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Autore: thepassenger_    08/12/2013    1 recensioni
Come può specchiarsi un cieco?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il tempo scorre veloce, le domande si fanno più insistenti, la rabbia va e viene a scatti di diversa durata, lasciandomi in una situazione senza vie d’uscita. Un tormento perenne, incurabile, che mi perseguita da tutta la vita. Già, perché sono nato mentre fuori nevicava, ma la neve non l’ho mai vista.
Cieco. Un colpo al cuore per i miei genitori, mentre io cercavo di aprire gli occhi che bruciavano come lame nella pelle, mentre la luce bianca s’insinuava tra le palpebre semiaperte, cercando di stuzzicare la mia curiosità verso il mondo.
Devo essere cresciuto da allora, ma non me ne sono mai reso conto: non me ne renderò mai veramente conto. Non c’è la minima possibilità, anche la più remota, di svegliarmi un giorno e guardarmi a uno specchio, il quale rifletterà l’immagine di una persona che ha contenuto la mia coscienza per tutto questo tempo. Non esistono specchi per i ciechi.
Mia madre non si è abbattuta, ha sempre cercato di rendermi un bambino normale, di farmi capire che non c’era alcuna differenza tra me e gli altri, tranne il fatto che io non potevo vederli, ma solo immaginarli.
Immaginare. Un verbo orribile, vuoto e doloroso. Immaginare è l’unica cosa che posso fare, cercare di vedere con la mente, rappresentare gli oggetti e le persone con la fantasia, sognare, vagheggiare sulla realtà.
Ma cos’è davvero la realtà? Voi, persone normali, cercate di spiegare a un cieco cos’è la realtà, cos’è il mondo, cosa sono le cose. Non potete riuscirci; non perché non ne abbiate le capacità, non perché non sapete trovare le parole. È impossibile: questa è la vera realtà.
Mio padre mi descriveva ogni giorno ciò che vedeva andando al lavoro, quello che succedeva, com’erano fatte le persone. Mio padre…
Mio padre ha speso la sua intera vita per dare a me una seppur minima concezione del mondo, affannandosi alla ricerca delle parole giuste per tratteggiare i contorni di cose che non avrei mai visto, tornando stanco da un posto di lavoro triste e prendendo la mia piccola mano tra le sue, grandi e ruvide, irregolari, insegnandomi a leggere, conducendo le mie dita su mille puntini precisi.
“Così potrai farti un’idea sulla realtà: sarà sempre giusta, perché sarà tua.” Lo ripeteva sempre, sottolineandomi l’importanza e il valore della conoscenza e del sapere, rimproverandomi aspramente quando sbattevo i libri a terra e gridavo che tanto non sarei mai stato uguale agli altri, anche se fossi diventato l’uomo più intelligente del mondo. Non ribatteva, sapendo che non mi avrebbe fatto cambiare idea; se ne andava, lasciandomi solo con il dolore e la rabbia, fino a quando non crollavo distrutto e mangiato dai sensi di colpa.
Non era un errore dei miei genitori, non era nemmeno una mia mancanza: la natura aveva fatto il suo corso e io non potevo cambiarlo, solo cercare di migliorarlo. Imparai così a concentrarmi sui rumori, sui suoni, cercando di prevedere e definire gli avvenimenti e le azioni, legandole a vibrazioni e ritmi che divennero il mio nuovo modo di vedere, così come le mie mani. Quando ero con altre persone e mi facevano domande sulla mia condizione, mi piaceva rispondere che le mie mani erano i miei occhi, e continuo a dirlo tuttora.
Ora che gli anni passano, i miei palmi si consumano e diventano ruvidi, proprio come quelli di mio padre, ma per motivi diversi. Le dita conoscono le cose, mi permettono di leggere e capire, proprio come se fossero al posto delle mie iridi trasparenti.
Ho imparato a viaggiare, dimenticandomi del fatto che non posso vedere le città, i quadri, i musei, i parchi, gli oceani e le montagne. Sono a Venezia quando respiro l’aria della laguna e sfioro le pareti di San Marco; sono a Parigi e posso ascoltare i commenti stupiti e i silenzi meravigliati di fronte alle opere del Louvre; sono a Londra e posso percepire il rumore della metropolitana e del cambio della guardia.
