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Autore: Lady Vibeke    08/05/2008    20 recensioni
Michelle è perfetta, la ragazza ideale: intelligente, simpatica, dolce, premurosa, gentile, altruista, di buona e ricca famiglia, modesta, bella… Peccato solo che sia completamente sbagliata per Gustav. Ma come diavolo si fa a dire ad uno dei propri migliori amici che sta per commettere il più clamoroso e colossale errore della propria vita, ad un passo dal compimento dell’errore stesso?
Georg, Tom e Bill darebbero qualsiasi cosa per conoscere la risposta a questa domanda e poter così sventare il più grande disastro della storia dei Tokio Hotel.
Genere: Romantico, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bill Kaulitz, Georg Listing, Gustav Schäfer, Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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[ GUSTAV ]

Sono sinceramente perplesso.

E preoccupato.

E non sono il tipo di persona che si preoccupa per un nonnulla.

Anzi, chiunque può affermare con una certa sicurezza che ho abbastanza sangue freddo da essere l’unico del gruppo a non avere sfiorato un mancamento quando lo scorso anno abbiamo sbancato agli MTV Europe Music Awards, portandoci via il Best Intenational Act, Best Band, Best Album e Best Video. Quella volta Bill ha avuto una crisi respiratoria, Tom è inciampato in se stesso e Georg si è quasi strozzato con la sua stessa saliva. Io ero l’unico in grado di gioire senza mettere a repentaglio parti anatomiche vitali. Ho detto tutto.

Comunque sia, il fatto che siano le dieci e cinque, che io sia perfettamente pronto ad uscire e che l’appuntamento con la sarta è per le dieci e mezza mi fa domandare: ce la farà mai Tari ad arrivare in orario? Doveva essere qui cinque minuti fa. Ci sono tre possibilità che possono spiegare questo ritardo, e sono una meno confortante dell’altra. Uno: ha di nuovo sbagliato orario; due: ha di nuovo sbagliato data; tre: le ha sbagliate entrambe.

Come sia finita a fare da assistente a una precisa e rigorosa come Leila, nessuno lo sa.

Lo so che non dovrei dimostrare tanta sfiducia, ma l’esperienza insegna, e se devo proprio dire la mia, quella ragazza non è proprio l’affidabilità personificata, in quanto a puntualità. Se siamo fortunati, arriverà per le undici; nel, peggiore dei casi, arriverà domani.

La casa è vuota, Michelle è al lavoro, il telefono tace, la tv è spenta, la pace assoluta regna. Gironzolando per il salotto mentre aspetto che il prodigio si verifichi e Tari si presenti alla porta per l’ora stabilita, non posso fare a meno di osservare con un’attenzione superiore al solito i dettagli dell’arredamento: le pareti sono di un bianco splendente, che con questo sole fa quasi male agli occhi, qua e là sono sparsi vasi di fiori finti e di colori che oscillano esclusivamente tra il rosa e l’arancione, in tinta con i cuscini del divano, anch’esso bianco, con le tende e con il grande tappeto. Sparse un po’ in ogni angolo della casa ci sono quelle ridicole riviste patinate che, fosse per me, non dovrebbero nemmeno essere vendute. C’è un’intensa fragranza di rose nell’aria, proveniente dal profumatore posato sulla mensola dell’ingresso. Non è il massimo, a mio modesto parere.

Ci sono tracce evidenti di Michelle ovunque, e ci mancherebbe, è il suo appartamento, ma se uno non va a rovistare negli armadi o a guardare in bagno, non si accorgerebbe nemmeno che qui dentro ci vivo anch’io.

Certo, ho montato io quello stupido mobile della televisione, e ho fatto io quella striatura nera sul muro, che Michelle ha prontamente coperto con un quadro astratto che non ho mai capito da che parte guardare, ma qualunque cosa provenga da me, qui dentro, potrebbe tranquillamente provenire da chiunque altro, e non farebbe alcuna differenza.

Dalla finestra aperta entra una piacevole brezzolina fresca, che mi si insinua tra i primi bottoni slacciati della camicia e mi fa venire voglia di strapparmela di dosso per mettermi qualcosa di più consono alla bella giornata, ma, no, non posso presentarmi alla prova dello smoking (a me! Uno smoking!) in tenuta casual, ne va dell’immagine che ne darei, e sono già fortunato se mi sono stati concessi i jeans.

Come se a quella gente importasse cosa indossano i loro clienti. Con un bel fascio di soldi in mano, potrei anche andarci vestito da clown.

