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Autore: Medy    19/01/2014    1 recensioni
Puoi seppellire vecchi rancori, vecchi segreti e vecchi fantasmi, ma troveranno sempre il modo per ritornare e rendere i bei sogni solo un incubo, un incubo che non trova pace. Quando nella cittadina di Dimwoods viene riaperto il "Caso Miller" vecchi ricordi e incubi ritornano a minacciare la tranquillità dei suoi abitanti. Giovane e dalla vita tormentata, la tragica e misteriosa morte di Marine Miller desta ancora sospetti a distanza di otto anni. Nessuno sembra sapere nulla, tutti sembrano non conoscerla come se fosse sempre stata un fantasma. Ma adesso che c'è un assasino a piede libero da cercare, tutti si chiedono cosa ci sia dietro e chi di tanto muostruoso abbia deciso di mettere fine ad una vita ancora giovane. Ma c'è qualcuno in realtà che sa più del dovuto e che ha sepolto tutto con menzogne e bugie... Almeno fino ad ora.
*Questa storia è stata scritta a quattro mani con l'autrice Whitesnow
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Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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3°Capitolo
 
“Il destino ha la sua puntualità”

 
La pioggia tamburellava fastidiosamente sul vetro dell'auto, impedendo la visuale della strada che si apriva di fronte a lei. Rosemary sentiva ancora un enorme groppo alla gola e sentiva le lacrime pizzicarle fastidiosamente gli occhi. Ritornare a Dimwoods non era stata una buona idea; lei sapeva cosa avrebbe trovato una volta lì. Sapeva che avrebbe dovuto affrontare i ricordi e il passato, ma era il momento di farlo. Era stata per troppo tempo rinchiusa in un'ampolla ovattata fingendo di aver solo sognato, fingendo di non aver storia prima di Dublino. Aveva finto per troppo tempo, bruciando le sue tracce su quella strada, le sue impronte da quei luoghi che l'avevano cresciuta, che l'avevano vista piangere, sorridere e che racchiudevano piccoli frammenti di vita. Aveva rivisto le ragazze dopo anni e anni di silenzio; aveva nuovamente rincontrato i loro visi, aveva risentito le loro voci e aveva rimpianto i loro attimi, il loro tempo, quando si erano sentite invincibili, quando avrebbero scommesso ogni cosa su di loro. Ma adesso sembravano solo delle estranee con troppo odio rinchiuso in loro; quell'odio pronto a scattare in qualunque attimo. Rosemary si asciugò frettolosamente una piccola perla salata che le scivolò ribelle dagli occhi; sentiva il respiro corto e la loro mancanza faceva più male della mancanza di ossigeno. Strinse il volante tanto forte da rendere le nocche bianche e sentire la copertura in pelle raschiare i palmi della mano. Aveva bisogno di distrarsi, aveva bisogno di caricare tutto quel dolore su altro. Non voleva soffrire così, voleva smetterla di sentire tanto dolore ancora; era bastato ciò che aveva dovuto subire in quegli otto anni ed era stanca di sentirsi a pezzi ogni volta che la sua mente divagava e si fermava sempre sul medesimo ricordo. Era stanca di sentirsi spezzata in due, di dover guardare quel tatuaggio e non leggere più ciò che esso rappresentava. Era semplicemente stanca di vivere con quel peso insostenibile. Sentì il trillo fastidioso del telefono e sobbalzò a quel richiamo alla realtà. Gli occhi erano ancora fermi sulla strada mentre con la mano libera - non poggiata sul volante - trafugava nella sua borsa in cerca del suo telefono che la chiamava a gran voce. Riuscì a trovarlo e con difficoltà rispose alla chiamata di suo fratello Aaron.

"Ehi" Rosemary fermò il cellulare tra la testa e la spalla e ritornò a guidare con prudenza. La ricerca dell'auricolare avrebbe impegnato altro tempo e quindi si accontentò di quella posa che le avrebbe procurato un gran torcicollo.
 
"Dove sei?" La voce distorta di Aaron toccava i toni della preoccupazione e Rosemary sorrise appena nell'immaginare suo fratello con sguardo apprensivo rivolto alla strada. La pioggia stava cadendo incessantemente aumentando la sua precipitazione. 

”Sono per strada….” Rispose semplicemente, unendosi al traffico di quel pomeriggio buio e cupo. 

“Non ceni da mamma e papà?” Aaron porse quella domanda, conoscendo già la risposta che gli sarebbe giunta e Rosemary si sentì tremendamente in colpa quando si vide costretta a concedergliela.

