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Autore: Cathy Earnshaw    05/12/2013    2 recensioni
"Era una calda serata estiva, di quelle che restano incollate addosso con il loro profumo di fiori e di rosmarino, con il frinire delle cicale, con le risate degli amici. Tutta la popolazione della piccola cittadina di Pothien si era riunita nella piazzetta principale. La musica colorava con le note eteree dell’arpa le serate del Nord della Terra dei Tuoni, e i cantori narravano le loro storie affascinanti a chiunque le volesse ascoltare."
Non è un'introduzione, lo so..ma credetemi se vi dico che è ancora tutto troppo vago anche per me per poter scrivere un'introduzione coerente ;) Vi piaciono i racconti con maghi, elfi, duelli e lunghi viaggi in terre desolate? Benvenuti nella Terra dei Tuoni, amici!
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Di guerre e cascate - La Terra dei Tuoni'
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L’aria era fredda, dopo il tramonto. L’autunno si avvicinava velocemente, e a Nord del Lago di Nebbia il clima era sempre un po’ più rigido. Anche se non quanto a Madian. Amina non era più tornata nella sua città d’origine, dopo il Consiglio di Effort. In parte perché il Governatore si era dichiarato immediatamente alleato di Micael dell’Acqua, in parte perché la brutta cicatrice della devastazione di Djalmat le riportava alla mente tutto il terrore e la disperazione di quei giorni. Anche se, allora, c’era ancora qualcuno capace di riempire il suo mondo…
Da ore, la maga non faceva altro che pensare e ripensare a che cosa potesse essere andato storto, ma non c’era niente, niente, che potesse aver sbagliato. Le indicazioni erano chiare e semplici, non lasciavano margine d’errore, e lei le aveva seguite alla lettera. E di certo non era probabile che l’elfo che le aveva copiate nella sua bella grafia avesse sbagliato. L’unica spiegazione possibile era che il fisico di Irthen avesse reagito in modo leggermente diverso rispetto a quanto previsto. Forse si sarebbe svegliato prima. O forse, come temeva Liam, avrebbe avuto la febbre alta per sette giorni…
Scosse il capo per allontanare l’immagine del mago. Una parte di lei si rimproverava per averlo cacciato, nonostante le avesse chiesto scusa; l’altra parte, quella permalosa e mortalmente offesa, rimpiangeva di non avergli lasciato anche lo stampo di cinque dita sulla faccia.
“Tutto in poche ore…” pensò, soffocando una risatina isterica. “Questo è quello che ti meriti per aver fatto l’oca”.
«Sii positiva, Mina» sbottò ad alta voce. «Tutto questo può solo significare che il risveglio di Ir è vicino!»
«Esatto» disse una voce alle sue spalle.
Amina si volse di scatto.
«Dovresti stare a letto, Stan» mormorò, cercando di normalizzare il battito cardiaco.
Quella voce, per un momento, giusto una frazione di secondo, cogliendola di sorpresa, l’aveva catapultata indietro nel tempo. Ma non apparteneva ad Alec, come il suo subconscio le aveva fatto credere, bensì al suo gemello, identico a lui in così tante cose. Incluso quel sorriso sornione che negli ultimi tempi aveva iniziato a sfoggiare.
«Non posso stare a letto. E non potete trattarmi tutti come se avessi già un piede nella fossa. È per questo che sono venuto a cercarti…sì, lo so, fuori fa già freddo. Ma sei tu quella che passa le sue serate in un orto.»
Mina ascoltò con crescente apprensione dell’intenzione di Konstantin di accompagnare Ruben a Bosco Lossar per parlare personalmente con gli Unicorni, e nonostante ormai le facesse male il collo a forza di scuotere la testa, suo cognato non voleva sentire ragioni.
«Qui non sono di alcun aiuto, Mina.»
«Sei di aiuto a te stesso!»
«E a chi giova? Starmene qui buono buono non aiuterà te, come non aiuterà Ruben, né Aqua, né nessun altro. Apprezzo che tu tenga alla mia salute, ma non sono inconsapevole delle conseguenze in cui poteri incorrere viaggiando in queste condizioni.»
Amina si rabbuiò.
«Quindi non ti importa nulla del mio parere? Né delle ore di sonno che perderò?»
«Mi importa, e te ne sono grato. Ma non posso permetterti di servirtene per ricattarmi, ora.«
La maga abbassò lo sguardo.
«D’accordo, Stan. Sta bene» rispose piccata. «Se è questo che vuoi, non sarò certo io a fermarti. Sei grande abbastanza da decidere per te stesso, giusto?»