L’orologio del lettore DVD scatta sulle dieci e otto minuti. Sto per sospirare sconfortato, quando finalmente suona il campanello. Con mio immenso sollievo, quando apro c’è esattamente che mi auguravo ci fosse ad aspettarmi: Tari ansima reggendosi una borsetta al petto, vestita con un elegante tailleur grigio perla che non avrei mai creduto di poterle vedere addosso.

“Ciao,” la saluto sorpreso. “Ti stavo per…”

Hyvää päivää, Herra Schäfer. Anteeksi, kuinka minä olen myöhästynyt! Meidän täytyy mennä!”

Eh?

Sbatto le palpebre interdetto, cercando di capire se sono io ad essere completamente impazzito, o lei.

La seconda, probabilmente.

“Oh, dio, mi scusi!” balbetta lei, portandosi imbarazzata le mani alla bocca. “Ero al telefono con mia madre, poco fa, sono ancora in modalità finlandese. Mi dispiace, non volevo…”

Non posso fare a meno di ridere. Se non ci fosse lei, questo matrimonio sarebbe molto più noioso.

“La prego,” prosegue lei, ancora ansante. “Mi dica che la data e l’ora sono giuste. Ritardo a parte, ovviamente.”

“Ma certo,” la rassicuro. “Non vedi che sono vestito, per una volta?”

Lei mi scocca un’occhiatina torva. Devo riconoscere che così incute un certo timore.

“Mi risparmi la crudele ironia, per favore, non è giornata.”

“Qualcosa non va?”

“Questi tacchi mi stanno facendo impazzire,” si lamenta, abbassandosi per massaggiarsi un polpaccio sottile.

Soltanto adesso noto che porta un paio di scarpe con un tacco a spillo di neanche cinque centimetri, che per Michelle equivarrebbe circa a dei comodi mocassini, ma che a vederli portati da lei sembrano trampoli vertiginosi ed ingestibili.

“Lei non ha idea di cosa significhi farsi sei piani a piedi con queste mostruosità addosso!” Sembra davvero disperata. “Per non parlare della gonna, poi! Ho paura di strapparla appena muovo un passo.”

Una delle tante cose che non capirò mai delle donne (e di Bill): farebbero di tutto per la bellezza, compreso sottoporsi a torture disumane. Se qualcuno facesse loro ciò che loro fanno a se stesse, verrebbe considerato un sadico criminale.

“Perché ti sei vestita così se non ti trovi bene?” le domando, attonito.

Lei rantola.

“Perché Leila esige un’immagine più curata, e se voglio che mi assuma, devo adeguarmi.”

Si parlava di sadici criminali…

“La trovo una cosa parecchio stupida,” osservo, ma poi scrollo le spalle indulgente. “Ma se è quello che vuoi, allora fai bene a non mollare.”

“Grazie,” replica Tari, ancora china sofferentemente sulle proprie caviglie. “Senta, prima di andare…” Solleva timidamente gli occhi su di me, praticamente implorandomi. “Ehm… Non è che per caso ha un paio di cerotti e della pomata per distorsioni?”

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Credevo che ci fossero dei limiti, sebbene ampiamente estensibili, alla comicità involontaria di Tari, ma ero in errore.

Quando l’ho fatta entrare per darle i cerotti e la pomata, ho notato che zoppicava in modo un po’ troppo marcato e le ho chiesto di farmi vedere in che stato fossero le sue caviglie.

Pietoso.

Erano gonfie e leggermente livide, e c’erano delle vesciche poco sopra il tallone. Quelle scarpe dovevano farle davvero un male cane, così l’ho aiutata a medicarsi e le ho offerto in prestito un paio di scarpe da tennis di Michelle, nuove di zecca, che lei si è naturalmente rifiutata di accettare, tirando fuori per l’ennesima volta quella stupida storia del distacco professionale, ma ormai ho imparato a minacciarla, quindi alla fine si è dovuta piegare alla mia cordiale proposta.

Il problema è che adesso è ridicola, con quel tailleur così chic e scarpe da ginnastica ai piedi, e quando siamo entrati nel laboratorio della sartoria, tutti la guardavano male.

Forse avrei dovuto suggerirle di cambiarsi anche i vestiti, ma poi la mole di convincimenti sarebbe diventata ingente, ed eravamo già in ritardo. Anzi, è un miracolo che siamo riusciti ad essere qui quasi puntuali.

