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Autore: Ely79    15/12/2013    1 recensioni
Vorreste trasformare la vostra ridicola Urbanhare in un mostro capace di far sfigurare le ammiraglie del Golden Ring? Cercate più spinta per i vostri propulsori a vapore compresso? Spoiler e mascherine su disegno per regalare una linea più aggressiva al vostro mezzo da lavoro? Una livrea che faccia voltare ogni testa lungo le strade che percorrete? Interni degni di una airship da corsa, con quel tocco chic unico ed inimitabile?
Se cercate tutto questo, grande professionalità ed un pizzico di avventura, allora siete nel posto giusto: benvenuti alla "Legendary Customs".
[Ambientazione Steampunk]
Genere: Avventura, Commedia, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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L.C. - Cap. 26
26

Le chiamate al mattino presto infastidivano profondamente Paul, specialmente nel suo giorno libero. Tuttavia doveva ammettere che alle levatacce impreviste corrispondessero spesso dei copiosi extra in busta paga, molto graditi.
Aris l’attendeva nello studio, di fronte alla grande vetrata, appoggiato all’immancabile bastone da passeggio. Da qualche tempo, durante le loro riunioni, gli vedeva indossare solo i calzoni. Era magro e pallido da far spavento, tanto che costole e vertebre disegnavano orribili arabeschi violacei sul suo torso, solo in parte nascosti dalla lunga chioma bionda; mani e piedi erano ancor più rinsecchiti, tanto da aver assunto un colorito opaco e giallastro. Eppure non sembrava soffrire chissà quali dolori o patimenti.
«Giovedì si terrà una serata di beneficenza indetta dal nuovo Governatore» annunciò indicando la busta posata sul divano, accanto ai suoi abiti. «Hernández ha intenzione di invitarci da subito a dar prova del sostegno che daremo alle sue idee mentre solletica il nostro ego con pasticcini e champagne».
«Per essere al primo mese di incarico ha già capito come sfruttarvi: pancia piena e portafogli vuoto. Mica male per un “onesto cittadino”».
«Non sei pagato per esporre queste ovvietà» l’avvertì Aris, portando sul petto una ciocca di capelli.
«Pensi che ci sarà Avelan?»
«Quale migliore palcoscenico per pavoneggiarsi e mettere in mostra la sua opera? È un’occasione troppo ghiotta per farsela sfuggire. Inoltre ci sarà Alexandra. Conto su di te perché qualcun altro partecipi con lei alla serata, dato che non vorrei sollevare un inutile polverone con il suo socio in affari».
«Pensavo che Scorch non…»
Il volto diafano del greco lo fissò tra gli aloni rosati dell’alba, serio ed impassibile, incorniciato da quella ciocca che somigliava ad un serpente addormentato. Sembrava essersi tramutato in una di quelle statue antiche che si vedevano nei musei.
«Oh… la pollastra» sogghignò, sfregandosi le mani. «Pensi che abbia qualcosa di interessante da dirti sui movimenti del russo?»
Le labbra di Aris si sollevarono, disegnando pozze scure sotto i suoi occhi.
«Il nostro gentile amico ti ha fatto sapere che Avelan la porta in palmo di mano, proprio come abbiamo avuto modo di verificare al City Garden. Sono certo che la sua presenza sarà di grande utilità, ben più di quanto tu possa immaginare» aggiunse con l’aria di chi si trovava molti passi avanti rispetto l’interlocutore.
«Basta che lo sai tu. Io faccio solo il galoppino».
«Sia chiaro: alla festa dovrai restare al tuo posto. Niente assalti alla signorina Vernet, di nessun tipo. Gestirò di persona i rapporti con la responsabile amministrativa della “Legendary”. Supervisionerai la serata intervenendo all’occorrenza, e solo su mio ordine diretto, proprio come è stato con i figli di Alexandra. Questo è quanto» concluse parlando al bastone da passeggio che faceva ruotare lentamente fra le dita.
Ad ogni parola il suo tono si era fatto più lieve, ilare.
«Ti fa ridere vedermi fare la tappezzeria?» domandò seccato, reprimendo a fatica uno sbadiglio.