Eppure, è passato poco tempo da quando ho scoperto tutto questo. Me ne rendo conto solo ora, ora che sono un uomo di oltre trent’anni:  in tutto questo tempo, la mia unica capacità era lamentarmi, piangermi addosso e maledire il giorno in cui mi avevano dato alla luce. Mi svegliavo al mattino sentendomi solo, abbandonato a me stesso, mentre il mondo girava e le persone normali vivevano le loro vite, mentre io stavo lì nel letto, chiedendomi perché fosse successo a me, riflettendo sull’infinità di cose che non avrei mai potuto vedere.
La mia vita, nonostante ora stia cercando di viverla davvero, per quanto mi sia possibile, è uno schermo nero. A volte ci rido sopra, dicendomi che almeno un colore nella mia vita l’ho distinto dal bianco bruciante che mi lacera quando socchiudo le palpebre. Bianco e nero, tutto qui. Il resto è per me un mistero: colori, forme, lettere, numeri, pioggia, sole, notte, giorno… Distinguo in base alle mie percezioni, niente più. La mia realtà è diversa, io sono diverso.
Diverso da chi, poi? Diverso da tutti perché sono un non vedente, ma in fondo nessuno è uguale agli altri, anche se le persone cercano di raggrupparsi in grandi categorie piene di sottoinsiemi. Una contraddizione assoluta, questo mondo in cui viviamo, dove la diversità è vista come un difetto, come una pesante anomalia, influente quanto una malformazione.
Quando sono per strada con il mio bastone, percepisco il fastidio della gente che mi sta dietro, i sospiri stressati di chi mi deve sorpassare di corsa per andare al lavoro; i mormorii colpiti e dispiaciuti di altre persone che mi osservano pensando alla fortuna che hanno avuto, nascere con gli occhi aperti. La gente mi evita, forse per paura, forse per pietà.
È una cosa strana, quasi divertente: sono invisibile e non vedente. È possibile?
Faccio parte della società ma è come se non esistessi, sono un individuo talmente insignificante da non riflettersi nemmeno in uno specchio.
I miei genitori sono entrambi morti e da allora sono ancora più solo, rinchiuso nella gabbia trasparente che è il mio corpo. Mi considero addirittura un peso per la società di cui dico fare parte, la società visibile e vistosa, appariscente; più volte ho meditato sulla mia funzione terrena. Devo ancora trarre una conclusione soddisfacente.
Nonostante il pessimismo cronico, faccio volare il tempo con la memoria. Passo le mie giornate ascoltando testimonianze di vite vissute, memorizzando dati e parole da riportare agli altri, cercando di trovare quel posto che mi spetta nel mondo. Posso contare solo sulla mia mente, l’unico aspetto sicuro delle membra che mi compongono, perché è l’unico che percepisco davvero, anche se sono conscio d’avere arti e muscoli. La coscienza mi parla, non mi lascia mai solo, nemmeno quando decido di non darle retta, perché troppo realistico e doloroso. Eppure, ricordo ancora quel giorno in cui ho lasciato da parte i pensieri e le restrizioni della mia mente: volevo solo vedere la pioggia.
Vedere…  Sì, vedere dal mio personale punto di vista. È una contraddizione, ma è così: pioveva a dirotto, l’acqua scendeva giù con una forza pesante, cattiva. Sono uscito sul terrazzo e sono rimasto lì, in piedi, con le braccia aperte e il viso rivolto verso l’altro, gli occhi sempre, perennemente chiusi, e ho visto la pioggia. Ho sentito le infinite gocce che mi cadevano addosso, ho percepito il freddo contatto con il cotone della camicia, aderente alla mia pelle, ho ascoltato le mille irregolari sfere d’acqua che picchiettavano imperterrite sul pavimento, sulle vetrate, sull’asfalto, trascinate via in massa dall’impetuosità delle automobili. L’ho pure bevuta, la pioggia.
