevano gli uomini per impossessarsi della loro l’anima, soggiogandoli a piacimento; creature che si mutilavano per ricomporre il proprio corpo usando immondizia, pietre, cadaveri e tutto ciò che aveva ormai cessato di vivere.
«Come hai potuto nascondermelo?» le domandò atono, gli occhi grigi svuotati di ogni affetto.
«Per favore, Odrin… ascoltami…» lo supplicò, ma l’artigiano aveva già fatto scattare la serratura.


Writer's Corner.
Grazie a tutti i lettori e recensori, sia "in chiaro" che occulti. E ben arrivato (arrivata?) ad AleGritti92. Aspetto i tuoi commenti!
   
 
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