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Autore: thepassenger_    02/12/2013    2 recensioni
“Via degli Speziali, 22: casa delle fate. Ti devo un caffè.”
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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C’è troppo fumo. I rivoli grigiastri dei mozziconi nei portacenere ingialliti salgono, creando una sorta di controsoffitto nebuloso, un iperuranio in miniatura che vortica tra le pale del ventilatore: non posso averne fumate così tante.
Osservo i vari tavolini che boccheggiano tra il miasma e l’afa che attraversa la porta chiusa, impregnando le pareti e i vestiti dei personaggi che tappezzano il bancone. Mi consolo notando che non sono l’unico: un tizio ne fuma addirittura due contemporaneamente, intento a osservare con sguardo perso il televisore che staziona sopra il frigo, occhieggiando dei movimenti confusi di gambe, magliette e numeri. Anche la birra che ha davanti sembra soffrire, lasciando colare la sua noia lungo il vetro scuro della bottiglia.  Un altro, intento a fissare la collezione di amari, rimane inspiegabilmente in bilico sullo sgabello, accasciato sul tavolo con il braccio lungo il fianco, la cenere che cade danzando sul marmo consunto. Non siamo rimasti in molti, qui dentro.
La luce fuori è strana, quella che succede a un pomeriggio di sole ardente, in quel lasso di tempo che attende la cascata di nero che coprirà la città, cercando di farla addormentare, dopo che i raggi abbaglianti l’hanno accecata. Il solito orologio, in ritardo di sei minuti da tempo immemore, segna che è giunta l’ora di andare. Ancora nessuno.
 
Oggi sono esattamente tre anni e diciotto giorni da quando attendo che qualcuno accetti il mio caffè sospeso. Ricordo ancora quando me lo raccontò mio nonno, poco prima di fumare la sua pipa.
«In passato era così, quando ancora qualcuno metteva da parte le fesserie materialiste e lasciava libero spazio alla solidarietà. Come non rimpiangere quei tempi, quando ti rendevi conto di essere vivo prima di cadere nell’oblio siderale della monotonia. Non lasciarmi divagare, figliolo: ti narravo del caffè sospeso. Tradizione vuole che un uomo benestante, al bancone del bar, ordinasse due caffè, nonostante fosse solo. Il primo lo gustava da sé, compiacendosi del frugale momento di tranquillità interiore nel caotico vivere, mentre il secondo caffè era più simbolico che tangibile. Il caffè sospeso era quello che avrebbe soddisfatto la richiesta di un individuo indubbiamente meno ricco o semplicemente di chiunque conoscesse l’usanza del caffè: il tale, entrato nel bar, avrebbe domandato se per caso vi fosse un caffè sospeso, quello appunto lasciato dall’agiato sconosciuto».
Diede una boccata alla pipa e sospirò, sbuffando archi di fumo latteo nel tepore pomeridiano, mentre il dito ossuto scorreva velocemente le pagine ingiallite di un vecchio tomo scrostato.
Parlava un perfetto italiano, il nonno: nessun accento, nessuna cadenza, congiuntivi impeccabili. Insegnava italiano e latino al liceo Umberto I e non trascurava nemmeno una virgola. Severo, preciso, esigente, eppure mai algido e distaccato; era molto stimato, tutti pendevano dalle sue labbra e ricorrevano a lui per consigli di qualsiasi sorta, o semplicemente per un aneddoto.
Ricordo le domeniche estive in cui i suoi ex alunni gli recavano visita: il tè freddo, le sfogliatelle croccanti della nonna, l’imbarazzo, le parole. Le parole mi stupivano ogni volta. Ero piccolo, undici anni appena, eppure il nonno mi obbligò presto a leggere: non libri per bambini, no. Uno, nessuno e centomila di Pirandello. Per un paio di mesi credei che il mio naso pendesse verso destra e temei d’avere una doppia personalità.