«Ripensavo ai figli di Alexandra» replicò dondolando da un piede all’altro. «Quali segrete energie riescono a muovere due vite così giovani e inesperte. Quali curiose metamorfosi possono scaturire dalla loro presenza».
Il tono asciutto era adatto alla riflessione di chi non aveva figli, ma Clench avrebbe saputo riconoscere anche con le orecchie tappate le avvisaglie delle macchinazioni di Aris. E di solito comportavano cose molto sgradevoli, al punto che talvolta persino lui aveva difficoltà a metterle in atto.
«Cosa vuoi dire?»
«Mi domando che peso rivestano nelle dinamiche del mondo».
«Del tuo mondo?» puntualizzò allarmato.
La risposta si tradusse in uno strano silenzio, che al tirapiedi piacque ancor meno del solito.
«Aris, posso darti un consiglio?»
Per la prima volta in sei anni, Goundoulakis parve mostrare un briciolo di sincero stupore nei suoi confronti, volgendo il capo con l’apparente intenzione di ascoltare.
«Lo so, non è da me ma… lascia perdere i bambini. Qualunque cosa stai architettando per Avelan, tieni fuori i bambini da questa storia. Loro non hanno niente a che vedere con quello che vi state facendo, e comunque non ti servirebbero a niente».
L’altro non rispose e andò a prendere posto ai piedi della statua velata, come sempre. Si distese sul basamento, con un braccio sotto la testa a fare da cuscino e il bastone poggiato sul petto, lo sguardo perso tra le onde della stoffa. Le sue labbra presero a muoversi senza produrre alcun suono, accompagnate di tanto in tanto da un movimento appena accennato delle dita o dal sollevarsi di un tallone, come se segnasse il tempo di una canzone che lui solo conosceva.
Stufo di aspettare ulteriori chiarimenti o ammissioni, e per evitare di ricadere nella paranoia da alchimia che riguardava il suo capo, Paul si incamminò verso l’uscita.
«Clench?» chiamò Aris, quando questi era già alla porta.
«Sì?»
«Perché tanto prodigo riguardo i piccoli Lomann? È forse il tuo lato paterno a parlare?» domandò svogliato.
Lui portò una mano alla giacca, dove conservava con attenzione maniacale una fotografia, quasi si trattasse d’una reliquia.
«Esatto. E se non fosse per mia figlia non starei lavorando per te ora, ma marcirei in qualche galera o sarei già morto» ammise fissando la maniglia. «I figli ti fanno cambiare prospettiva su tante cose. Ti fanno diventare migliore. O peggiore. Ma lo fai sempre e solo nel loro interesse» aggiunse.
Ripensava all’emozione provata quando aveva tenuto in braccio la sua meravigliosa, piccola, dolce Becky per la prima volta e a tutto ciò che quel sentimento l’aveva spinto a fare per lei: dagli espedienti ideati per sottrarre denaro alla “Legendary” e ad altri polli, ai furti, allo spaccio, ai lavoretti per gentaglia peggiore di lui, fino alla coltellata con cui aveva spedito all’altro mondo lo schifoso bastardo che aveva cercato di adescare la sua bambina lungo il marciapiede di fronte casa. Aris gli aveva assicurato la libertà ed un lavoro ben pagato con cui avrebbe potuto darle un futuro, poco importava se non si trattava di fare il colletto bianco dietro ad una scrivania. Paul era nato e cresciuto nei bassifondi di Port Serafine, era lì che sapeva muoversi, era lì che aveva i contatti giusti per ogni “lavoretto”, ma questo non voleva dire che a Becky spettasse altrettanto, anzi.
Strinse la maniglia d’avorio, imponendosi di non immaginare cosa avrebbe fatto a quell’uomo se fosse stato il suo tesoro al centro di simili congetture. Probabilmente l’avrebbe sventrato con il serramanico che teneva agganciato alla cintura, senza pensarci due volte.
«Dammi retta, Aris. Tu non vuoi farti nemici Clayton e Sandy, lei soprattutto. E te lo ripeto: i bambini non ti servono».
