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Autore: mikchan    14/12/2013    1 recensioni
*SEQUEL DI LIKE A PHOENIX*
Il tempo passa, la vita continua e i brutti ricordi diventano passato. Per tutti è così, anche per Amanda, giornalista in carriera, sfruttata dal suo capo, in crisi con se stessa e con i sentimenti che prova per il suo ragazzo e in cura da uno psicologo. Tutto questo, e Amanda lo sa, è dovuto proprio a quel passato che non l'ha abbandonata, alla perdita delle cose più importanti che avesse al mondo. Ma il passato ritorna, sempre, e per Amanda si ripresenta in una piovosa giornata invernale.
Saprà il suo passato darle un'altra opportunità, oppure è davvero tutto finito?
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Like a Phoenix'
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15- FAMILY


Il paradiso era un posto bellissimo.
Era azzurro, profumato, accogliente. Proprio come Adam. Era lui il mio paradiso, il mio Eden personale, di cui non avrei mai voluto fare a meno.
Sapevo di non meritarmelo, di avere un sacco di ragioni per finire all'inferno, ma ero troppo egoista per ammetterlo: quando qualcuno sarebbe venuto a reclamare quel qualcosa non mio, allora glielo avrei dato indietro, ma fino a quel momento non avrei detto nulla, rimanendo nel mio paradiso e cercando di non pensare al presente.
Per tutto il tempo che avevo dormito non avevo fatto altro ripetermi quelle parole. Avevo sbagliato a riferigli quella notizia in modo così affrettato e deciso, avrei dovuto aspettare di averlo davanti e immergermi nei suoi occhi nell'ascoltare quell'ultima frase che aveva segnato la mia fine.
Che senso aveva continuare a vivere senza quello per cui avevo lottato così duramente negli ultimi mesi? Avevo perso la guerra, abbandonato inutilmente il mio fortino e ora mi trovavo nel bel mezzo del campo nemico, a terra e sanguinante, aspettando il colpo di grazia.
Eppure, tra tutti questi pensieri tragici, c'era qualcosa che non mi aveva fatto perdere la speranza. Se in un primo momento avevo voluto abbandonare il mio bambino, nell'esatto istante in cui avevo realizzato di avere perso Adam per sempre, il mio cuore aveva deciso che non avrebbe mai lasciato quello scricciolo che ancora mi stava crescendo dentro. Certo, in qualche modo era la causa di tutto, ma era anche la più grande benedizione che potessi avere. E se dovevo bruciare all'inferno, preferivo farlo con il mio angioletto accanto.
Furono la sete e il bisogno di andare in bagno a svegliarmi.
Non seppi dire quanto dormii, né come arrivai alla mia stanza d'albergo, ma quelli diventarono dettagli secondari nel momento in cui aprii gli occhi e credetti sul serio di essere morta. Che altra spiegazione potevo dare alla presenza di Adam nella mia stessa stanza, altrimenti?
Sbattei le palpebre confusa, mettendo a fuoco le immagini davanti al mio viso e rendendomi conto che le sensazioni umane mi rendevano viva, purtroppo, e che anche Adam, seduto sul letto al mio fianco, era di carne e sangue.
"Amanda", mi chiamò sorridendo, accarezzandomi i capelli dolcemente.
Rimasi per un attimo stordita. Che cosa significava quel comportamento? Perché mi coccolava dopo avermi detto che la nostra storia era finita? E, soprattutto, che cavolo ci faceva lì?
"Io...", mormorai, schiarendomi la voce nel trovarmi la gola secca. "Ho sete", continuai, decidendo di porre fine a quel noioso mantra che chiedeva acqua al mio cervello, per poi potermi concentrare su cose più importanti.
Osservai attentamente Adam alzarsi dal letto e, le prime cose che registrai mentre mi mettevo seduta, furono l'assenza di Claire e il sole dietro le tende sulla finestra. L'orologio sulla televisione segnava le quattro del pomeriggio e mi sorpresi nel costatare che avevo dormito quasi un'intera giornata.