Ascoltare il nonno parlare era come lasciarsi scivolare nel vortice armonioso di un’orchestra di fiati, che oscilla tra un pianissimo iniziale e un crescendo maestoso, un incedere sontuoso di vocaboli e ipotassi ricercate, trascinati dal sentore di mentolo che si sollevava dall’onnipresente pipa e dal profumo della crema dei dolci, mentre le ore si rincorrevano veloci e i racconti finivano nella malinconia.
«Se solo potessimo recuperare certe tradizioni… Invece no, meglio rincorrere sogni fatti di soldi, piuttosto che godersi ogni singolo minuto. Carpe diem, Francesco. Sai cosa significa?». Lo osservavo dietro gli occhiali storti, guardando come i riccioli bianchi si facevano sempre più lattescenti, fiocchi di neve che gli crescevano sulla testa. «No, nonno. Me lo spieghi, per favore?» e a ogni mia sortita del genere, il vecchio sorrideva compiaciuto, incrociando le mani sul ventre e trattenendo la pipa in bilico tra le labbra.
«Certo che sì, figliolo. Significa cogli l’attimo, ossia assapora ogni esperienza e memorizzala. Non farti ingannare dal tempo, in realtà non ne abbiamo poco, ma lo gestiamo male. Da bambini non capiamo, da adolescenti non vogliamo farlo, da adulti siamo costretti ad accettare, mentre da vecchi iniziamo a comprendere, ma ormai è tardi. Non darti per vinto, anche se sembra che tutto vada male, che la tua casa di fate ti crolli addosso rivelando un labirinto di ombre. Vivi
 
La corsa delle gocce sulla bottiglia di birra si fa sempre più dinamica, finché il traguardo diventa reale ed esse si scontrano controvoglia, unendosi nell’urto finale contro il bancone, dove lentamente moriranno. Un po’ come le vite umane, intrecci distruttivi con un unico fine.
Mi alzo, lascio i soldi sul tavolo e saluto con un cenno il proprietario, che mi fissa con la solita sconsolatezza. È solo uno dei tanti nomi da aggiungere alla lista di coloro che non mi credono. Mio fratello, mia madre, mia nonna, persino il mio gatto: lo deduco dal suo sguardo di disprezzo ogni volta che torno dal bar.
Fuori il calore persiste, ma ormai il cielo ha assunto la sua tavolozza notturna, con i lampioni che aspettano di fare la loro parte, mentre i ciottoli dissestati mi riaccompagnano a casa. Respiro l’olezzo dell’olio per la frittura insieme al profumo degli arancini fragranti, mentre lo stomaco pretende una ricompensa. Tiro dritto, l’ho già sfondato con un’eccessiva dose giornaliera di caffè e vorrei evitare un’altra notte in bianco. Mi appoggio a un muretto ricoperto di eresie e disegni osceni, illuminando a scatti il buio attorno a me con un accendino che muore lentamente. La sigaretta si sgretola: ashes to ashes.
Lascio cadere lo sguardo sul mio abbigliamento da pseudo americano anni ‘50, un James Dean post mortem. Le caviglie richiedono riposo, strette negli anfibi slacciati, un paradosso dolorante. Li tolgo e inizio a passeggiare nell’erba secca del parchetto abbandonato, cercando di rimanere dritto su di un filo invisibile che si delinea davanti a me; oscillo per mantenere un equilibrio che non ho, le braccia aperte e stese nell’aria, i capelli davanti agli occhi e la sigaretta in bilico come la pipa del nonno. Quest’ultima cade, una lucciola morta nella sterpaglia grigia, mentre nella mia mente si tratteggiano frasi poco consone che attirano l’ira degli dèi: era l’ultima. Mi accascio a terra, le gambe incrociate, giocando con la fede del nonno che porto al collo.
 
La chiesa era piena, il giorno del funerale. Non un posto libero, non un chierichetto in ritardo, non un fazzoletto gualcito: sembrava più una festa che un addio. Mamma piangeva, nonna pregava, mio padre assente come sempre; l’impresario mi chiese se volevo vedere per l’ultima volta il nonno prima che la bara venisse sigillata, mentre si allentava con due dita il nodo della cravatta troppo stretta. Si allontanò, lasciandomi solo con il sorriso sghembo del vecchio, la ruga in mezzo alla fronte ancora più marcata.