E l’ho fatto ancora, con la neve. Devo rassegnarmi al fatto che un temporale con lampi, tuoni e grandine non potrò sperimentarlo, perché rischierei di non poter più percepire nient’altro. È un modo come un altro per dimenticare la mia diversità, per sentirmi un po’ come gli altri, o almeno provarci.
Come quando ero bambino e i miei compagni non capivano la mia malattia e mi continuavano a gridare nelle orecchie di guardare i loro disegni, di scegliere un colore per le scaglie del loro dinosauro o per la pelle di un mostro. Non capivano e io mi rattristavo, sentendomi escluso ad immaginare i miei mostri senza occhi, con le orbite nere e spaventose. Mi veniva in aiuto la maestra, salvandomi dall’attacco dei giganti senza iridi, invitando i bambini a descrivermi i loro disegni, a dirmi che colore avevano scelto per il dinosauro e per il mostro, a raccontarmi perché avevano deciso di rappresentarli, che storia ci fosse dietro. Allora si divertivano, scalmanati e chiacchieroni, interrompendosi e rubandosi le parole per tratteggiare il loro disegno  nei miei occhi vuoti, un po’ commossi.
Al liceo mi sono rassegnato ad ascoltare e basta, senza chiedere nulla in più. Stavo attento durante tutte le lezioni ma alcune catturavano il mio interesse più di altre: le ore di letteratura, per esempio, quando con la voce della professoressa immaginavo i personaggi, gli scrittori, le scene. Oppure il teatro, ascoltare le voci dei miei compagni dare vita a scenari comici o tragici, descrivendo tempi passati o inventati.
Diventando adulto, nessuno si è più fermato a raccontarmi i disegni, gli atti e le scene: tutti erano troppo indaffarati e di fretta per descrivermi qualcosa. Ho iniziato a fare tutto da solo, crearmi le storie e i protagonisti, aiutandomi con la musica. Già, perché la musica mi dà quello spunto in più per immedesimarmi nella melodia, perdendomi un attimo nella frenesia delle note che si rincorrono, degli strumenti che stridono e fendono l’aria, mentre la storia intrecciata nelle parole prende vita, portandomi ancora più dentro di essa, spingendomi giù finché le note smettono di correre e si riposano sul pentagramma vuoto, quando tutto finisce, anche la mia immaginazione.
E allora faccio ricominciare tutto, cambio musica, cambio storia, cambio personaggi e luoghi, portando la mia mente nei posti più impensati e irraggiungibili, inventando cose che non esistono e convincendo me stesso a credere alle parole che dico e registro.
Registro la mia stessa voce che descrive i paesaggi mentali, che recita a memoria poesie eterne e passi famosi, pezzi stracciati di canzoni e melodie che ricordano invenzioni e immaginazioni. La registro e poi la riascolto quando niente mi sembra avere senso, quando vorrei farla finita una volta per tutte, chiudere davvero gli occhi per sempre; ascolto per rendermi conto di ciò che posso vedere solo io, maledicendomi per le stupidaggini pensate sulla morte e la felicità di spegnere tutto come un piccolo schermo che diventa nero. Penso e rimugino sulla voglia che mi spinge a mantenere quello schermo “a colori”, pieno di immagini e parole, pieno di fantasie e creazioni che con gli occhi aperti non potrei vedere.
Penserete che sono pazzo, spaventoso, invalido o idiota: non m’importa. Io ho il mio modo di vedere le cose, un modo che rende personale il mondo, la mia vera e unica realtà, in cui c’è solo ciò che sento io, ciò che vedo io.
Rimanete pure nella vostra giustificata ignoranza, liberi di pensare che ciò che vi circonda è la realtà di cui vi riempite tanto la bocca e soffiate bollenti parole di bellezza e disprezzo.
Ho imparato a capire che tutto ciò che mi avete descritto non è giusto o sbagliato: è la vostra realtà. Io sto imparando a costruire la mia, impiegando giorno dopo giorno il mio tempo per avere delle conoscenze che siano solo mie, dei dipinti che nessuno può vedere, delle sinfonie che nessuno può sentire, dei profumi che nessuno può percepire, dei gusti che nessuno può assaporare e degli oggetti che nessuno può toccare. Una realtà fatta di percezioni non vere ma personalmente essenziali.
  
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