Intravedeva l’uomo giocherellare con il drappo, apparentemente sordo a ciò che aveva detto. In quel momento sembrava lui stesso un bimbo preso dal suo giocattolo preferito.
«Vattene, Clench. Il sole sorge e tu hai da fare».

***

«No… non è… non è vero!» singhiozzò Junior.
«Invece è così. Adesso che non beve più si è accorto che dai fastidio, rompi le palle e fai solo casino. Ecco perché non ti vuole tra i piedi» grugnì Pancake con una smorfia cattiva.
Junior aveva sperato che qualcuno gli spiegasse perché lo zio, da qualche tempo, non giocava più con lui. L’unico disposto a dargli retta era stato Pancake, ma le sue risposte non l’avevano consolato.
«Non è vero! Bugiardo!»
«Rom-pi-co-glio-ni» scandì e continuò a ripeterlo soddisfatto mentre il bambino correva via in lacrime.
Tornò a dedicarsi al pannello che stava raschiando, ma il suo gongolare durò poco. Il pianto di Junior si era appena spento dietro la porta della cucina, che le unghie di Sandy l’afferrarono per l’orecchio, facendolo gridare come un animale al macello.
«Ho cose più importanti da fare, che tener dietro alle vostre giornate storte. E tu mi sembri un po’ troppo cresciuto per prendertela con un bambino di otto anni» sibilò.
Pancake sbuffò irritato, masticando amaro sebbene non avesse addentato nulla.
«E non darmi le spalle quando ti parlo!» lo sgridò e Pancake la fece contenta, voltandosi di scatto.
«Guarda che non sono il tuo ex-maritino! Non puoi comandarmi!»
«Sono comunque il tuo capo, anche se non ho piena voce in capitolo per questo progetto o se mi si vede poco qui dentro. Io rispetto te e quello che fai, e tu farai altrettanto con me e mio figlio, intesi?» strillò lei piantando le mani sui fianchi.
Il carrozziere scoppiò in una risata grassa e aspra.
«Io lavoro. Tu neanche sai cosa vuol dire! Che cazzo di lavoro è il tuo? Fai andare la lingua e fai vedere le tette e il culo! Sai che sforzo. Scommetto che lo fa pure quell’altra là, miss Solo Io So Fare i Conti! Solo che lei sta qui a farlo venire duro a Clay e Scorch, e tu te ne vai in giro per i marciapiedi a far vedere la merce a quelli che te la chiedono».
«Mi stai dando della puttana, Bidone?» soffiò inferocita, minacciandolo con una chiave inglese.
Pancake sembrò rendersi conto solo in quel momento di cosa avesse detto e superato un primo attimo di perplessità, si ritrovò a sorridere maligno. Sì, in effetti era proprio così che la pensava riguardo a lei e alla segretaria. Stano che non se ne fosse accorto conto prima di allora: dopo tutto, gli indizi c’erano tutti.
«Pancake!»
La sagoma di Clayton era emersa da dietro il muso della 7.201, grondante di sudore.
«Abbiamo appena scaricato il materiale per le fusioni. Vai a sistemarlo».
Il carrozziere spiò in direzione del cortile, mostrando in maniera inequivocabile quanta poca voglia avesse di mettersi all’opera, e tornò a rivolgere la sua attenzione alla donna.
«Subito» insisté Clayton, tutt’altro che amichevole.
Stizzito, Pancake si allontanò. Lo guardarono dirigersi al portone a spalle curve, più per frugare meglio nei nascondigli che si portava addosso che per effettivo dispiacere.
«Molla quella Due» intimò a Sandy.
Lei però rinsaldò la presa, soppesando l’arnese. Le tremavano le gambe dalla rabbia, al punto che i tacchi stridevano sul pavimento: moriva dalla voglia di rincorrerlo e spaccargli la testa con la chiave, anche se era abbastanza sicura di non riuscirci tanto quella testaccia era dura e ottusa. Clay sorvolò sul fatto che non potesse indossare scarpe simili in officina senza incorrere in un richiamo o in un’ammenda.
«Sandy, per piacere» disse Clay tendendo la mano.