«Sei arrabbiata?» domandò esitante.
«Sì. Sì, sono arrabbiata. A quanto pare è vero, non so fare il mio lavoro, mi sono delusa da sola.»
«Chi ti ha detto una cosa tanto sciocca?»
Amina scosse il capo, incapace di parlare per il nodo di pianto represso che le bloccava la gola.
«Perché ti preoccupi tanto per me?» domandò ancora.
La maga sgranò gli occhi. Che domanda assurda! Perché gli voleva bene, non era abbastanza ovvio? Perché c’erano sempre stati l’uno per l’altra, anche quando Alec se n’era andato, si erano sostenuti a vicenda, avevano ricucito le reciproche ferite. Avevano combattuto fianco a fianco le loro battaglie personali, avevano…
«Mina?» incalzò.
«Quasi dieci anni di amicizia possono racchiudersi in una parola?» balbettò confusa.
Konstantin aggrottò le sopraciglia, e alla maga non sfuggì il breve sospiro esasperato. Sentendosi di nuovo inadeguata e reprimendo la frustrazione, Amina ripeté:
«Possono?»
«Sì, possono» rispose Stan, voltandole le spalle e incamminandosi con il braccio al collo lungo al vialetto.
«Non andarci, ti prego! Ci sono tanti maghi che rischiano di meno a viaggiare, e non c’è nemmeno Oliandro, là» farfugliò.
«Dammi un buon motivo, Mina. Dammi la motivazione che cerco» rispose il mago fermandosi.
Amina raggelò e non seppe rispondere. Improvvisamente, e per un brevissimo momento, si era accesa una candela nella sua mente, che le aveva lasciato intravedere i contorni di qualcosa, nell’ombra, ma non era rimasta accesa abbastanza da permetterle di mettere a fuoco. E, ripiombata nel buio, le era rimasta un’unica, istintiva certezza: una risposta, di qualunque genere, poteva costarle cara.
Davanti al suo silenzio, Konstantin scosse il capo e se ne andò, senza aggiungere una sola parola, senza lasciarle la possibilità di chiedere spiegazioni, senza lasciarle il tempo di salutare.
 
Aqua alzò l’arco davanti al viso, la freccia incoccata le sfiorava la guancia, mentre mirava il bersaglio. Scoccò, e la freccia mancò il centro di una spanna. La ragazza sbuffò.
«Secondo me non hai calcolato bene il vento. E la luce non aiuta, con il crepuscolo le ombre giocano brutti scherzi.»
Aqua non si volse nemmeno. Avrebbe riconosciuto la voce di Chloé tra mille, con tutto il tempo che aveva passato a sorvegliarla.
«Io invece credo di avere una pessima mira» sbottò.
«Non direi. Anzi, stai utilizzando un arco piuttosto impegnativo per una stazza come la tua. Sei minuta, devi essere molto forte per riuscire a tendere un arco come quello, e arrivare tanto vicino al centro…»
Aqua incoccò un’altra freccia, ma ci ripensò e abbassò l’arco.
Posò l’arma e si girò, imponendosi di non sfogare su di lei la sua rabbia repressa.
«Hai bisogno?» domandò.
La bionda si strinse nelle spalle e una ciocca di capelli le cadde sul naso.
«Veramente no, ma ho pensato che sarebbe stato interessante scambiare due parole con te. Infondo, mi hai osservata tanto a lungo da poter dire di conoscermi, suppongo. Beh, vorrei poter dire la stessa cosa, perciò…» le tese la mano.
Aqua aggrottò la fronte. Che sciocchezza, aveva interrotto il suo allenamento per presentarsi ad una persona che già la conosceva? Qualcosa nel cipiglio deciso di Chloé la fece sorridere. Aveva qualcosa di diverso dall’ultima volta che l’aveva vista, anche se non avrebbe saputo dire cosa. Le tese la mano.
«Questo arco era di mio nonno. Tu ne usi uno diverso?»
La bionda annuì.
«È più piccolo e maneggevole. Credo che per una donna sia più pratico da gestire.»
«Te ne intendi di armi?» domandò la maga, interessata.
Trovarsi faccia a faccia con lei era tremendamente strano.
«No, per la verità no. Solo di archi e frecce. Prima di trasferirmi ad Effort mi piaceva cacciare» spiegò.
«E sei brava?»
«Me la cavo. Anche se con la pratica non sono brava quanto con la teoria» sorrise fissando il nulla.
Aqua si domandò se si fosse persa in qualche ricordo piacevole.