Adam tornò con un bicchiere d'acqua e mi fissò mentre lo trangugiavo velocemente, sospirando poi sollevata.
"Come va?", mi chiese, sedendosi di nuovo sul bordo del letto.
Io non risposi, incerta su cosa fare. Una parte di me mi spingeva a saltargli addosso, baciarlo e ringraziarlo per essere al mio fianco. Un'altra parte, invece, mi faceva presente quelle dure parole che non avevano smesso un attimo di vorticarmi in testa. Niente sarebbe stato più come prima, aveva detto.
Adam sospirò. "Mi hai fatto preoccupare tantissimo, ieri sera. Non rispondevi più alla mia voce e ho dovuto chiamare la tua collega per farmi dire cosa stesse succedendo".
"Quando sei arrivato?", chiesi sottovoce, cercando di cambiare discorso. Quello che era successo la sera prima era ben impresso nei miei ricordi: la chiamata, quella frase, il malessere e la voglia di non avere mai avuto quel bambino non me li sarei mai dimenticata.
"Questa mattina", rispose, allungando una mano e stringendo forte la mia che avevo appoggiato sulle coperte. Io rimasi impassibile, più per la paura che fosse tutto un sogno che per altro. Come avrei reagito se, dopo quest'ennesima parentesi idilliaca, se ne sarebbe andato? "Ho preso il primo volo per Oslo appena chiusa la comunicazione con Claire. Era terrorizzata, sai?".
"Mi dispiace", mormorai, deglutendo.
"Non dispiacerti, stupida", mi rimproverò. "Perché non hai detto che non stavi bene?".
"Ma io stavo bene", ribattei, ritrovando all'improvviso quella grinta che sembrava essersi persa. Era tutta colpa sua e della sua fottuta paura di crearsi un futuro se avevo spaventato anche Claire e non gli avrei permesso di farmi sentire male anche per quello.
"Lei mi ha detto il contrario. Sei praticamente svenuta in mezzo alla strada", sbottò lui.
"Lo shock", risposi sicura.
"Sono io quello che dovrei essere sotto shock dopo quello che mi hai detto ieri".
"Sei tu che hai insistito per saperlo", gli feci notare, chiedendomi come fossimo arrivati a parlare della gravidanza in due battute.
"E vorrei ben vedere!", sbottò ironico. "Quando avevi intenzione di dirmelo? Una volta partorito?".
"Non dire stupidaggini. Avevo solo bisogno di tempo per metabolizzare la cosa".
"Potevamo farlo assieme, non ti pare?".
"Scusa se avevo paura di trovarmi di nuovo da sola".
"Ma che stronzate stai dicendo?".
"Mi avevi già abbandonata alla notizia di una gravidanza, Adam. Permetti che potessi avere un po' paura che succedesse ancora".
"È diverso. Ora siamo adulti".
"Beh, io sono una fifona. Problemi?".
Adam sbuffò. "Senti, ormai è passato. Però devi renderti conto che ormai stiamo insieme e che ogni cosa che succede dobbiamo affrontarla insieme".
"Mi prendi in giro?", sbottai a quelle parole.
Lui alzò un sopracciglio, confuso. "Certo che no. Sono serio".
"Ma vaffanculo!", esclamai, scostando le coperte dalle gambe e alzandomi dal letto. Iniziai a cercare i vestiti in valigia, frenenticamente.
"Prego?", disse dopo qualche secondo di silenzio.
"Non ci credo", sbottai scuotendo la testa, continuando a rovistare in valigia. "Hai detto quelle cose e poi. Brutto coglione", continuai, mormorando insulti a bassa voce.
"Potrei sapere cos'ho fatto?", mi chiese spazientito.
"Sei un coglione", ripetei ad alta voce.
"E perché, di grazia?".