Lo fissai, cercando di ricordare la prima volta in cui l’avevo visto: non vi riuscii. Adesso era lì, di fronte a me, immobile, impostato come sempre, il vestito ceruleo della domenica, la farfalla con il monogramma. Volevo dirgli qualcosa, sentivo il bisogno di ricordargli che era sempre stato la mia guida spirituale e avrebbe continuato a esserlo nonostante l’assenza eterna, ma le labbra secche e incollate tra loro non si aprirono, lasciandomi paralizzato a pizzicarmi il dorso delle mani.
Percepii la voce dell’impresario che consolava le donne della vita del nonno con parole di circostanza, schiarendosi la voce di tanto in tanto. Dovevo fare qualcosa, almeno un ultimo ricordo: fissai la fede sull’anulare, brillava più del solito. Uno scatto repentino. Mi sfilai dal collo la minuscola croce di legno e la tolsi dalla catenina, poi strinsi la mano del vecchio e gli sfilai la fede, non senza fatica. Gli incastrai tra le dita il crocefisso, mentre lasciai scorrere l’anello sulle maglie minute, per poi infilarla finalmente al collo, con un brivido freddo lungo la schiena, quasi avessi compiuto un’azione sacrilega.
Avevo diciassette anni e da allora iniziai la mia condotta da intellettuale. Lessi tutti i libri della biblioteca del nonno, iniziai a portare solo camicia e cravatta, scarpe bicolori, capelli ribelli. Trascorrevo i pomeriggi chiuso in casa tra i libri, con lo stereo di sottofondo che spaziava dalla musica classica al jazz, dal blues al rock che mi aveva fatto conoscere il vecchio. Emarginato dai compagni, disprezzato dalla mia stessa genitrice, che ogni giorno mi chiedeva con lo stesso tono quando avrei smesso di comportarmi da demente e mi sarei fatto una vita vera. Non le detti mai la soddisfazione di una risposta.
Me ne fregavo di tutto, trascorrevo i sabati sera seduto nel parco con una bottiglia di vino rosso e le poesie originali di Baudelaire. Spesso non finivo le poesie, ma il vino sì, forse troppo velocemente.
Trascorsi due anni così, finché mio padre non decise finalmente d’andarsene e mia madre cadde in depressione. La casa delle fate mi franò realmente addosso e il dedalo delle ombre si fece eccessivamente realistico. Sostenni mia madre, che dopo svariati mesi iniziò a riprendersi e a rifarsi una vita, ma lasciai cadere quello che ero io. L’intellettuale non esisteva più, aveva lasciato il posto a un altro escluso, che aveva iniziato a odiare il mondo, a fumare e ad associare al sabato non più una, bensì due bottiglie di vino. Non alcolizzato, no: speravo solo che il mio sangue diventasse veleno.
 
Non una stella in cielo, non un passante per strada. Rimetto gli anfibi e m’incammino, trascinandomi con disprezzo verso me stesso. Un altro giorno sprecato.
Infilo le chiavi nella serratura del palazzo, per poi incespicare sugli scalini fino al numero diciannove: un nuovo chiavistello, un’altra chiave. Cammino al buio, apro la porta sul terrazzo e accendo la luce esterna, mentre un’ombra nera e veloce s’infila tra le mie caviglie e due perle verdi si delineano nell’oscurità. Un nuovo sguardo di sdegno.
«No, nessuno, nemmeno oggi. Domani smetto.» Miagola con sufficienza, ondeggiando verso la cucina scura. Lo seguo, facendo luce con la porta aperta del frigo. Dopo averlo sfamato sembra più riconoscente, infatti torna al terrazzo e si stende, osservandomi con curiosità. «Non fissarmi, Mefisto. C’è già abbastanza gente che mi disprezza, non continuare pure tu».