«La prossima volta che si permette di parlarmi così, se la trova in gola. E non per il lungo» sbottò lasciando che prendesse l’attrezzo per gettarlo in una cassetta lì vicino.
«Non accadrà, te lo garantisco».
«Ha detto delle cose orribili a Junior. L’ha fatto piangere!» strillò furiosa pestando i piedi. «Non ne aveva il diritto!»
«A lui penso io» cercò di tranquillizzarla, posandole le mani sulle spalle. «Vai a dare un’occhiata a Junior. Parlo con Pancake e vi raggiungo» ma a quelle parole lei si liberò dalla stretta e gli prese il volto tra le mani.
Per un attimo sperò volesse sfogarsi come aveva fatto l’amichetta di Mac Gregor mesi addietro, ma sapeva che Sandy non era tipo da simili scene ed era troppo arrabbiata per decidere di volersi calmare.
«Uccidilo» gli ordinò.
Esasperato, Clay sospirò, approfittandone per strofinare la guancia conto il suo palmo.
«Donna, datti una calmata almeno tu, okay? Non serve a niente incazzarsi tutti quanti».

***

La Almond 289-bis vibrò, sollevandosi dai supporti. Occorsero alcuni minuti prima che il motore entrasse a regime e la polvere smettesse di inondargli le scarpe e i pantaloni, uscendo dagli scarichi.
Jack si concentrava di volta in volta su una singola sezione del motore, isolando il suono di ciascuna, analizzandone il ritmo, il timbro, le imperfezioni nelle vibrazioni. Essendo letteralmente cresciuto dentro il cofano di un’airship da corsa aveva imparato a distinguere il suono di ciascun organo meccanico, la sua melodia unica e inconfondibile. In quel momento sentiva un calo nella bancata sinistra, troppo distante perché potesse trattarsi della turbina anteriore.
Si infilò nel vano e raggiunse la manopola del calibratore, regolando l’afflusso di vapore al circuito numero quattro e tornò in ascolto.
No, non va ancora bene, considerò percependo uno sfregamento affannoso di sottofondo. Le pale non girano a dovere, come se mancasse grasso sul perno. Dev’essere troppo stretto l’innesto. Sì, deve essere quello, è troppo sforzato per una carenza di lubrificante.
Mentre si raddrizzava, indolenzito dalle ore trascorse a regolare il sistema principale, sentì qualcuno tossicchiare lì accanto. Strizzò gli occhi per riabituarsi alla luce e vide che si trattava di Patch.
Era seduto a terra, con la schiena poggiata al compressore di supporto, incurante dei poderosi sbuffi di vapore che lo investivano e del cartello che vietava di fumare nelle vicinanze dell’apparato. Patch fumava raramente, quando aveva l’impressione che il mondo non gli lasciasse altre alternative per sfogarsi, proprio come in quel momento.
«Tutto bene?» chiese Jack, scrollando i ricci.
L’altro annuì, lo sguardo perso nel vuoto.
«Problemi per il campione?» domandò, indovinando l’oggetto delle sue preoccupazioni.
Non che ci fosse modo d’ipotizzare altro: la malattia di Andrew era la sola cosa capace di gettarlo nello sconforto più totale.
«Patch?» chiamò spegnando il compressore.
L’amico gettò via il mozzicone, espirando stancamente mentre il macchinario perdeva lentamente di giri.
«Gli esami… non vanno bene. Non migliora come prima».
«Ed è un problema? Qualcosa di serio?»
«Se non rispetta le tabelle mediche, potrebbero togliergli la cura» rispose alzando gli occhi arrossati dal fumo e dal dolore. «Perché, Jack? Perché devono fargli questo?»
Purtroppo, il motorista non aveva risposte da dargli, sebbene immaginasse il suo sconforto. Anche le cure per suo nonno si stavano rivelando inefficaci ad arrestare la malattia.
«Mia nonna dice che l’unico che può imporre regole che contino qualcosa è Dio. Tutti gli altri dovrebbero solo stare zitti» rispose sedendogli accanto.
«Allora Dio dovrebbe parlare con i medici di Andy e ricordarglielo».