Siamo stati fatti accomodare in una minuscola saletta di prova, rivestita in legno chiaro, con grandi specchi sparsi in giro e sgabelli ammassati in un angolo. È un posto molto pulito e luminoso, che profuma di detersivo alla lavanda, e mi sentirei perfettamente a mio agio se non fossi appena uscito dal camerino di prova con addosso un’uniforme da pinguino.

La sarta, la signora Braun, è una donna sui settanta dai corti capelli bianchi e ricci, professionale e molto amichevole, che però odierò in eterno per aver confezionato questa trappola mortale che mi sono appena infilato.

“Su, su vieni avanti, ragazzo,” mi esorta, facendomi cenni spicci con la mano. “Qua sopra, svelto.”

Mi indica una specie di rialzo circolare di legno alto un paio di spanne e io non posso far altro che obbedire, ritrovandomi così in piedi davanti ad uno specchio che non fa che rigirare il coltello nella piaga.

Faccio ridere.

Tari osserva silenziosa, seduta in una poltroncina in un angolo, palmare alla mano, con cui di tanto in tanto traffica febbrilmente. Si è portata dietro uno dei libri che le ha dato Leila, ma lo tiene aperto sulle ginocchia, senza leggerlo.

Immagino che il sottoscritto che viene reso un fenomeno da baraccone sia di gran lunga più interessante.

“Sta’ dritto, ragazzo!” mi rimprovera la sarta, bacchettandomi sulla schiena con il dorso della mano. “Con questi muscoli dovresti avere una bella postura eretta, non questa gobba da minatore!” borbotta, strattonando lembi di tessuto qua e là. “Che razza di lavoro fai, giovanotto?”

“Il batterista.” Rispondo, il colletto inamidato che mi irrita il collo. La signora Braun mi guarda come se parlassi Zulù, o qualche altra lingua strana. Forse una della sua età l’unica batteria che conosce è quella di pentole. “Insomma, faccio il musicista.” specifico.

Scorgo Tari nello specchio che armeggia con i propri lunghi capelli, attorcigliandoli in malo modo attorno ad una matita. Si è tolta la giacchetta del tailleur ed è rimasta con la maglietta bianca, gli occhiali che le scivolano un po’ giù dal naso. Adesso sì che potrebbe passare per una testimone di Geova.

“Ti guadagni da vivere suonando?” domanda la donna, con un tono di rimprovero. “Non si usa più fare lavori veri, al giorno d’oggi?”

Va bene, questa donna non è come me l’ero aspettata. Sarà che questo posto ce lo ha consigliato Leila, sarà che l’ambiente appare molto esclusivo, ma me l’ero immaginata un po’ meno invadente, ecco. Non è proprio professionale come sembrava all’inizio, quando mi ha sbattuto in mano questa roba che ora mi sta sistemando addosso.

Ignoro deliberatamente la sua domanda e sposto il discorso altrove.

“Mi va un po’ stretto qui sopra,” le comunico, osservandomi nello specchio. Mi faccio pietà da solo, così conciato. Guardo Tari, riflessa alle mie spalle, e noto che sta seguendo la scena. “Secondo te dovrei perdere un paio di chili?” le chiedo, battendomi le mani sul torace.

Lei sorride appena e fa cenno di no con la testa.

“Sei perfetto così.”

Cala un attimo di silenzio.

Restiamo a fissarci, entrambi vagamente sbigottiti, ma è come se nessuno dei sapesse veramente perché, poi il mio cervello realizza, e a quanto pare anche il suo:

“Oh, mi perdoni!” farfuglia rammaricata, e salva per un pelo il palmare che stava per sfuggirle di mano. “Non intendevo darle del tu, mi è scappato!”

Esigo che ora questa ragazza mi spieghi perché mi sta chiedendo scusa per aver fatto una cosa che sono giorni che la supplico di fare.

“Tari, non ti devi scusare!” chiarisco con decisione. “Non mi sono mica offeso. Anzi…”

Ma lei ha ancora gli occhi sgranati, come se mi avesse appena rivolto chissà quale pesante insulto.

Ci rinuncio, credevo che Tom fosse il top insuperabile delle teste dure, ma avrei dovuto immaginare che se c’era qualcuno che poteva batterlo, quel qualcuno dovesse essere una donna.

La sarta continua a risistemare orli ed infilare spilli in ogni dove, con tale rapidità ed energia che temo che qualcuno finirà conficcato direttamente nella mia carne.