"Perché mi hai fatto stare male per nulla!", eslcamai stridula, alzandomi in piedi di scatto e dandogli una poderosa sberla sul braccio.
"Eh?", chiese, ancor più confuso.
"Non prendermi in giro! Sai cos'hai detto: è per quello che sono stata male".
Adam stette in silenzio e sperai per lui che stesse ripensando alla telefonata della sera precedente. Io, dal mio canto, mi sentivo un'emerita deficente! Avevo preso le sue parole troppo alla lettera, fissandomi con un solo significato e convincendomi che non ci fosse un'altra spiegazione. Se avessi pensato un attimo di più, se non fossi stata così impulsiva, forse tutto sarebbe andato diversamente.
"Ho semplicemente detto che avremmo dovuto parlarne con calma", disse scrollando le spalle.
Presi un grosso respiro. "Testuali parole", mormorai. "E chi ti dice che tutto sia rimasto come prima? Cosa avrei dovuto pensare?".
Adam mi fissò a bocca aperta per qualche istante. "Forse che l'arrivo di un figlio porterà dei cambiamenti inevitabili nelle nostre vite?".
Lo guardai incredula. "Ma porca merda!", esclamai, poco finemente. "E non potevi essere più esplicito?".
"Sei tu che ti fai mille paranoie, Amanda", mi fece notare.
Sospirai e mi sedetti accanto a lui sul letto. "Ho avuto paura che tutto fosse finito, che avessi faticato tanto per nulla, che tu no...".
"Basta", mi bloccò, mettendomi un dito sulle labbra vedendo le lacrime bagnarmi gli occhi. "Abbiamo chiarito, non c'è bisogno di stare ancora male".
"Ma come faccio ad essere sicura che tu non ci abbandonerai?", mormorai, passandomi una mano sul ventre.
Adam mi strinse le spalle con un braccio. "Temo che dovrai fidarti, Lupacchiotta".
"Quindi non ci lasci?", gli chiesi speranzosa.
"No, te lo prometto", disse sorridendo e allungando il mignolo. Lo imitai e stringemmo le dita in un silenzioso patto, come si faceva all'asilo.
"Non farmi più uno scherzo simile", mormorai, appoggiando la testa sulla sua spalla.
"E, come mi sembra di averti già detto, tu smettila di fare l'eroina", mi sgridò.
"Non sono stata male in questi giorni".
"Tranne ieri".
Scossi la testa. "Te l'ho già spiegato, Adam", sospirai.
"Lo so. Però il pensiero di saperti così fragile mi fa accapponare la pelle. Sei andata da un medico?".
Sbuffai. "Certo che sì. Sto bene".
"E... e lui?", chiese emozionato, appoggiando il palmo della mano sulla mia, che ancora era sul mio ventre piatto.
Sorrisi. "Anche lui. O lei".
"Vorrei tanto una femmina", sospirò, baciandomi i capelli. "Sarebbe come te".
"A me basta che sia sano, poi non m'importa il sesso", risposi.
"Ovviamente", sussurrò, lasciandomi un leggero bacio sulla base del collo.
Restammo così per un tempo infinito, stringendoci e iniziando a conoscere il nostro bambino.
Ora tutto si era sistemato e il puzzle cominciava a riprendere forma. Avevo ritrovato la tessera di Adam e quella del mio cuore e le avevo incollate per essere certa che non potessero scappare. Era un bel puzzle, quello della mia vita, e non vedevo l'ora di poter aggiungere anche la tessera del nostro piccolo.
Quando Claire rientrò dal meeting, quella sera, ci trovò ancora così.
Mi sgridò per averla fatta preoccupare, ma, quando le dissi di essere incinta, si sciolse e iniziò a fare mille moine, facendomi sorridere con quella sua voce squillante e quell'accento francese. Poi mi raccontò quello che era successo quel giorno e, dopo aver ordinato qualcosa al ristorante cinese all'angolo, continuammo a parlare per tutta la sera, noi tre.