«Tuttavia» aggiunse «al momento sono un po’ arrugginita.»
La ragazza avrebbe voluto ribattere che certe cose, una volta imparate, non si dimenticano facilmente, che le sarebbe bastato un po’ di allenamento, ma ogni buon proposito si assopì quando focalizzò Debrina che si faceva loro incontro. Chloé seguì il suo sguardo con un sopraciglio alzato.
«Che vuoi, Debrina? Non vedi che stiamo parlando?» sibilò Aqua.
Debrina le lanciò un’occhiata offesa.
«Sempre disponibile tu, vero?»
«Colpa mia, Dede!» intervenne Chloé, con tono conciliante. «L’ho interrotta sul più bello, e ho anche dato consigli inopportuni. Anzi, è meglio che vada ora! Devo farmi lasciare da Ruben le consegne prima che parta. Sei in partenza anche tu, vero?»
Debrina annuì e Aqua represse a fatica l’istinto di tirarle un calcio.
«Buon viaggio, allora! Non fare impazzire Rowena!»
«Ho paura che sia più facile il contrario.»
Chloé salutò con la mano e si allontanò.
Aqua la guardò allontanarsi, con una punta di invidia: la bionda era bella, intelligente e tutti la apprezzavano.
«Mio fratello non sarebbe felice di sapere che stai guardano il di dietro della sua donna» commentò Debrina con un sorrisino ironico.
Aqua la guardò storto.
«Possibile che tu non riesca a pensare ad altro?» sbottò. «Che cosa vuoi?»
Debrina si fece improvvisamente seria.
«Non sei venuta alla riunione, ieri. Ruben era parecchio arrabbiato.»
Aqua scrollò le spalle.
«Dovrebbe importarmi?»
«Sì che dovrebbe, razza di incosciente!» esclamò.«Non ti rendi conto di quanto rischi, comportandoti in questo modo? E di quanto fai preoccupare tutti?»
Aqua sbuffò.
«Tutti chi? Sentiamo…»
«Amina, prima di tutto. E poi anche Stan, e James! E anch’io sono preoccupata! Stai tirando molto la corda, troppo…se il Maestro decide di metterti fuori non ti lascia tornare a casa sulle tue gambe, lo sai, vero? Sei stata nel quartier generale per troppo tempo, e sei a conoscenza dei nostri piani. Se ti mette fuori, ti ammazza…» concluse in un sussurro.
Aqua rabbrividì. Non si era soffermata troppo a pensare alle possibili conseguenze del suo gesto.
«Mi stai ascoltando?» insistette Debrina.
«Sì, Dede, ti ascolto.»
«Dimmi una cosa…è stata veramente colpa mia? Voglio dire, era solo perché sono stata scelta io per sostituire Stan che hai fatto quella scenata?»
Aqua la focalizzò a fatica. Le girava lievemente la testa.
Gli occhi neri di Debrina la scrutavano con ansia.
«No…no, non è stato solo quello. Cioè, è stato quello ma…è stata solo la goccia» farfugliò. «È da anni che io e Ruben…è complicato, non cercare di capirlo, non ne vale la pena. Ma ho un conto aperto con lui, e non ho intenzione di dimenticarlo. Scusa, ma che importanza ha se è stata colpa tua oppure no?» domandò confusa.
Debrina ci pensò un attimo prima di rispondere. Alla fine distese le labbra sottili in un sorriso stranamente remissivo e disse:
«Non lo so, ma mi sento meglio. Riguardati Aqua dell’Acqua.»
Mentre si allontanava, la ragazza si massaggiò la fronte, perplessa. Niente “ragazzina” e termini irritanti affini quel giorno?
 
La luce la abbagliava, tutto risplendeva di un giallo abbacinante. Era quello che doveva fare, un campo di girasoli degno di tale nome: Trasmettere calore al semplice sguardo. Amina trasse un respiro profondo, confortata. Sapeva che sua madre la aspettava a casa, ma non aveva il coraggio di lasciare quel posto incantevole. Il suo sguardo fu attratto da una figura che passava ai margini del suo campo visivo. La schiena perfettamente dritta, la pelle olivastra, i capelli scuri…avrebbe riconosciuto quell’uomo tra centinaia di migliaia. Gli corse incontro.
«Alec! Che cosa ci fai qui?» domandò con la voce rotta dall’emozione.
Alec la guardò con gli occhi sgranati.
«Come fai tu a conoscermi? E cosa fa una bambina come te in giro tutta sola?»