Ad un certo punto entra una ragazza benvestita con un grosso fascicolo in mano, da cui spuntano lembi di tessuto e fili variopinti, e lo porge a Tari con un plastico sorriso educato. Tari ringrazia e se lo appoggia alle ginocchia, sopra quello che già aveva, e sembra avere il terrore di aprirlo. Credo si tratti del campionario per le decorazioni della chiesa e del banchetto.

Mi sembra così piccola con quel colosso cartaceo in mano, ricurva su se stessa con se la testa le pesasse.

“Caro, lo so che dev’essere molto faticoso, ma dovresti tenere le braccia sollevate.” mi dice la sarta, costringendomi da assumere una posa da spaventapasseri in smoking. Colgo una certa ironia nel modo in cui dice ‘molto faticoso’. Credo che si sia fatta un’idea del tutto sbagliata su di me: non sono un perdigiorno mantenuto che se ne sta ad oziare dalla mattina alla sera. Il mio è un lavoro vero, e neanche tanto leggero come può sembrare.

Quando finalmente la donna ripone spilli e armi varie, ho le braccia e le spalle indolenzite e non mi sento più il collo. E io che credevo che i concerti fossero estenuanti. Vorrei che i ragazzi provassero anche loro a starsene un’ora impalato a farsi riempire i vestiti di spilli, poi vediamo se mi sfottono ancora quando mi trascino zoppicante nel backstage dopo un’intera serata a suonare.

“Bene, puoi andare a cambiarti,” mi dice la sarta. “Fai attenzione quando ti sfili le cose.” E mi lancia un’occhiata penetrante.

Fantastico, mi crede un incapace. Solo perché suono una batteria anziché marcire dietro una scrivania, come probabilmente staranno facendo i suoi figli.

Non è affatto simpatica come pensavo.

Barcollo fino a dietro la tenda del camerino, ben attento a non pungermi con i quintali di aghi metallici sparsi per giacca e pantaloni. Mi ci vogliono cinque minuti per uscire da questa trappola mortale senza riportare danni, e quando esco sono più che felice di lasciare i vestiti alla deliziosa signora Braun.

“Sarà pronto tra una settimana,” mi annuncia lei, mettendosi a piegare tutto con cura sopra un tavolo con svelti movimenti esperti. “E puoi dire alla tua fidanzata che è arrivato lo chiffon che aveva ordinato dalla Francia, se vuole venire a vederlo, può passare quando vuole.”

“Benissimo.” Faccio io, sbrigativo. Muoio dalla voglia di uscire di qui, arrivare a casa, sbarazzarmi di questa camicia e divorare un bel panino pieno di grassi e carboidrati. Non necessariamente nell’ordine. Anzi, necessariamente non nell’ordine, visto che grassi e carboidrati sono un tabù in casa.

“Ti prego, dimmi che non hai appuntamenti urgenti.” Dico a Tari mentre usciamo in strada. Siamo venuti con la sua auto e ho troppa voglia di schifezze per tornare subito all’appartamento.

Fortunatamente lei nega.

“Perfetto,” esulto, sollevato. “Perché ho assoluto bisogno di un bel pranzo sostanzioso da McDonald’s.”

“McDonald’s?” Tari pare sorpresa, si stringe l’immenso librone al petto guardandomi mentre camminiamo. Forse si aspettava un ristorante di primo livello, o per lo meno una pizzeria.

“Un paio di hamburger, patatine e coca cola,” tento di corromperla, prendendole il volume e portandolo per lei. Pesa più di quanto sembrasse. “Mezz’ora e abbiamo finito. Non puoi negarmi un piccolo compenso dopo quello che mi è toccato sorbire!”

Lei si mordicchia il labbro screpolato e si mette a rovistare nella borsetta – per niente consona al suo stile – e quasi inciampa in un tratto di marciapiede sconnesso. I miei riflessi, per sua fortuna, sono ottimi, e riesco ad afferrarla appena prima che il suo ginocchio picchi contro il cemento, ma nello stesso istante si sente un distinto rumore di stoffa strappata.

Perkele!” esclama lei, e, qualunque cosa abbia detto, ha tutta l’aria di essere un’imprecazione.

La aiuto a rimettersi in piedi, mentre qualche passante si volta incuriosito. Tari, rossa come un peperone, farfuglia qualche ringraziamento e si contorce per guardarsi il retro della gonna.

Hitto!”

