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Autore: Hiroponchi    10/01/2014    4 recensioni
“Sai una cosa, Allie? Diventerò uno scrittore. E tu sarai la protagonista di ogni mio romanzo. Parlerò di come la Streghetta di Vancouver si trasformò in una farfalla e di come si innamorò di un potenziale assassino venuto da lontano”.
Genere: Azione, Drammatico, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti
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Occhi Specchio
“E’ una coccinella”, ricordo che disse la mamma. “Non è adorabile?”.
Aveva il palmo della mano aperta e io non vedevo altro che una distesa di pelle bianca con al centro una cosettina piccola, rossa a macchie nere. Ricordo di aver guardato con tanta attenzione e di essere rimasta triste quando la coccinella volò via. Erano passati undici anni da allora e ora mi ritrovavo ventenne, ad ammirare le stranezze del mondo, e imparando ad amarle. Perché io ero una di esse. Ero diversa. Ero strana. O così mi giudicava il mondo ed io avevo mio malgrado imparato anche questo. Ad essere diversa. La mia famiglia era composta da quattro persone esclusa me. Il papà era un omone biondo, ex surfista di Miami, innamorato pazzo della mamma, impiegata bionda. Le mie due sorelline minori avevano entrambi i capelli color dell’oro e odiavano la mia collezione di libri fantasy. Io avevo invece una capigliatura color castano cioccolato, mi dipingevo le unghia di nero, e leggevo Il Signore Degli Anelli prima di coricarmi sotto le coperte. Andavo a letto alle dieci, leggevo fino a mezzanotte, poi spegnevo il lume e, al calduccio delle coperte, passava un’altra ora buona prima che prendessi sonno. Le mie sorelline, dal canto loro, andavano a letto a mezzanotte, dopo le grida della mamma per far sì che facessero i compiti, e leggevano Il Mago di Oz per stancarsi delle pagine solo una mezz’ora dopo e una volta a luci spente, dormivano come ghiri. Erano entrambe alle scuole medie, una in terza e l’altra in prima, e si vantavano dei loro splendidi capelli biondi. Ma qualsiasi fosse la realtà, la mamma che ricordavo io, amava le coccinelle e teneva sempre i capelli cioccolato in un’alta coda dietro la nuca. Non metteva le zanzariere ai balconi, faceva entrare le coccinelle e litigava con le mosche. E non spruzzava mai insetticida perché diceva che le rendeva puzzolente la pelle. Poi lei era andata via ed io mi ero ritrovata in una nuova famiglia, dove i monologhi erano sempre gli stessi.
“Allie, stai ancora leggendo?”, disse la voce stufa di mamma.
“Si, sono all’ultimo capitolo”, risposi.
“Và a letto che domani c’è scuola. E non lagnarti, le tue sorelle vogliono dormire quando salgono, non credi di disturbare troppo?”.
Sbuffando misi da parte Agatha Cristy e spensi il lume. Al contrario di ciò che diceva o pensava mamma, Madison e Lily salirono ridacchiando e parlando abbastanza volgarmente di un ragazzo bello comparso in classe. Si infilarono sotto le coperte e aprirono i loro libri di favole che credevano essere una buona copertura. “Che palle far credere alla mamma che ci piace ancora questa roba” disse Madison, indicando la figura dell’uomo di latta senza cuore.
“Vorrei un libro su Micheal”.
Risero di nuovo e spensero il lume perché arrivò la voce di rimprovero di papà. “Credi che Allie stia dormendo?” domandò d’un tratto Lily. “Voglio spettegolare”.
“Si, dorme. Dice di essere insonne, ma valle a credere”.
“Papà ha detto che l’hanno adottata quando noi eravamo piccole. Non volevo una sorella maggiore che non fosse tale per davvero”.
“Dov’è finita sua madre? Era una puttana?”.
“Macchè, magari! Almeno non ci sarebbe stato tanto da vergognarsi. Sua madre era, pensa, una cartomante! E collezionava coccinelle vive! Diceva che fossero per botanica ma sono sicura che facesse esperimenti strani”.
Madison scoppiò a ridere e si coprì la bocca col lenzuolo. “Maddai, una cartomante? Una bugiarda! Chi crede a quella roba? Leggeva i tarocchi?”.
“La sfera di cristallo” ululò Lily e anch’ella si coprì col lenzuolo. “Forse qualcuno ha dato fuoco alla sua tenda”.
“E suo padre?”.
Cadde il silenzio. Entrambe guardarono verso il mio letto sul quale ero solo un ammasso silenzioso di coperte. Anch’io avevo il lenzuolo in bocca ma per i singhiozzi. “Scappò col circo” bisbigliò Lily, spaventata. “Un giocoliere matto. Mangiava il fuoco e si lanciava dal trapezio”.
Anche Madison si rabbuiò. “Forse è stato il padre, allora, a dar fuoco alla madre”.
“Questa si che sarebbe una bella storia da leggere”.
E spensero il lume.