"Posso chiederti una cosa?", mi domandò Adam ad un certo punto.
Io annuii, mischiando con le bacchette il riso alla cantonese che avevo preso.
"Ci sarebbe la possibilità di allungare la vacanza di qualche giorno?".
Lo guardai sorpresa, poi scossi le spalle. "Non lo so", ammisi. "Il volo di ritorno è già pagato. Perché?".
"Volevo stare un po' con te. Da soli", aggiunse. "E visitare questo paese già che ci siamo".
"Oslo l'ho già vista quasi tutta", gli feci presente.
"Lo so", rispose. "Però stavo pensando a qualcos'altro. Quando andavo all'università ho conosciuto un ragazzo Norvegese, che mi ha spesso scritto di andarlo a trovare. Beh, potremmo prendere due piccioni con una fava", mi spiegò.
"Io credo che se rimborsi il volo di ritorno non ci siano problemi, Amanda", s'intromise Claire. "Fai uno squillo a Brown e spiegagli la situazione: sono certa che ti darà il permesso".
Annuii. "Domani mattina lo chiamo", mi ripromisi. Poi mi rivolsi ad Adam. "E dove abita questo ragazzo? Qui vicino?".
Adam scosse la testa. "No, vive in un paesino al nord. Ora non mi ricordo il nome, ma posso contattarlo e, una volta finito il meeting qui ad Oslo, possiamo prenotare un volo e stare lì un paio di giorni".
"Wow, al nord!", esclamai. "Quindi vedremo l'aurora boreale?", chiesi curiosa, non essendo ancora riuscita ad ammirare quel fenomeno in paese. "Credo", rispose Adam ridendo. "Però è solo un'ipotesi", mi ricordò.
"Tranquillo, domani chiamo Brown e poi decidiamo".
"Sarebbe la nostra prima vacanza assieme", disse abbracciandomi e dandomi un bacio sulla tempia.
"In realtà siamo già andati in vacanza insieme, noi due".
"Appunto, noi due", sottolineò, accarezzandomi la pancia.
"La nostra prima vacanza di famiglia", sussurrai.
"La prima di molte".


Ero davvero senza parole.
Assistere a uno spettacolo così magnifico era sempre stato un mio sogno e, finalmente, grazie a Birk, l'amico norvegese di Adam, si stava realizzando. Certo, faceva un freddo cane, ma per l'alba avrei fatto questo ed altro.
Mi accoccolai sulla spalla del mio ragazzo, stringendomi nel cappotto e nella coperta che ci avvolgeva le spalle. Il vento freddo che soffiava nonostante le montagne che si stagliavano davanti ai nostri occhi dietro una distesa cristallina d'acqua era davvero fastidioso, anche se eravamo imbaccuccati come Eschimesi, tra maglioni, giacche, calzettoni e coperte di lana.
Sbadigliai rumorosamente, mettendomi poi una mano davanti alla bocca. Ci eravamo svegliati prestissimo quella mattina, decisi a goderci l'alba della fredda Norvegia. Un paio di sere prima, pochi giorni dopo essere arrivati a Stokmarknes, un'isoletta sperduta nel nord più nord del nord, eravamo riusciti ad ammirare la famosa aurora boreale. [1] Era stato un'esperienza senza precedenti e per parecchi minuti non ero riuscita ad aprire bocca, incantata da quelle spirali color verde smeraldo che volteggiavano nel cielo nero, come se fossero onde di un mare in tempesta. Peccato che di tempestoso in quelle strisce di luce colorata non c'era nulla. Infondevano piuttosto un senso di pace e tranquillità e, seduta su una coperta e stretta tra le braccia di Adam, proprio come in quel momento, avevo ascoltato incantata alcune leggende Norvegesi che vorticavano intorno a quell'emozionante fenomeno. Mi ero informata sull'orgine della luce e, anche se in fisica ero sempre stata una capra, avevo più o meno capito che erano formate da particelle che, staccatesi dal sole, si scontrano con l'atmosfera emettendo diverse luce di varie lunghezze d'onda, visibili solo ai poli della Terra proprio per il fatto il nostro pianeta non è perfettamente rotondo, ma ovale. Quando Adam mi aveva chiesto spiegazioni su questo particolare, l'avevo fissato per qualche secondo a bocca aperta, poi avevo sbottato un "Wikipedia ne sa più di me", dimostrando di aver capito ben poco di quello che fisicamente succedeva. Ma, in fondo, non me ne importava nemmeno così tanto, non se ripensavo alla leggenda che Birk ci aveva raccontato. Un'antica storia, infatti, narra che le anime dei morti ballano nel cielo tutte assieme, formando onde di luce per dire ai propri cari che sono sempre nei loro pensieri. Era un'idea bellissima come spiegazione di quel fenomeno e dimostrava anche il grande attaccamento di quei popoli ai defunti, ai quali dedicavano spesso preghiere ogni volta che il cielo si colorava di quelle magnifiche luci.