C’è un lungo spacco che parte dal bordo e arriva fino ad appena sotto il fondoschiena. Non è rotta, solo scucita, e non viola nessun pubblico pudore, ma le lascia scoperte praticamente tutte le gambe, e non posso fare a meno di notare che non è ossuta come sembra. Anzi…

“Mi piacciono molto queste parolacce finniche,” commento, mentre lei continua a biascicare interiezioni dal suono buffo. “Va tutto bene?”

“Sì, grazie,” Tari sospira. “Fantastico, questo tailleur era nuovo di zecca.”

“Si è solo strappata la cucitura, si può sistemare,” La rassicuro. “Facciamo così: andiamo a mangiare e poi la portiamo alla cara signora Braun a farla riparare.”

Tari esita (che novità), ma c’è un McDonald’s proprio dall’altra parte della strada, e prima che lei possa aprir bocca, la sto già trascinando sulle strisce pedonali. Tari si tiene una mano sul didietro, continuando a gettare occhiate alle proprie spalle per assicurarsi di non offrire spettacoli gratuiti e poco ortodossi.

“Lei è diverso da come mi era sembrato,” mi dice, seguendomi oltre le porte di vetro dell’ingresso. “Sa, anche a vederla in televisione, sembra così…”

Mi volto a guardarla, un sopracciglio inarcato, sfidandola a continuare.

“Così composto.” Termina, sostenendo lo sguardo, anche ha le guance praticamente in fiamme.

Beh, meglio di ‘noioso’, ‘musone’ o uno di quegli altri epiteti che mi toccano di solito.

“Sono solo meno esibizionista degli altri tre.” Spiego, accodandomi alla breve fila di persone davanti alla cassa.

Tari annuisce convinta.

“Sì, dal vivo è molto più allegro e vivace. Insomma… Non sembra affatto la stessa persona.”

“È l’effetto delle telecamere. Tutti noi cerchiamo di essere il più naturali possibile, di fronte al pubblico, ma avrai notato che presi in un giorno qualsiasi, nell’intimità di casa, siamo altre persone, tutti quanti.”

“Credo di preferire la versione casalinga.” Afferma, fissando il pavimento.

“Non parleresti così se avessi visto quei tre nel loro ambiente naturale.” Replico, strappandole una risata.

Ordiniamo due menu completi (la giovane cassiera mi chiede un autografo tutta eccitata) e devo arrivare nuovamente ai ricatti per poter offrire io. Andiamo a sederci in un angolo vuoto e ci mettiamo comodi. Fortunatamente è presto e non c’è quasi nessuno in giro.

“Allora,” esordisco, dopo aver deglutito con estrema soddisfazione il terzo morso di panino. “Insegnami qualche bella parolaccia in finlandese.”

Tari si fa andare di traverso una patatina e si affretta a prendere un sorso di coca dal bicchiere.

“Dai, avanti!” la incito. “Ad esempio, cos’è che voleva dire la prima che hai detto? PerPer?”

Perkele,” completa lei, appena riprende a respirare normalmente. “È l’equivalente di ‘maledizione’.”

Mi stuzzica l’idea di imparare questo genere di cose in un’altra lingua. Potrei insultare Tom senza che nemmeno lui sappia cosa sto dicendo.

“E l’altra?”

Hitto. Più o meno è la stessa cosa.”

“Quanti modi avete di dire ‘maledizione’, per curiosità?”

Tari fa spallucce, leccandosi le punte delle dita.

“Cinque, tradotti in tedesco,” risponde. “In realtà hanno significati precisi in suomi, ma non hanno corrispondenti letterali nelle altre lingue.”

Mastico con calma l’ultimo boccone del panino e mi pulisco le mani, sempre più interessato.

“E come si dice – che so – ‘Che giorno è oggi?’?”

Mikä päivä tänään on?” fa lei con disinvoltura.

Spero non mi stia prendendo in giro. Ricordo fin troppo bene quell’intervista, anni fa, con quella stupidissima giornalista inglese, che abbiamo preso per i fondelli per tutto il tempo davanti a decina di migliaia di spettatori.

“Non sto scherzando.” Aggiunge, come se mi avesse letto il pensiero.

Va bene, diciamo che mi fido.

“E cosa si risponderebbe dopo, per dire ‘Oggi è il ventidue maggio duemilaundici’?”

Tari non riesce a trattenere un sogghigno. Si schiarisce la gola e traduce:

Tänään on kahdeskymmenestoinen viidettä kaskituhattayksitoista.”

