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Autore: kiki96    08/01/2014    1 recensioni
Siamo nel 4567, il mondo è ormai una rovina, cade a pezzi ed svuotato di ogni essere vivente. Nel suo cielo però esiste un enorme metropoli governata da robot, gli esseri umani sono diventati dei numeri facilmente rimpiazzabili, numeri che non si ripetono mai. Il caso o il destino, vuole però che il protagonista di questa storia, il suo nome è Tredici, incontri una ragazza col suo stesso nome. Non è possibile, sono due errori genetici e per i robot, esseri privi di qualsiasi scrupolo, devono morire.
Cosa accadrà adesso?
*Salve! ammetto che questo è il mio primo testo fantascientifico... in realtà l'ho sognato mesi fa ma la storia mi piaceva perciò ho deciso di scrivere questo testo... spero vi piaccia. K.*
Genere: Azione, Guerra, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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UNO
 
Vento. Un freddo, insistente, potente vento mi scompigliò i capelli mossi che avevo. Chiusi la giacca di pelle per proteggermi da quell’improvvisa folata d’aria che mi aveva fatto rabbrividire e stupire al tempo stesso. Era strano, solitamente, in questa parte del mondo, non tirava mai un filo d’aria, né di giorno né di notte.
Con la mano sinistra presi la bottiglia di birra che avevo appoggiato sul muretto diroccato di una fontana, bevvi il liquido che mi bruciò la gola dopo il suo passaggio. Sospirai confuso, sapevo che il vento non portava mai buone notizie, soprattutto per noi poveri umani rimasti sulla terra. Nonostante tutto, questo agente atmosferico mi piaceva molto, forse perché assomigliavo un po’ a lui. Ero un fuggitivo che si divertiva a sparire sempre nei momenti più critici e ritornavo pieno di guai, riuscivo a mutare a seconda della situazione che mi si presentava ed ero un bugiardo. Un bravo bugiardo che si divertiva alle spalle di tutti. Così, almeno dicevano gli altri. Io non mi definirei così, a dire il vero non mi definirei e basta. Odiavo dare un punto fisso alle cose e aggrapparmi a quel punto come se mi potesse salvare la vita, ero sicuro che, quel punto fermo, un giorno o l’altro sarebbe mutato ed allora sarebbe stata la fine. Ma nonostante ciò, sapevo per certo che non riuscivo a non aggrapparmi a qualche vana speranza, una speranza che sarei uscito da questa prigione senza sbarre e a cielo aperto.
Frugai nella tasca interna del giubbotto rabbrividendo di nuovo quando aprii la cerniera, e presi un pacchetto di sigarette accendendone una.
L’unica salvezza in questo frammento di mondo rimasto: sigarette. Fumandole riuscivo a pensare e a capire cose che non sembravano avere logica, mi davo delle risposte alle domande impossibili che mi facevo e smettevo di credere che qualcosa potesse cambiare dando una giustificazione a tutto ciò che mi circondava.
Il perché il pianeta era diventato un giocattolo loro, il perché nessuno aveva mai provato a ribellarsi, il perché fossimo diventati numeri…
Inspirai la nicotina e poi la rigettai fuori. Una nuvola di fumo fuoriuscì dalle mie narici impedendomi la visuale per una breve frazione di secondo.
Guardai ancora una volta il solito paesaggio squallido che mi si presentava davanti agli occhi: una casa bruciata e crollata era disposta ad una ventina di metri da me, altre macerie giacevano attorno alla piazza, composta ormai da mattonelle disconnesse e da profonde crepe nel terreno, al centro di quello che era rimasto della piazzetta si intravedeva un piedistallo di marmo incrinato e privo, ormai, della statua che avrebbe dovuto sorreggere.
Un altro tiro e poi poggiai la testa contro la statua della fontana, quasi inesistente anch’essa.
Sapevo che questo posto era inquietante per via del silenzio che alleggiava o perché ogni tanto c’erano rumori improvvisi di cui si ignorava la provenienza, ma qui mi rilassavo e potevo essere libero. Solo per poco.
Clack!
Ogni volta che sentivo questi rumori, mi tornava in mente solo una parola: fantasmi.
Non sto parlando di quei fantasmi che hanno un corpo ectoplasmatico o che sono bianchi e cattivi, no. Intendevo fantasmi del passato, quelli che vivevano nelle fondamenta delle città, quelli che pur essendo distrutti sono ancora vivi, quelli che avevano vissuto e impresso ogni emozione nel cemento, quelli che reclamavano con dolore la libertà perduta.
Ogni volta, dentro me, mi univo a loro gridando col cuore una giustizia che non c’era più da molto tempo.
Quando finii la sigaretta, la gettai in terra e poi scolai la bottiglia di birra. Finito di rodere il mio fegato, mi alzai con passo deciso e tornai sui miei passi attraverso i vicoli bui e sconnessi.
«Accesso negato, lei non può stare qui»
Mi voltai con irritazione sapendo già cosa avrei visto. Infatti, davanti a me sostava un manichino con un busto quadrato che lampeggiava di rosso, sugli arti si vedevano bene i legamenti di ferro e titanio che collegavano dal busto alla mano, la testa aveva due occhi rossi e vitrei privi di ogni qualsiasi emozione e sulla sua cima c’era una cappello dell’unità militare. Il colore verde scuro era un cazzotto in un occhio rispetto a quel bianco impuro e neutro, senza vita e senza sentimenti.
«Lo so, lattina ambulante»
«Offesa a pubblici ufficiali, signore. Dovrebbe venire con me»
Presi una sigaretta dalla tasca e l’accesi, feci un tiro e poi spensi la sigaretta sull’occhio del robot: «Io non andrò da nessuna parte con te. Né ora né mai»
Il robot, con la mano a tenaglia, cercò di afferrarmi il polso mentre diceva meccanicamente: «Oggetti di contrabband-» con un movimento lesto gli presi la testa e gliela spaccai con la forza del ginocchio. Prima che lanciasse l’allarme con le sue ultime energie, strappai i fili che aveva dietro la nuca e lo lasciai a terra, come un burattino immobile.
«Offesa un cavolo. Crepa, razza di bastardo» con passo lento e strascicato me ne andai da quel luogo prima che arrivassero altre guardie.
Con nostalgia immaginai come erano stati i tempi in cui il mondo non era comandato da stupide scatole elettriche, tempi lontani e dimenticati ormai che, purtroppo, non sarebbero più tornati.
Fissai il ginocchio e notai che una chiazza rossa si stava allargando sui jeans già strappati. Loro diventavano sempre più forti e pericolosi, noi eravamo afflitti dalla maledizione dell’umanità, eravamo troppo vulnerabili e deboli, non potevamo competere. Però avevamo qualcosa che loro non avrebbero mai avuto: le emozioni. Erano la nostra ultima ancora di salvezza o la nostra debolezza che ci avrebbe portato a morte certa.
Purtroppo non avevamo ancora tentato nessun attacco serio e loro continuavano a controllarci sempre, con costanza.
Sospirai angosciato, le mani tremavano dal freddo che era penetrato fin nelle ossa. Salii sulla moto, nera con ruote estremamente grandi e piccoli led blu che le illuminavano, e partii verso quella che chiamavo “casa”.  Partii verso Number-city.

NDA: ecco il primo capitolo! Non so cosa dire a  aprte una cosa: è una trama terribilmente complicata e, fino ad un periodo fa, il genere fantascientifico non faceva per me. Non FA per me. Ma questa storia l'ho sognata e credo che valga la pena di essere raccontata, in fondo questo futuro potrebbe essere più vicino di quanto si pensi, no?
K.

 
  
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