«Non farti sentire da Choncho, o comincerà il suo rosario di bestemmie perché hai disturbato “Quello dell’Ultimo Piano”» ironizzò stiracchiandosi. «Ce la farà. Andy non si farà fregare. Lui è come Gunner» l’incoraggiò ricordando il solito adagio.
La testa di Malcom si mosse, abbozzando un assenso.
«Hai detto a tuo nonno della carretta?»
«Oh, sì. Gliel’ho detto eccome! A momenti gli prende un colpo».
Patch non rise, né commentò.
All’anziano Italico erano tremate le mani quando gli aveva mostrato la fotografia della sua 7.201 ed era scoppiato a piangere chiedendo a gran voce chi fosse “ol disgrassiàt che l’ghera cunsàt isé la so béla èscipp
1”. Vivian - che Giacomo aveva invitato a casa per l’occasione - si era offerta di portare il nonno a vederla quando fosse stata rimessa in sesto e il vecchio aveva prontamente protestato che alle donne fosse interdetto l’accesso ai box della pista, perché le corse erano roba da uomini. Alle belle ragazze come lei spettava dare baci di buona fortuna e di vittoria al pilota. Vivian si era sforzata di sorridere, ma la zia e la nonna l’avevano presa in giro per la sua espressione tirata.
«Vuol vederla?»
Jack ridacchiò, scroccandogli una sigaretta.
«Secondo te? Ci ha corso per dieci anni, quasi centocinquanta Gran Premi incluso il Trophée du Nord. C’è la forma delle sue chiappe sul sedile. Ho detto a Odrin se può tenere l’imbottitura, almeno ci si può incastrare di nuovo».

***

Trovò Pancake dalla parte opposta del piazzale, in un angolo dove gli obbiettivi delle macchine fotografiche non potevano arrivare. Sedeva sui resti di alcune airship, cui attingevano di tanto in tanto per i pezzi di ricambio e i rattoppi della carrozzerie. Come al solito, si stava ingozzando delle schifezze che maceravano nella sua divisa da chissà quanto tempo.
Gli si avvicinò e attaccò senza tanti preamboli.
«Che significa, eh, Pancake? Si può sapere che ti prende? Ti ho detto di fare una cosa e ti trovo qui a far niente. E come se non bastasse, te la stai prendendo con tutti! Passi avercela a morte con Iron, posso capire che non ti vada a genio la sua scelta; passi pure con Boy, fa saltare i nervi anche a me, ma gli altri? Stai attaccando tutti senza motivo, persino mio figlio! Ma cosa ti dice la testa?»
L’altro si ficcò in bocca quello che poteva essere un biscotto o la crosta rinsecchita di una torta, masticando rumorosamente.
«Senza motivo? Senza motivo?» sbraitò con la voce resa stridula dal boccone che aveva ancora in gola. «Cazzo, Clay ma ce li hai gli occhi o che cosa?» sbraitò. «Non lo vedi che merdaio è questo posto?»
L’esclamazione fece irrigidire il capofficina. Scorch gli aveva accennato ad un discorso simile avuto proprio con Pancake qualche tempo prima, ma in quel periodo suo cugino non era messo bene e poteva essersi sognato tutto per quanto ne sapeva, motivo per cui non aveva dato troppo peso alla cosa. Sembrava che d’un tratto la “Legendary” andasse stretta al loro carrozziere, e visto il recente incremento del suo girovita, le battute si sarebbero potute sprecare.
«Stai attento a quel che dici. Hai appena fatto piangere mio figlio e non ho voglia di ascoltare stronzate. Quindi, vedi di darmi una spiegazione come si deve» l’avvisò asciugandosi il sudore che gli colava dalla testa, già surriscaldata dal sole.
«Cosa c’è da spiegare?» bofonchiò l’altro succhiandosi le dita.
«Comincia a dirmi perché ce l’hai con tutti. Non hai litigato con Odrin perché se ne sta chiuso nel suo laboratorio, altrimenti avresti avuto da ridire anche con lui».
«Vorrei vedere… selvaggio di merda» sputò.
«Falla finita».
«Finirla? Finire cosa? Mi sono rotto le palle di quello che sta succedendo qui dentro e sembra che sono l’unico a vederlo!»