Amina aggrottò la fronte, senza capire.
«Che significa?» domandò facendo un passo verso di lui.
Alzò istintivamente una mano davanti al viso, e si rese conto che era piccola e bianca, priva di calli e cicatrici. Abbassò lo sguardo. Era una bambina. Una bambina minuta, coperta di lentiggine e con i capelli tagliati a caschetto.
«Com’è possibile?» mormorò.
Alec la guardò e sorrise, quel sorriso che amava così tanto e che ora le stringeva il cuore. Quel sorriso che aveva desiderato avere tutto per sé e che aveva perduto.
«Ti sei persa? Ti accompagnerei a casa io ma, vedi, sto sanguinando.»
Mentre pronunciava quelle parole, la punta di una spada gli trapassò il petto, e il sangue cominciò a inzuppargli gli abiti. Amina gridò conficcandosi le unghiette nei palmi delle mani. Dietro di lui, stava un’Amina adulta, con la spada stretta tra le mani. Dalla lama, il sangue di Alec le colava sulle dita, striandole di rosso.
«Non mi ringrazi, Mina? Ti ho appena salvato la vita!» esclamò, raggiante.
La bambina sentì le lacrime bagnarle le guance, incontrollate.
«Lo hai ucciso» singhiozzò. «Lo ho ucciso!»
Affondò il viso tra le mani, senza osare alzare lo sguardo.
«Perché piangi, Mina?»
Amina sobbalzò all’udire la voce di Liam.
«Perché anche tu sei qui?» farfugliò.
Immediatamente si riscosse rendendosi conto che il timbro di voce era cambiato. Scostò le mani dagli occhi e si ritrovò, adulta,in una stanza buia, illuminata solo dalla luce di una candela. Faceva freddo, il suo respiro formava nuvolette. Alec era scomparso, così come l’altra sé stessa.
«Mina?» insistette Liam.
«Tu non dovresti essere qui» mormorò, ancora sconvolta dalla morte di Alec e turbata dall’improvvisa attrazione che provava per la figura che le ondeggiava davanti nella luce fioca.
«Hai ragione. Me ne vado» disse allontanandosi nell’ombra.
«No, aspetta! Non lasciarmi qui al buio da sola!» gridò inseguendolo.
Andò a sbattere contro qualcosa e imprecò.
«Ti sei fatta male?» domandò il qualcosa.
«Oh, Dei» mormorò confusa.
Konstantin rise.
«Che succede, Mina? Hai paura del buio?»
«No, è solo che io…io non ci capisco niente, perché adesso ci sei tu?»
«Non vado bene?» domandò offeso.
Amina sospirò.
«Ah, è così dunque?» sbottò Konstantin. «Io sto qui ad aspettarti al buio e al freddo per una vita e tu mi rifiuti? Sei un’ingrata! Un’ingrata e un’incosciente!»
«Ri-rifiuti?Che significa?» balbettò di nuovo, stanca di chiederlo.
«Dammi la motivazione che cerco!»
«Non posso! Ho ucciso Alec! Io ho…ucciso…»
 
Amina spalancò gli occhi e si sorprese di trovarsi nella stanza di Irthen. Era giorno fatto.
«Tutto bene?»
Sobbalzò, soffocando un gridolino sorpreso.
Alla scrivania stava seduto Liam.
«Perché me lo chiedi?» farfugliò.
Il mago si strinse nelle spalle.
«Sembrava che tu stessi facendo un brutto sogno.»
Amina si accigliò. Tutto sommato, forse, sognava ancora…altrimenti per quale motivo Liam se ne doveva stare alle sue spalle a guardarla agonizzare? Forse perché lo stava maltrattando gratuitamente da ventiquattro ore?
«Sapevi che era un incubo, e non mi hai svegliata?»
Liam sbuffò.
«Eri tranquilla, fino a poco fa. E comunque non sono la tua balia…»
Amina si prese le tempie tra le dita. La sera prima, dopo la discussione con Stan, si era chiusa nella sua stanza per essere certa di non incontrare nessuno su cui potesse sfogare la sua frustrazione, ma l’occasione si era presentata lo stesso quella notte. Mentre si spostava silenziosamente per i corridoi, diretta alla stanza di Irthen, aveva incontrato Liam, di ritorno chissà da dove. Lui l’aveva bellamente ignorata, evidentemente era ancora arrabbiato per essere stato cacciato via in malo modo. Lei l’aveva tacciato di essere un maleducato, lui aveva risposto che era instabile e lunatica, e lei se n’era andata mandandolo nei peggiori posti ipotizzabili.