E quella mattina, l'ultima dato che quella seguente avremmo avuto l'aereo molto presto, avevamo deciso di goderci l'ultimo spettacolo naturale che quel paese, di cui mi ero innamorata, poteva offrirci. Dopo l'aurora boreale e i fiordi, infatti, mancava solo l'alba all'appello e, considerato il colore azzurro che il cielo stava prendendo proprio dietro il profilo scuro della montagna, mancava davvero poco al sorgere del sole.
Mi strinsi ancora di più ad Adam, che mi posò un bacio tra i capelli e sorrise. "Sei stanca?", mi chiese.
"Un po'", risposi sbadigliando.
Adam non rispose, limitandosi a trascinarmi ancora più vicina al suo petto, circondandomi con le braccia e sistemando la coperta sulle nostre gambe intrecciate.
Poi, all'improvviso, quasi senza che ce ne accorgessimo, il sole iniziò a fare capolino da dietro gli spuntoni delle montagne, illuminando lentamente il mare azzurro ai suoi piedi e, pezzo dopo pezzo, tutto il paesaggio, che aveva preso un colore sempre più acceso, anche se, ad occhio nudo, sembrava quasi fosse sfocato. [2]
"È bellissimo", sussurrai, sorridendo.
"Già", rispose Adam semplicemente, ma lo sentii fremere contro la mia schiena, segno che quello spettacolo non aveva colpito solo me.
"Vorrei non dover più tornare a casa", sussurrai, stringendogli forte una mano.
"Purtroppo dobbiamo tornare a fare la vita di sempe", rispose lui, baciandomi una tempia e appoggiandomi la mano stretta tra le mie sul ventre. "E poi, te l'ho detto, voglio iniziare a preparare tutto per l'arrivo di questo piccolino".
"Adam...".
"No, frena", mi anticipò, capendo subito cosa volessi dire. "Andremo con calma, te l'ho promesso".
Sospirai. Perché mi sembrava di averla già vissuta quella conversazione? "Non è che non voglio venire a vivere con te", mormorai. "È solo...".
"Non sei ancora pronta", m'interruppe di nuovo. "Ti capisco".
Scossi la testa. "È successo tutto così in fretta, Adam. Dammi il tempo per metabolizzare".
"Non ti sto mettendo fretta, Lupacchiotta. Voglio solo che tutto sia perfetto".
"E lo sarà, fidati. Prenderemo una casa...".
"La mia è grande abbastanza per una squatra di calcio, non trovi?".
Alzai un sopracciglio. "Ci trasferiremo a casa tua", riprovai. "E poi...".
"Ci?".
"Io e Wulfie", spiegai, guardandolo come se la cosa fosse ovvia. "Non era incluso un cane nel tuo progetto della famiglia perfetta?".
"Sì, però ho la sensazione che il tuo cane mi odi".
"Non dire sciocchezze", lo ripresi. "È solo che non ti conosce".
"Mah, se lo dici tu"; borbottò.