Mando giù un sorso di birra, riflettendo su ciò che ho fatto finora per vivere: ho solo seguito il consiglio del nonno, «vivi». Troppe esperienze, talmente tante da non riuscire a tenerne conto. Osservo il gatto, ormai addormentato, acciambellato nell’angolo della porta. Vorrei vivere così, noncurante e felice, invece mi ritrovo a guardare il calendario per vedere cosa mi aspetta domani: inglese con Violante, latino con Giorgio, spesa, banca, bar, nottata in radio. Finisco la birra, getto la bottiglia e inizio a tirare fuori i libri per le ripetizioni: Keats, Seneca... Butto tutto sul tavolo, noncurante nei confronti della cultura.
Un giro sotto la doccia, poi steso sul letto osservo fuori dalla finestra un lampione intermittente che si spegne definitivamente mentre ancora cerco d’addormentarmi. Mefisto mi fissa dal cuscino, gli occhi così intensi che mi ricordano quelli di Rachele, due opali iridescenti che mi trafiggono la spina dorsale. Sbatto le palpebre cercando di cancellare l’immagine dalla mente, ma si fa invece più nitida e amara.
 
La incontrai sul treno per Milano sei anni fa. Anzi, lei trovò me, mezzo addormentato con i piedi sul sedile davanti, il finestrino abbassato, la barba lunga e la cravatta sulla maglia bianca. Due occhi ipnotici, talmente grandi da confondersi con il riflesso del paesaggio che scorreva veloce fuori dal vagone.
Si chiuse la porta alle spalle e si gettò sul sedile, allungando le gambe nude davanti a sé, mentre dalla borsa logora estraeva un pacchetto di Gitanes e ne accendeva una, aspirando la prima boccata. Rimase immobile per un tempo indefinito, senza respirare, per poi soffiare una bolla biancastra verso il soffitto.
Mi fissò, catturandomi con quelle armi magnetiche e bistrate. C’era qualcosa di liquido, lì dentro, un barlume d’oro liquefatto che t’impediva di agire o semplicemente di respirare.
«Vuoi?»
La gola arsa e le labbra aride, come all’obitorio con il vecchio. La stessa sensazione del cambiamento imminente, l’azione blasfema che intuii avrebbe comportato svariate conseguenze, probabilmente negative. Lei stava lì, curva, la sigaretta tra le dita tremanti: rise, gettando indietro la testa, mentre le ciocche corvine flebilmente appese agli angoli delle piccole orecchie caddero, coprendo i due opali.
«Basta rispondere no, non serve fissarmi con la bocca aperta. Mica ti ho chiesto di spararti».
Ghignai, cercando di riprendermi il ruolo da algido spietato.
«Sì, grazie, ne gradirei una. Sempre se non le dispiace, demoiselle aux yeux verts».
Sorrise, infilando nuovamente le mani in quella borsa sdrucita e gettandomi il pacchetto quasi vuoto.
Fu l’inizio della fine. Ricordo solo che quando scesi da quel treno non ero più lo stesso. Solito incontro che cambia la vita in positivo? No, era diverso. Da quel giorno la mia vita divenne letteralmente un inferno: mi rimangono solo il mozzicone della sua sigaretta, un indirizzo di Firenze scritto con il rossetto scarlatto su uno scontrino di un negozio di dischi e un numero di telefono indecifrabile.
La cercai a Firenze. L’indirizzo dell’appartamento esisteva, ma vi abitava un’adorabile vecchietta che riuscì a raccontarmi la sua intera vita in due ore e ventitré minuti, costringendomi a ricordarle ogni quarto d’ora il motivo per cui ero finito lì, senza risultati. Provai e ritentai più volte a scervellarmi sui numeri ormai sbiaditi, cui rispondevano voci di donna, interni inesistenti e pure un convento.