Non era Liam la causa del suo malumore, lo sapeva, e sapeva che non si meritava il trattamento che gli aveva riservato, ma non riusciva a farne a meno: sfogarsi su qualcuno che rispondeva per le rime, in qualche modo, la faceva sentire meglio. Masochista, ecco cos’era…e Liam era abbastanza focoso da soddisfare il suo insano desiderio di autodistruzione. Non perdeva l’occasione di rispondere alle provocazioni, era sempre così estremo in tutto…
«Perché sei rossa?» domandò dall’angolo.
Amina affondò nello scialle.
«E tu perché mi fissi?» ribatté.
Non si mosse quando sentì lo scricchiolio della sedia e i passi del mago che si avvicinavano.
«Mi domando perché ti stia comportando in questo modo. Tu non sei questa, questa non è Amina! Senti, se vuoi continuare così, a me sta bene…ma vorrei almeno sapere perché. Non dirmi che è ancora per quello che ti ho detto ieri, non ti credo, non sei il tipo da portare rancore.»
Con il cuore che batteva tanto forte da assordarla, Mina mormorò:
«Tu non sai niente di me.»
Liam sbuffò.
«Giusto. È vero, un’amica ha qualcosa che non va e si comporta da idiota, ma chissenefrega! Tanto non la conosco, non so niente di lei, che si arrangi!»
Qualcosa che non andava? Lei non aveva qualcosa che non andava, perché avrebbe dovuto? …o forse sì? Il groppo alla gola tornò a farsi sentire forte.
«Senti, Mina, io…non sono il genere di persona capace di gestire questo tipo di situazioni. Ho resistito all’impulso di andarmene di nuovo, come ho fatto ieri, come ho fatto stanotte, ma la mia pazienza è notoriamente molto limitata. Se vuoi continuare a fare la bambina e a crogiolarti nei tuoi dolori, sei liberissima di farlo. A meno che non sia io la causa della tua disperazione, però, gradirei che la smettessi di servirti di me come capro espiatorio.»
Amina singhiozzò, con le mani premute sugli occhi, mentre i passi di Liam si allontanavano.
«Non andartene…» gemette. «Non andartene anche tu!»
 
Liam si bloccò, con la mano già sulla maniglia della porta.
«”Anche tu”, dici? È per via di Konstantin, dunque?» domandò, incapace di reprimere una punta di gelosia e di frustrazione per essere stato maltrattato in sostituzione di un altro uomo.
Rifletté velocemente: poteva avere senso? Dopo essere stata lasciata dal marito poteva aver sviluppato una sorta di sindrome dell’abbandono?
“No, non ha senso” concluse.
Lasciò cadere la mano e si volse verso di lei.
«Io sto aspettando» disse, sorprendendosi della fermezza nella sua voce.
Amina singhiozzò e si alzò lentamente. Non sembrava molto stabile.
«No, hai ragione. Devo smetterla di comportarmi da stupida. Non posso continuare a piangermi addosso, né a sfogare i miei problemi su di te» si asciugò gli occhi nella manica, come avrebbe potuto fare una bambina.
Liam trattenne un sorriso intenerito.
«Grazie per la tua pazienza, Liam dell’Acqua» concluse.
Il mago sbatté le palpebre, perplesso.
«Cosa significa?» balbettò, istintivamente allarmato dal tono improvvisamente risoluto.
Amina gli rivolse un sorriso tirato.
«Che ti sollevo dall’onere di sopportare le mie paranoie.»
Al mago ci volle qualche momento per comprendere. Dopodiché, una nuova ondata di rabbia irrazionale lo invase con rinnovato vigore.
«Mi…sollevi dall’onere?!» esclamò. «Ma ti rendi conto delle cazzate che dici? Ti rendi conto di quanto sei infantile?!»
La maga piantò le mani sui fianchi con aria offesa.
«E tu ti rendi conto che non puoi pretendere di farmi da padre? Sono una donna adulta, so badare a me stessa, non ho certo bisogno che sia un mago qualunque a pensare a me!» strillò.
Liam fece un passo verso di lei, spinto dalla feroce necessità di farla tacere, in qualche modo.
«Un mago qualunque?» sibilò. «Io non sono un mago qualunque, Amina della Terra!»
Amina tacque e arrossì, con immenso compiacimento di Liam, che non seppe dire se la causa fosse l’indignazione o l’imbarazzo.
«Non puoi pretendere che…che…» farfugliò.