«Sarebbe a dire?»
«Ma porca puttana! Guarda là!» urlò indicando l’officina. «Come cazzo fai a non capire? A non vederlo? Ci rovineranno! Guarda i giornali! Ci hanno massacrato per quel bastardo immigrato e sua madre, per quel fottuto cinese, per le puttanate che ha fatto Scorch… ancora un po’ e arriveranno al deviato. E quel codardo di Jack, che si è pisciato addosso perché ha visto un incidente e ha buttato all’aria un sacco di soldi. E poi c’è l’apprendista! È un malato che fa cose strane, peggio di quell’altro che neanche sappiamo chi cazzo è davvero! Magari è terrorista, un assassino. Se non parla ci sarà un motivo. Nessuno di loro si merita di lavorare qui, sono tutti sbagliati, fatti storti, roba che dovrebbe stare a morirsene per strada o in galera! Non c’è un solo uomo degno di stare qui dentro tra quelli! Io sono nato qui, come te! Noi due sappiamo cosa vuol dire essere persone per bene, non quegli altri!»
Si fermò un attimo per riprendere fiato, incurante dello sguardo sempre più furibondo di Clay.
«E poi c’è quella cagna tieni di sopra con quella stronza di Sandy! Crede di sapere fare le cose meglio di me, si rifiuta di darmi quello che mi spetta ma è come tutte le altre, buone solo a farsi sbattere per avere quello che gli fa comodo. Ah, ma loro lo fanno perché pensano! Come no! Da quando le donne pensano? Ci manderanno in malora! E a me tocca stare agli ordini di quelle troiette perché tu te ne freghi di quello che fanno e mi trovo quel rompicoglioni di tuo figlio a frignarmi tra i piedi! Devono starsene a casa o nel cazzo di bordello dove le avete pescate! Cacciale, cazzo! Caccia quei dementi prima che ci facciano andare a picco! Riprendiamoci la “Legendary”, deve essere solo di chi se la merita, non un buco di stronzi!»
Preso com’era dall’arringa, non vide il sinistro di Clayton arrivargli dritto in faccia. Crollò all’istante nella polvere del piazzale, in un tremolio dolorante di carne e vestiti. Ebbe appena il tempo di rendersene conto che il capofficina l’afferrò con entrambe le mani per la camicia, sollevandolo abbastanza da riportare la sua faccia oltre le ondulazioni di grasso che componevano la maggior parte del suo corpo.
«Ora sturati le orecchie Delmar Parker, testa di cazzo che non sei altro, perché te lo dico una volta sola, una soltanto: azzardati di nuovo a parlare così di tutti noi, anche solo per scherzo, e ti garantisco che questi saranno gli ultimi dei tuoi problemi. E se ti sento dare di nuovo dei rompicoglioni ai miei figli o della puttana a mia moglie, se vedo una sola lacrima sulle loro facce, ti garantisco che ti faccio rimpiangere ogni giornata passata qui dentro e ti prendo a calci nel culo finché non avrai vomitato anche il primo dolce che hai messo in bocca, fosse pure il latte di tua madre! Mi sono spiegato, Delmar?»
Quello rise, mostrando i denti impiastricciati di arachidi e glassa.
«Non mi fai paura».
«Non voglio farti paura, idiota. Voglio farti rigare dritto» ruggì lasciandolo andare.
Pancake franò di nuovo gambe all’aria, ansimando. Si agitava come una tartaruga finita sulla schiena, incapace di raddrizzarsi. Clay rimase a guardarlo finché non riuscì a rotolare tremolando su un fianco.
«Adesso vai a mettere in ordine quella roba. Giovedì dobbiamo fare la colata».


1 Ol disgrassiàt che l’ghera cunsàt isé la so béla èscipp: in bergamasco “il disgraziato che gli aveva conciato così la sua bella airship”. Ovviamente non esiste una traduzione dialettale di "airship", quindi "èscipp" è la traslitterazione più probabile.

Wirter's Corner
Anticipo la pubblicazione per cause di forza maggiore. Grazie a tutti i lettori e recensori!
   
 
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