Sbuffai. "Posso continuare?", esclamai, fulminandolo con lo sguardo. Adam fece un cenno affermativo e io presi un respiro profondo. "Allora. Ci trasferiremo, io e Wulfie, a casa tua, arrederemo insieme una stanza per il bambino...".
"La bambina".
"Il bambino o la bambina, compreremo tutto quello che serve e ci prepareremo al grande giorno. Prima però...".
"Devi parlare con Mr Klant", m'interruppe per l'ennesima volta. Stavo per voltarmi e insultarlo, ma, quando capii il significato delle sue parole, mi limitai ad annuire. "Tranquilla", mi consolò, abbozzando un sorriso. "Sono anch'io uno psicologo, ricordi? Capisco come vanno queste cose".
Annuii di nuovo, esitando un attimo prima di porgli la domanda che mi vorticava in mente da qualche tempo. "Non sei geloso?", sussurrai.
"Di chi? Di Mr Klant?", rispose ridendo.
Scrollai le spalle. "Beh, gli racconto tutto, sempre, e prima di fare qualcosa sento il bisogno di avere un suo parere. Però anche tu sei uno psicologo, e pure il mio ragazzo".
"Che stupida", rise scompigliandomi i capelli. "Ovvio che non sono geloso! È il suo lavoro ascoltarti e deve conoscerti per poterlo fare bene, così come faccio io con i miei pazienti. Però a me basta leggerti negli occhi per capirti, Lupacchiotta".
"Ne sei certo?", mormorai insicura.
Adam mi afferrò il mento e mi fece voltare la testa, portando i nostro occhi ad incontrarsi inevitabilmente. Sussultai.
"Non hai paura di venire a vivere con me", sussurrò a pochi centimentri dalla mia bocca. "E nemmeno hai bisogno dell'opinione di Mr Klant. Hai solo paura di perdere il bambino. Di nuovo".
Sussultai di nuovo, stringendo le labbra. Maledizione. Ad Adam questo non l'avevo detto e, anche se Mr Klant era a conoscenza di questa mia paura, ero certa che con lui non ne avesse fatto parola. Allora era vero che Adam era in grado di leggermi nell'anima, oppure ero io che ero più semplice da capire di un libro aperto.
"Non perderti di nuovo a Pensierolandia", mi riprese, scuotendomi leggermente le spalle. "Capisco questa tua paura, Lupacchiotta, però...".
"No, tu non capisci", lo interruppi, trattenendo a stento il solito groppo che si formava in gola quando parlavo di quell'argomento. "Io... io sono completamente terrorizzata, Adam. Voglio già bene a questo bambino, come ne volevo a quello che ho perso cinque anni fa. Tu mi avevi abbandonato, e alla fine ho perso anche lui. Ho paura di come potrei reagire se non riuscissi a portare a termine nemmeno questa gravidanza. Cosa farai tu? Mi abbandonerai?".
"Mai", esclamò sicuro. "Non devi nemmeno pensarlo".
"Lo so", sbottai, ricordando le stesse parole che Mr Klant mi aveva detto. Strinsi le palpebre, cercando di mandare indietro le lacrime. "Però ho il terrore di perdere di nuovo entrambi, Adam. Capisci come tutta questa situazione sia tragicamente uguale? Io, tu e un bambino. L'ho già vissuta e non voglio ripassarci".
"Cosa vuoi dirmi, Amanda? Che non vuoi portare avanti la gravidanza?".
Scossi la testa energicamente. "Assolutamente no. Ho solo... paura", sussurrai alla fine, non trovando un altro termine per descrivere quella morsa che mi stava attanagliando il petto.
Adam mi strinse di nuovo a se. "Lo so", ripeté. "Però io ci sono".