Liam fece un altro passo verso di lei, e Amina indietreggiò, trovandosi con le spalle al muro. Il mago deglutì, colto a tradimento dalla consapevolezza della loro vicinanza, e dalla certezza che non fosse mai stata più bella, con quei capelli arruffati e il viso accaldato.
Le si accostò e le prese il mento tra le dita.
«Non posso?» domandò in un sussurro.
Amina lo allontanò con una spinta poco convinta e il mago si riscosse. Che cosa stava facendo? Che cosa avrebbe fatto se lei non l’avesse respinto? Colto dalla vertigine fece un passo indietro, intenzionato a scappare a gambe levate. Ma in una frazione di secondo, Amina balzò in avanti gettandosi tra le sue braccia, lo scialle lasciato cadere a terra e il viso sepolto nella camicia del mago.
«Mina? Va tutto bene?» balbettò confuso.
Amina lo strinse forte.
«Scusami. Forse ho solo bisogno di dormire…» mormorò.
Liam la abbracciò, domandandosi dove si fosse nascosta per quasi ventisei anni tutta quella delicatezza che negli ultimi tempi gli riusciva spontaneo sfoggiare.
«Stai tranquilla, è tutto a posto. Non è ancora successo nulla di irreparabile. Vedrai che presto Irthen si sveglierà, che Konstantin tornerà tutto intero da Bosco Lossar, e che dopo un po’ di sonno decente ti sentirai un’altra persona. Solo…non devi sfinirti così, Mina. Sii un po’ più egoista ogni tanto. Non puoi passare tutte le notti su una sedia.»
Amina tirò su con il naso e annuì.
«Dove stavi andando stanotte, Li’?» domandò.
Liam ghignò.
«Curiosa, eh? In cucina. Ieri sera sono stato sul campo di allenamento con Eetan fino a tardi, e quando sono tornato in camera ero talmente a pezzi che sono andato a letto senza cena…ma dopo un po’ mi sono svegliato con una fame tremenda, così sono andato a cercare qualcosa in dispensa…»
Amina ridacchiò.
«Non ho parole.»
Liam sorrise.
«Vai a riposare, Mina. Hai bisogno di rilassarti un po’, stai chiedendo troppo a te stessa…»
Amina lo ringraziò e se ne andò, lasciandolo solo accanto al letto di Irthen. Il mago prese un respiro profondo e passò una mano sulla fronte di suo fratello. Scottava.
 
«Sei pronto, Stan?»
Konstantin annuì. La spalla gli doleva, ma non quanto la testa. L’idea di andarsene senza salutare Amina, senza averle chiesto scusa per essere stato così duro con lei, lo affliggeva più di quanto fosse disposto ad ammettere con sé stesso. Eppure, avrebbe dovuto essersi abituato a quella sensazione ormai, come di sabbia che sfugge tra le dita, avrebbe dovuto averci fatto il callo a vederla allontanarsi. E ad affliggerlo ancora di più era la totale mancanza di reazione della maga di fronte alle sue parole, la sera prima. Aveva cercato di essere chiaro e delicato al tempo stesso, per darle la possibilità di comprendere che cosa lo stava consumando dall’interno senza mandarla in paranoia, ma forse non lo era stato per nulla. Forse, era solo riuscito a creare confusione. Forse, avrebbe dovuto essere diretto, anche a discapito della riservatezza di Amina. Dopotutto, sapeva fin da subito che non sarebbe stata una buona idea quella di sconvolgere gli equilibri. Se si era tenuto dentro tutta quella tempesta per quasi dieci anni un motivo c’era, ed era più che valido: l’amore quasi folle – e pienamente ricambiato – di Amina per Alec e, successivamente, la sua disperata determinazione a dimostrare di non aver fatto il più grande errore della sua vita. Cosa, quest’ultima, che l’aveva resa fragile come vetro soffiato, e altrettanto incantevole. Disgraziatamente, nel suo maldestro tentativo di restarle accanto, lui non aveva fatto altro che finire relegato nella parte dell’alleato indispensabile, o del fratello maggiore, prospettiva oltremodo deprimente. Innegabile: una simile etichetta sarebbe stata impossibile da scollare.
«Sono pronto, Ben» disse.
Il Maestro annuì e afferrò saldamente il polso del braccio sinistro di Konstantin, quello sano.
«Andremo più piano» disse. «Ci impiegheremo di più, ma spero accuserai meno il viaggio.»