 
La scuola era un cortile freddo e grigio anche se c’era il sole. La struttura era bianca, con qualche crepa, ma pulita. Lo spazio pullulava di gente che mi stava antipatica ed io lo ero a loro. Mi sedetti sul solito muretto di mattoni, ad osservare quello sciame di api annoiate. C’era una certa atmosfera agitata: tutti scrutavano tra la folla, tutti si parlottavano all’orecchio o controllavano l’orologio. Madison e Lily si fecero spazio a spintonate. “Ehi, Allie” mi chiamarono con arroganza. “C’è un nuovo tipo anche oggi. Non sappiamo chi sia ma noi l’abbiamo visto. È un figo da paura quindi non dire che siamo sorelle ok? Non vogliamo che si spaventi o che diventi amico di una che…”
“Si, okay” tagliai corto e mi ributtai lo zaino sulla spalla. Avevo solo un filo di matita intorno agli occhi e un po’ di rossetto rosa. Non mi piaceva truccarmi con mano pesante ma in quel momento avrei voluto indossare una maschera. Mi guardavano tutti, chiedendosi come mai in una famiglia di biondi, ci fosse una castana cioccolato. Nel cortile della scuola nessuno sapeva stancarsi dei pettegolezzi ed io non vedevo l’ora di diplomarmi e andare via di lì. Quanto a casa sarei presto scappata. Prima o poi. Forse più poi che prima ma lo desideravo. Suonò la campanella e ci fu una spinta tremenda contro l’ingresso come se la marea ti spingesse verso gli scogli. Finii addosso ad un ragazzo e lui mi sostenne. Sotto la guancia sentii un cuore che batteva sotto una t-shirt di cotone. Mi alzai di scatto e mi rassettai i capelli. Era un ragazzo molto alto e magro, ma non troppo. Portava i capelli neri a spazzola e gli occhiali da sole a specchio.
“Tu sei la Frankstein di cui tutti parlano” esclamò. Non era una domanda. Poi mi fissò in silenzio perché non gli diedi una risposta. “Mi aspettavo un aspetto cadaverico e molto più trucco. Mani scheletriche e più borchie. Mah, la gente arricchisce troppo i pettegolezzi”.
Qualche ragazza in minigonna passò lanciando un’occhiata infuocata al tipo. Capii che era il nuovo ragazzo. Io mi guardai intorno. Non riuscivo a muovermi e al contempo mi girava la testa come su una giostra. “Stai bene?”, mi chiese. Era noncurante, come se stesse parlando ad un cane, ma c’era una nota preoccupata appena udibile, nel suo tono. “Mi sa di no, vieni con me”.
Mi prese per mano e prima che potessi fare qualcosa, mi condusse nel cortile ormai deserto. Un raggio di sole caldo colpiva gli alberi spogli e la fontanella di mattoni che aveva il rubinetto sporco di ruggine. Lui aprì l’acqua fredda e ne raccolse un po’ tra le mani, porgendomele. La luce solare colpì quel sorso d’acqua, facendone luccicare la superfice. Era come se mi mostrasse un lago segreto. “Bevi, prima che goccioli tutto”, mi disse. Per lui era la cosa più comune del mondo ma per me non lo era affatto. Tuttavia mi colpì un altro giramento di testa e caddi carponi dinanzi a lui, con la bocca che beveva dalle sue mani tese.
“Sembravi un gatto”, disse felice. “Che carino”.
“Non sono un gatto”, risposi contrariata.
Lui abbozzò un sorriso che sapeva di tristezza, poi si drizzò e mi porse la mano bagnata. Mi tirò su e mi sorrise con più entusiasmo. “Qui si sanno solo fare i pettegolezzi, vero?”, mi chiese.
“Farai tardi alle lezioni”.
“Non ci voglio andare”, disse. Se ne andò, dandomi le spalle, e oltrepassò il cortile della scuola. Incuriosita, lo seguii. I rumori del traffico ci arrivarono come squilli di trombe. D’un tratto mi mancò il silenzio che ci aveva avvolto mentre bevevo ma mi sentivo sollevata. Almeno i rumori coprivano i silenzi imbarazzanti. “Sei un tipo strano”, gli dissi.
“Lo so”. Non era sorpreso di vedermi accanto a lui. Non era neanche trasalito. “Per questo non mi piace questa scuola. E lo stesso vale per te”.
“Già”.
“Perché la scuola parla di te?”
Osservai lo sciame di auto, mi sentivo a disagio, come se stessi vivendo attraverso gli occhi di una persona estranea. “Perché sono diversa dalle mie sorelle”.
“E questo che centra?”, mi chiese lui, sconvolto.
“Credo di essere stata adottata”.
“Ah”.
Mi lasciai cadere sugli scalini di mattoni dinanzi ad una casa abbandonata e lui sedette accanto a me. Gli guardai il viso di profilo. Orecchie perfette, mi tentavano di accarezzarle; guance piene ma pallide, labbra carnose, rosee; fronte limpida, con un ciuffo di capelli corvini. “Togliti gli occhiali da sole”, gli sussurrai.
“Nient’affatto! Se lo facessi, la scuola parlerebbe anche di me”.
Un fruscio di vento mi scompigliò i capelli, mostrando un orecchino a forma di croce. “E perché dovrebbe?”.
“Perché qui la gente si nutre della sofferenza altrui. Spettegola, ti guarda soffrire, e gode. Basta che tu sia diverso per diventare cibo per i loro stomaci perennemente affamati”.
Le sue parole mi colpirono a tal punto da farmi rimanere zitta. Lo guardai con uno sguardo sognante che non mi accorsi di aver assunto sul mio viso. Avrei quasi voluto abbracciarlo mentre la sua voce calda mi carezzava, entrandomi nelle orecchie e scendendomi dolcemente giù per il corpo. “Dimmi almeno il tuo nome”, gli dissi piano, come se temessi di rompere un vaso di porcellana.
“Kei”, rispose solamente. “Vengo da lontano”, poi si voltò. “Tu chi sei, streghetta di Vancouver?”.
Gli sorrisi. Per una volta qualcuno usava quell’espressione per citarmi con simpatia, per farmi ridere e non per ferirmi. “Allie”, dissi.
“Ciao”, esclamò, balzando in piedi con un balzo. “Allie, streghetta di Vancouver”.
 

  
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