Il cuore mi balzò nel petto a quelle parole e, finalmente, compresi la differenza tra il passato e il presente. Cinque anni prima eravamo praticamente due bambini messi di fronte a uno sbaglio più grande di loro. Perché sì, era stato uno sbaglio, non importava di chi, però non eravamo stati abbastanza adulti da prenderci le nostre responsabilità. Se Adam era fuggito, io non mi ero comportata diversamente tradendolo con il primo tipo incontrato per strada. Avevamo sbagliato e, soprattutto io, mi ero resa conto dell'errore solo quando avevo perso il bambino. Solo in quel momento mi ero accorta di quello che avevo perso ed era stato troppo tardi.
Ora, invece, eravamo più responsabili, forse un po' immaturi vista la gravidanza indesiderata, ma avevamo un piano solido su cui basare un futuro che comprendeva un terzo elemento. Ad appena vent'anni non avevamo niente di certo, ancora in bilico tra il mondo degli adolescenti e quello degli adulti. Come avremmo potuto pensare di crescere un bambino? Certo, ormai il danno era fatto e avremmo dovuto prenderci le nostre responsabilità. Invece le cose erano andate diversamente e ci eravamo trovati, cinque anni dopo, nella stessa situazione.
Era un caso o uno stupido scherzo del destino?
Qualunque fosse stata la risposta a quella domanda ormai non potevamo tirarci indietro, io prima di tutti. Non potevo più nascondere la verità dietro ad illogiche paure: dovevo dare al mio bambino tutto quello che meritava, mettendo da parte anche me stessa se fosse stato necessario.
E, poi, avevo Adam con cui combattere. Non ero più da sola a dover affrontare una gravidanza, già faticosa di suo, ma potevo contare sull'appoggio di una persona che mi amava e che amava il nostro bambino.
E, allora, che cavolo stavo aspettando?
"Vengo a vivere con te, Adam", sussurrai.
"Ma...".
"Niente ma", lo interruppi, voltandomi di nuovo e guardandolo negli occhi in modo che potesse leggermi dentro come poco prima. "Iniziamo a creare la nostra famiglia".



Salve gente!
inizio con lo scusarmi per l'enorme ritardo, anche se avevo previsto che ci avrei messo più del solito ad aggiornare, ma questa settimana è stata piena al massimo e ho avuto davvero poco tempo per dedicarmi alla storia. Tra l'altro, visto che sono una masochista (e anche un po' stupida) mi sono iscritta ad un paio di contest e mi sto facendo tentare anche da un terzo. In ogni caso non preoccupatevi: questa storia avrà sempre la precedenza a tutte le altre, lo prometto!
Tornando al capitolo. Come avete visto ogni cosa si è sistemata e sta prendendo il corso giusto. Ovviamente i guai non sono finiti qui e mancano ancora otto lunghi mesi alla nascita del bambino, un lunghissimo lasso ti tempo nel quale possono succedere un sacco di cose! Ma non vi spoilero niente, soprattutto perché sono solo a metà della stesura del prossimo capitolo.
Le immagini che troverete qui sotto sono quelle riferite ai numerini nel testo (ancora devo imparare a creare i collegamenti D:). La foto dell'alba e mia, quella dell'aurora boreale l'ho dovuta prendere da internet perché, putroppo, per fotografarla servono delle lenti speciali che, ovviamente, non sono inserite in una semplice macchina digitale. Ogni cosa che ho scritto sulla Norvegia, tuttavia, è vera: le sensazioni che ho provato, la leggenda sull'aurora boreale e anche la sua formazione fisica (presa da Wikipedia, lo ammetto, ma non sarei stata capace di spiegarla con parole mie) e spero di avervi trasmesso un po' della bellezza di questo magnifico paese. Vi auguro davvero di visitarlo, un giorno, perché ne vale la pena, per tutto!
Ora vado a finire il prossimo capitolo e poi a studiare fisica, giusto per restare in tema, per la verifica di martedì: pregate per me, davvero!
a presto e grazie di tutto a tutti, in particolare ad Ali_13 e a minelli, che recensiscono sempre!
baci
mikchan

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