“Tana non cadetti minestrone vedetta…?”

Lei se la ride di gusto, un paio di lucide lacrime che le sgorgano agli angoli degli occhi.

Tänään significa ‘oggi’, e il resto sono, rispettivamente, giorno, mese e anno.”

Perfetto, adesso so con certezza che non imparerò mai il finlandese. Dio, ti ringrazio per aver reso l’inglese la lingua internazionale per eccellenza e non questo groviglio di arrotolamenti vari.

“Tutta quella roba chilometrica vuol dire ‘Oggi è il ventidue maggio duemilaundici’?” esclamo, basito.

Kyllä.” dice Tari, annuendo. Suppongo significhi ‘sì’.

Questi finlandesi sono dei masochisti mica da ridere.

“Qualcosa di più semplice?” propongo, sperando che la semplicità strutturale tedesca non sia inversamente proporzionale a quella finlandese. “Tipo ‘Io mi chiamo X’…”

Tari sembra divertita dal gioco. Accartoccia la carta del suo hamburger di verdure e beve un altro po’ di coca.

Minun nimeni on Suometar,” recita poi, e credo che l’ultima parola che ho sentito fosse il suo nome. “Altrimenti c’è la forma più semplice, olen Suometar, che significa ‘Sono Suometar’.”

Olen Gustav,” mi presento galantemente. “Olen Gustav Schäfer.”

Tari mi stringe la mano che le porgo, ridendo divertita.

“Ottima pronuncia,” si complimenta. “Dovrebbe mettersi a studiarlo!”

“Lo farò senz’altro. Anzi, sai che ti dico? Proporrò di spostare il matrimonio in Finlandia, così potrò andare in giro a dire a tutti quanti che mi chiamo Gustav. E magari, con un po’ d’impegno, anche che giorno era oggi.”

Il sorriso sulle labbra di Tari sbiadisce un po’ e i suoi occhi chiari si tuffano tra le patatine non appena incontrano i miei.

Sto per chiederle se ho detto qualcosa di sbagliato, ma lei risolleva il viso, di nuovo sorridente.

“La ringrazio per il pranzo,” dice, in un tono non esattamente naturale. “Erano secoli che non mettevo piede in uno di questi posti pieni di junk food.”

“Quando vuoi,” sollevo il bicchiere a mo’ di cincin. “Ogni scusa è buona per scampare ai cracker di polistirolo di Michelle.”

Un angolo della sua bocca si alza appena e lei ricambia il cincin.

“Al suo matrimonio.”

“E ai minestroni dei cadetti.” Aggiungo, suggellando il brindisi.

“E ai minestroni dei cadetti.” Conviene Tari, solenne.

Beviamo entrambi un sorso di coca cola, senza smetterci di tenerci d’occhio l’un l’altra, ma proprio mentre sto deglutendo mi scappa da ridere e mi finisce di traverso. Tari scoppia a ridere nel vedermi tossire, e finisce così per tossire anche lei, il tovagliolo di carta premuto sulla bocca. Ridiamo come due cretini, rossi in faccia, gli occhi umidi, e mi fanno male gli addominali.

Erano secoli che non mi divertivo tanto con qualcuno che non fossero quei tre idioti dei miei testimoni.

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A/N: parto subito col dire che sono rimasta piacevolmente colpita dal vostro entusiasmo verso lo scorso capitolo, mi ha fatto un piacere immenso vedere tante recensioni positive e ricevere tanti (nel del tutto meritati) complimenti. Quindi grazie infinite a loryherm, CaTtY, picchia, Muny_4Ever, starfi (schwesti!), billa483, NeraLuna, L_Fy, GodFather, carol22, CowgirlSara (MS!), dark011, btb, RubyChubb (MS!), Ladynotorius (ambasciatrice MS, perdono!), loribi, _Princess_ (MS!), valux91, Lidiuz93, e ruka88. Un grazie speciale a Samia, che mi lascia sempre delle recensioni così lunghe e meravigliose da farmi sempre venire gli occhioni a forma di cuore… Ti adoro!

Per i fans di Iwen ed Elvis: non temete, i vostri beniamini torneranno prestissimo su questi schermi, stay tuned, e, come sempre, le recensioni sono molto ben accette! ^^

P.S. la frase che dice Tari appena arriva a casa di Gustav significa: buongiorno, signor Schäfer. Mi dispiace, quanto sono in ritardo! Dobbiamo sbrigarci!

   
 
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