Una notte, dopo aver leccato il tappo di sughero di un vino così eccezionalmente buono d’avermi fatto rimpiangere d’averlo terminato così presto, mentre Mefisto sognava sul mio cuscino digrignando i denti, mi attaccai al telefono e al settimo tentativo sentii la sua voce.
Parlammo tutta la notte, senza che lei si scusasse, eppure non me la sentii di accusarla od offenderla, perché avvertivo la sua voce così vicina, quasi come se il suo respiro penetrasse direttamente nel mio collo. Non ricordo nemmeno cosa ci dicemmo, probabilmente riuscimmo a raccontarci le nostre vite senza nemmeno avere il tempo di riflettere su come le avessimo realmente vissute fino ad allora.
Mentre l’ultimo cirro aranciato lasciava il cielo ormai terso, la sua voce ovattata mi salutò, dopo avermi dato un nuovo indirizzo e un altro numero. Così la persi di nuovo.
Continuò allo stesso modo per mesi, mentre la mia pazienza veniva meno e lasciavo che la rabbia si incanalasse in diverse azioni, tanto da farmi perdere svariati impieghi, come il posto fisso al liceo del nonno, e farmi trascorrere due confusi mesi di arresti domiciliari per una rissa nata dopo una nuova vana ricerca dell’inesistente casa delle fate.
 
Non ho dormito, ho finito la birra e tra dieci minuti arriva Violante. Infilo la testa sotto al rubinetto, cercando almeno di non avere due occhi venati di piccole piaghe rosse e il segno del cuscino sulla guancia destra. Mefisto fa le fusa soddisfatto, contento del mio ritorno alla normalità.
Il campanello suona: sempre in anticipo. Apro, trovandomi davanti Violante con due occhiaie più pronunciate delle mie, uno sguardo di sconforto e i libri quasi nuovi tra le mani.
«Bel risveglio per entrambi, direi. Ascolta, lascia i libri sul tavolo e siediti. Oggi parleremo di Edgar Allan Poe e di come la sua vita sia stata una costante caduta verso il baratro, l’abisso più nero che l’ha trascinato con sé verso la follia e di come la sua vita assomigli tanto alla mia».
L’ora passa veloce e la sua attenzione cresce incessantemente, mentre mi rendo conto d’aver totalmente rivoltato il consiglio del vecchio e di essermi costruito una vita inutile e senza punti fissi. Lei se ne va appagata, io rimetto la testa sotto il lavandino.
Dopo una lezione sulla morte con Giorgio, decido assennatamente di gettarmi sul letto sfatto e trascorrere un pomeriggio di sonnambulismo e autocommiserazione, dimenticando il calendario.
 
Esco quando il cielo diventa cupo, mentre nulla cambia: strade, vicoli, persone. L’insegna del bar dondola, accompagnata dalla nenia afona del vento. Entro, subito inondato dall’alone di fumo, circondato dalle solite facce da parete. Eppure qualcosa non torna: una freschezza nuova, quasi impercettibile in questa coltre grigia.
Il proprietario mi fissa, una luce negli occhi e un ghigno sul viso di colpo ringiovanito. Mi chiama, un breve cenno con le dita della mano, indicandomi una tazzina vuota sul bancone, macchiata di fondi e rossetto.
«Qualcuno ha accettato il tuo caffè sospeso. E non era un qualcuno qualunque».
Osservo una sbeccatura sul piccolo manico senza capire, con il vino fatto fuori in un pomeriggio che ancora mi annebbia vista e cervello. Una cartolina ingiallita sotto il piattino attira la mia attenzione: Firenze. La prendo e la volto, scoprendo una calligrafia che mi sferra una pugnalata nella milza, costringendomi ad appoggiarmi con le dita libere al bancone.
«Particolare, la tua amica. Aveva dei capelli impossibili, pareva la Medusa del Caravaggio. Quegli occhi… È scappata di corsa, stava perdendo l’ultimo treno. Sbrigati.»
Non lo sento nemmeno, impegnato a saltare il muretto indecente mentre il cielo è pesante sopra di me.
 
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