Conversations.
Fourth Conversation: Life
sucks
La mano è incredibilmente calda e
confortante nel momento in cui si poggia sulla spalla.
Stringe leggermente, un gesto goffo ed
imbarazzato di chi non ha idea di come comportarsi ma vuole in ogni caso
tentare.
House continua a fissare il cielo freddo al
di là della sottile finestra dell’ufficio, grigio eppure luminoso più di quanto
dovrebbe essere in una giornata come quella.
Piove, ed House pensa sia quasi ironico.
Piove come nei classici film, dove ad ogni scenario triste si aggiungono grosse
gocce di pioggia che rendono il tutto più noioso e
deprimente.
La mano è rimasta ferma, ed House si chiede
se è davvero di chi immagina sia. È grande, troppo per essere di Cameron, e la
stretta non possiede la grazia delicata di Lisa.
Eppure è gentile, e sembra trasmettergli la
preoccupazione e la tristezza che gli avvenimenti hanno trasmesso anche a coloro
che dovrebbero essersene già dimenticati.
Rimane rivolto verso la finestra, e l’altro
gli si affianca con un passo felpato. Ha le scarpe tipiche di molti
chirurghi.
Si è sempre chiesto perché amano tanto
portare delle scarpe differenti. Fatta eccezione per alcuni, la maggioranza
utilizza le mani per compiere il proprio mestiere, ed oltre la bravura e
l’orgoglio smisurato che fa sì che pensino d’essere in grado di salvare una vita
non dovrebbe servire altro.
E invece no. Le scarpe piacciono a tutti,
senza eccezione per Chase, che ora è accanto a lui, in piedi, rigido per
l’imbarazzo.
Si aspetta una qualche frase stereotipata
che lo tolga dallo scomodo silenzio, un non è colpa tua, o un non potevi fare
nulla.
Invece dalla sua bocca non esce altro che un
respiro cauto, e la mano inizia a rilassarsi sulla sua
spalla.
Devono sembrare alquanto ridicoli ad un
occhio esterno.
Un uomo con un bastone mollemente seduto su
di una sedia, ed un ragazzo in piedi accanto a lui con una mano appoggiata alla
spalla. Scena piuttosto imbarazzante.
Ma le tendine sono chiuse, e forse ci si può
concedere d’essere più umani, ed accettare che forse il conforto del giovane gli
fa più piacere di quanto potrebbe fare la solitudine pesante e buia che
l’avvolgeva sino a pochi minuti prima.
Chase si sposta impercettibilmente, e
tossisce bloccandosi quasi per non interrompere il filo dei pensieri del
nefrologo.
È evidente che non è abituato a stare
accanto alle persone in un senso non strettamente fisico. Forse per il suo
aspetto fisico, nessuna donna deve avergli mai richiesto di dimostrare molto, e
Cameron di certo soffoca ogni suo tentativo di mostrarsi altruista, avendo lei
il compito in ogni situazione di preoccuparsi e agire.
“Non meritava di morire.” Ha la voce
leggermente rauca, ma ferma e convinta.
È brutalmente onesto, come non lo era mai
quando lavorava per lui, ed è la prima persona che dice davvero cosa tutti
pensano.
Non è un tono accusatorio, non è
compassionevole né di biasimo. È una constatazione, talmente ovvia che nessuno
si era preoccupato di farla. Ma lui riesce a farlo, e finalmente House sente
tutto il peso di ciò che era successo cadergli realmente addosso, e il limbo
vitreo frantumarsi come in seguito ad un pugno rabbioso.
“No.” Sarebbe stato meglio fossi morto
io.
Ma ovviamente non termina la
frase.
“Nessuno meritava di morire. È solo che la
vita fa schifo.” Lo sorprende, come se gli avesse letto nel pensiero. Parole
semplici, quelle di un ragazzino disilluso, probabilmente ciò che Chase è sempre
stato. Un bambino un po’ uomo, a cui l’infanzia era stata strappata, così come
la maturità era stata consegnata troppo in fretta perché lui la potesse capire
pienamente.
E tentava di darsi un contegno,
arrangiandosi come poteva in un mondo decisamente veloce ed adulto per i suoi
gusti. Troppo veloce, troppo adulto.
“La vita fa schifo.” House riprende le sue
parole, ma in bocca le sente più amare e finte di quanto non fossero state con
l’inflessione australiana, e rinuncia ad aggiungere altro.
Si arrischia ad immaginarlo da piccolo. Con
due grandi occhi verdi che registravano una madre decisamente non degna di tale
nome, ed un padre decisamente non presente.
Le parole risuonano così vere perché lui ne
è profondamente convinto, perché è tutto ciò che la vita gli ha davvero
trasmesso. Si accorge che anche lui gli ha solo confermato l’idea. Che è stato
una sottospecie di secondo padre, se possibile peggiore del primo, a cui Chase
si era attaccato, mirando a non deluderlo mai, e facendolo
puntualmente.
Con un gesto della mano cancella quel genere
decisamente pericolo di pensieri.
“E dato che fa schifo, la si deve sfruttare
a pieno. Cazzo, se non vuole concederci niente, si deve prendere ciò che si
vuole lottando. E non si deve fuggire davanti all’ovvio solo perché vorrebbe
dire mettersi troppo in gioco.”
Un’altra stretta a mò di saluto, e dei passi
felpati che si allontanano.
Apre la porta, e si volta una ultima
volta.
“A domani, House.”
****
Ha il viso appoggiato distrattamente ad una
mano, e fissa dei documenti davanti a sé senza vederli minimamente. È evidente
che sta pensando a tutt’altro, probabilmente a tutto ciò che è successo negli
ultimi giorni, e che non ha avuto il tempo di somatizzare.
Alza il viso quando sente il rumore di legno
e scarpe da ginnastica avvicinarsi.
“Ti devo portare a
cena.”