Stan strinse i denti. Odiava viaggiare in quel modo. Non solo perché gli faceva venire la nausea il vorticare del mondo attorno alla sua persona, ma anche perché sentiva di perdersi tante cose: i profumi, i suoni, tutto quell’insieme di elementi che rendevano unico un viaggio. Ruben prese un respiro profondo e mormorò:
«Andiamo, allora.»
Konstantin sentì il terreno svanire da sotto i suoi piedi e lo stomaco schiacciarsi. Chiuse gli occhi per cercare di limitare il disagio, consapevole solo dell’innaturale immobilità dell’aria attorno a lui. Forse perché l’aria era lui, scomposto in minuscole particelle dalla magia di Ruben. Nonostante questo stato semi incorporeo, sentiva la ferita alla spalla bruciare come attraversata da un tizzone rovente. Forse, Amina aveva ragione, forse i punti di sutura avrebbero ceduto e la piaga si sarebbe riaperta. Avrebbe trovato un elfo disposto a rimetterlo in sesto? Infondo, gli elfi erano loro alleati, non potevano abbandonarlo…oppure sì? Forse la scelta di accompagnare Ruben era stata mutuata solamente dal suo egoismo, dal desiderio di mettere Amina alla prova, di “misurare” l’attaccamento che provava per lui. Forse, se non l’avesse vista arrossire al solo pronunciare il nome di Liam dell’Acqua, non l’avrebbe torturata tanto.
“Sono una persona orribile” concluse con amarezza.
E si promise che non avrebbe più permesso alla gelosia di soffocare la sua razionalità, che non le avrebbe più fatto del male, anche se Amina avesse voluto continuare a vederlo come un fratello fino alla fine dei suoi giorni. Pur di poterle stare accanto…
Uno strattone doloroso gli strappò un gemito e lo riportò alla realtà, proprio mentre i suoi piedi ritrovavano l’appoggio. Si accasciò, colto dalla vertigine.
«Va tutto bene?» domandò Ruben con un filo di voce.
Trasportare sé stesso e un’altra persona doveva essere molto stancante, pensò Konstantin premendosi la mano sulla spalla. Quando la ritrasse era bagnata di sangue.
«Maledizione» gemette.
Ruben esplose in una sfilza di colorite imprecazioni, strappandogli una risata sofferente.
«Rilassati, Ben, non morirò per così poco» disse.
Tutt’altro che persuaso, Ruben imprecò ancora.
«Può darsi, ma le braccia potrebbero servirti entrambe in guerra. Resisti, gli Unicorni non mi lasciano varcare i loro confini con la magia, perciò abbiamo un po’ di strada da fare a piedi.»
Konstantin si trasse faticosamente in piedi. Davanti a loro si stagliavano gli alberi alti che segnavano il perimetro di Bosco Lossar.
«Allora non perdiamo altro tempo» disse.
 
Nei due giorni che seguirono, non giunsero notizie di Ruben e di Konstantin, e il quartier generale era in fermento.
Liam osservava con cinico distacco lo stato di tensione che sembrava espandersi a macchia d’olio, contagiando un numero sempre maggiore di persone, come una sorta di epidemia. Ascoltava con disinteresse le discussioni sull’opportunità o meno di inviare qualcuno in aiuto al Maestro, così come anche i rapporti sugli scontri ancora aspri su entrambi i fronti. Non poteva biasimare i suoi commilitoni per il panico in cui versavano, dopotutto, il direttivo era stato scorporato: Ruben e Stan da un lato, Debrina dall’altro. Per quanto non formalizzato, tutti sapevano che lei e Konstantin erano figure di riferimento quasi quanto Ruben stesso. Ed ora che erano tutti e tre lontani, e che persino Oliandro e Rowena non potevano dare il loro contributo al mantenimento dell’ordine, tutto sembrava lasciato in balia degli eventi. L’unica persona lucida e pensante, ancora capace di dare ordini e risultare credibile, era James.
Forse avrebbe dovuto dargli una mano. Sì, avrebbe dovuto, ma aveva scelto, una volta di più, di anteporre la sua battaglia personale all’interesse collettivo. La temperatura corporea di Irthen non aveva fatto che aumentare, e nonostante il respiro irregolare, la fronte imperlata di sudore e qualche spasmo muscolare involontario – innegabili segnali positivi di una qualche reazione alla terapia – Liam non si era mai sentito più in ansia. Non faceva che domandarsi se la febbre troppo alta avrebbe potuto, in qualche modo, causargli danni permanenti. Lui, Amina e Yu facevano in modo di avere sempre a portata di mano un catino di acqua fredda per inumidire il panno con il quale tamponavano la fronte del ragazzo, e si suddividevano le ore di veglia per non sfinirsi prima del tempo. Ma di più non si poteva fare, e Liam lo sapeva.
Al tramonto del quarto giorno di febbre il mago vegliava, solo, in attesa che accadesse qualcosa. Il petto di Irthen si alzava e si abbassava velocemente, il battito era accelerato. Con la testa tra le mani, il mago non poté fare a meno di ripetere a sé stesso, ancora una volta, che tutto quel casino era solo colpa sua: se si fosse assunto le sue responsabilità ad Effort…
Sentì la porta aprirsi con un cigolio e non si volse nemmeno, già afflitto all’idea di un nuovo battibecco con Amina, che sembrava incapace di allontanarsi passivamente dal paziente per andarsene a letto.
«Vai a riposare, Mina» disse secco, continuando a fissare il volto arrossato di suo fratello.
Non ottenne risposta, e la porta non si richiuse. Così, irritato, si alzò e si girò, intenzionato a mandarla via con la forza, ma rimase inebetito. Sull’uscio non stava Amina, bensì una donna che non aveva mai visto. Alta ed esile, era vestita di una tunica blu scuro che le scendeva fino ai piedi, stretta da un nastro argentato in vita. Il pallore spettrale e i capelli di un biondo chiarissimo, che le cadevano innaturalmente lisci fino a oltre metà schiena, le davano l’aspetto di un fantasma. I lineamenti erano delicati, e nella penombra sembravano vagamente disarmonici. Liam fissò sbigottito l’apparizione, poi farfugliò:
«Tu non sei Mina…»
La sconosciuta sollevò le sopraciglia con aria perplessa.
«Sul serio?» domandò, sarcastica.
La sua voce aveva un timbro alto, ma era estremamente controllata. “Finta”, pensò istintivamente Liam. Parlava con un accento duro che non conosceva. Il mago storse il naso.
«Chi sei? E che cosa vuoi da noi?» sibilò, ponendosi tra lei e suo fratello.
La donna lo ignorò e lo allontanò con una spinta, per avvicinarsi al capezzale di Irthen. Il mago non riuscì a reagire, impressionato dall’energia che emanava da lei e stordito dall’intenso profumo di vaniglia che la avvolgeva. Una ciocca di capelli le scivolò davanti al viso, lasciando intravedere un piccolo tatuaggio nero, un fiocco di neve che spiccava sulla pelle candida del collo, appena sotto l’orecchio destro.
La donna posò il palmo della mano sulla fronte di Irthen e fissò gli occhi grigio chiaro su di lui. Liam attese in silenzio, confuso. Chi cavolo era quella? E perché la stava lasciando fare? Sentiva che c’era qualcosa di rischioso, in quella sua remissività istintiva. Attese in silenzio, e mentre la fronte alta si imperlava di sudore e le guance prendevano un po’ di colore, Irthen prese a respirare con meno affanno.
Improvvisamente, la donna ritrasse la mano e si scostò i capelli dal viso. Aveva il respiro accelerato. Liam considerò che potesse essere più giovane di lui. Ma chi era? E perché era lì?
«Sono Jonna del Fuoco» disse con un sospiro. «Ho alleviato la febbre di tuo fratello. Presto dovrebbe svegliarsi.»
Liam la fissò a bocca aperta. Alleviato? Come? I maghi di fuoco potevano fare una cosa simile? Oppure solo lei? Dunque quella era Jonna? Non l’aveva immaginata così…
«Hai il dono della parola, Liam?» domandò, riacquistando il tono sarcastico.
«Grazie» balbettò imbarazzato.
Chloé l’avrebbe preso per i fondelli fino alla morte, se l’avesse visto…
«Ringrazia Amina. È stata lei a chiamarmi» disse freddamente, lasciando la stanza.
«Incredibile» mormorò il mago, incapace di smettere di fissare la porta che Jonna del Fuoco si era richiusa alle spalle.
«Cosa…cosa è incredibile?»
Una voce flebile, alle sue spalle, gli fece balzare il cuore in gola. Si volse di scatto e fissò gli occhi in quelli verdi e lucidi di Irthen.
«Una ragazza bellissima ti ha appena salvato le penne, Ir» disse con la voce rotta.
«Me la sono persa» gemette.
Liam scoppiò a ridere, e non provò nemmeno a trattenere le lacrime di sollievo.





********************
Sìììììì odiatemiiiiiii!!!!!!!!

Stan: "Io ti odiavo già"
*Liam gli fa pat pat sulla spalla, partecipe*
   
 
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