"No Aaron, ho bisogno di un bagno caldo. Domani devo recarmi in ospedale, è il primo giorno da specializzanda e voglio essere al pieno delle forze" Rosemary percepì che il silenzio di Aaron era di pura delusione. Le era molto legato e quegli otto anni andavano recuperati, ma non era in vena di fingere che andasse tutto bene. Non sentiva abbastanza forza che potesse aiutarla ad affrontare i suoi genitori e le occhiate insistenti di Aaron, che avrebbero ricercato risposta nel suo broncio, in quella sua aria cupa che non si accingeva a far sparire dal volto. Non aveva abbastanza forza per affrontare i suoi genitori e fingere di pendere dalle loro labbra, di ascoltare con precisione le mille raccomandazioni che il padre non si stancava di elencarle, nonostante fosse giunta ad un’età in cui raccomandazioni e consigli non esercitavano più alcun effetto. Eppure lei si sentiva in dovere di fingere che quelle parole avessero ancora effetto su di lei. 
Per troppi anni era rimasta incollata alla volontà del padre di dover ricercare il meglio per sè, di non accontentarsi della superficie ma di scavare a fondo; di cercare qualcosa di introvabile e di raro ed uscire dagli abiti di figli di semplici impiegati che - con sacrificio - erano riusciti  a dare a lei e suo fratello Aaron ciò di cui avevano bisogno. I ricordi delle giornate trascorse sui libri, o con la madre in biblioteca ad aiutarla a compiere le sue mansioni di bibliotecaria - e quindi approfittare di tutta quella conoscenza - erano ancora chiari e nitidi nella sua mente. Rosemary ricordava come - con il tempo - aveva iniziato ad adorare più i libri che le persone, rinchiudendosi nel suo mondo di carta e inchiostro. Era rimasta supina su un letto di finzione non assaporando la realtà che offriva qualcosa di meglio; qualcosa che Savannah, Faye ed Isabel le avevano dimostrato e le avevano fatto amare. Lo avevano fatto per lei, per permetterle di emergere tra la folla, di non restare incollata a quel luogo, ma di uscire e vedere il mondo e ciò che aveva da offrirle. Rosemary non le avrebbe mai ringraziate abbastanza per questo, anche se in fondo lei aveva sempre desiderato rischiare, gettarsi nella follia, assaporarne un po’; un piccolo cucchiaio di follia non poteva mai guastare. Per un po’ ne aveva fatto una scorpacciata abbondante, tanto da sentirsi sazia e felice. Ma adesso che tutto era finito, sentiva solo un enorme vuoto.

”Va bene Rose.. domani facciamo colazione insieme?" Il tono di voce speranzoso di Aaron fece cedere Rosemary, che non ebbe il coraggio di rifiutare l'invito del suo caro fratellone.

"Ok, domani facciamo colazione.... Ah lo sai chi ho appena incontrato... cazz...." Non ebbe il tempo di continuare la frase. Il telefono le scivolò via, rotolando sul tappetino dell'auto e nascondendosi da qualche parte tra il sediolino e la porta. Le imprecazioni di Rosemary giunsero a destinazione ed inconsciamente si abbassò alla ricerca del telefono. L'auto intanto proseguiva spedita priva di pilota che potesse guidarla e priva di comandi che la conducessero per la giusta strada. Rosemary tentava di compiere tutto in contemporanea: una mano che tastava i tappetini dell'auto - lo sguardo rivolto alla strada che si vedeva appena a causa dell'acqua che scrosciava violentemente - e la mente rivolta alla notizia che avrebbe dovuto dare ad Aaron e che di sicuro lo avrebbe spiazzato. Riuscì ad individuare il telefono tastando il display con i polpastrelli e si abbassò ancora un altro po’, distogliendo del tutto lo sguardo dalla strada. Fu un attimo e i mille sensi si attivarono contemporaneamente; qualcuno le bussò alle spalle facendola scattare e gli occhi - individuando l'ostacolo posto davanti a lei - comunicarono al cervello di frenare la corsa. Ebbe il tempo di farlo, frenò bruscamente e la testa sbatté appena sul volante ma nulla di grave. Il telefono era ricaduto sul tappetino e la chiamata si era staccata indipendentemente dalla sua volontà. Rosemary spostò lo sguardo dall’oggetto completamente oscurato al traffico che aveva creato dietro di sè. Bussavano con insistenza, confondendola e gettandola in un panico incontrollabile. Si guardò intorno intontita, massaggiandosi il capo che doleva appena e realizzò che la piccola botta che le faceva sentire quel lieve dolore - che sarebbe passato entro quella sera - non era nulla in confronto al danno creato involontariamente davanti a lei. Scorse  tra la pioggia del fumo che si mischiava ad essa un’auto ferma, sbucata improvvisamente senza preavviso: un elegante Audi costosa e di lusso aveva risentito dei danni della sua distrazione. Rosemary si mosse impacciatamente, non riuscendo a coordinare i movimenti e agire in modo lineare e concreto. Prese la borsa - rovesciando il contenuto sul sediolino - e cercò di ripescare tutto, ma le macchine alle sue spalle bussavano con insistenza. Gettò nuovamente la borsa ai piedi del sediolino vuoto e senza preoccuparsi della pioggia che cadeva incessantemente uscì dalla vettura, dirigendosi verso il malcapitato giunto sulla sua strada. Non diede peso alle auto che la sorpassarono imprecando e dedicandole parole poco gentili; gli abiti divennero completamente zuppi - imprignati di pioggia - esattamente come i suoi capelli che le si incollarono al viso. Pioveva con forza, con violenza, ma Rosemary era in pena per l’auto e per il suo proprietario, che in quel momento - munito di ombrello - abbandonò l’abitacolo per controllare il danno riportato. Rosemary si paralizzò completamente quando i suoi occhi e la sua attenzione percepirono e compresero chi fosse il proprietario dell’auto. Improvvisamente il tempo si bloccò, i rumori delle auto sparirono completamente e la pioggia non dava più alcun fastidio. Il freddo non penetrava nelle ossa ed il fumo del motore non era più visibile. Gli occhi di Rosemary erano completamente rapiti dalla figura posta di fronte a lei, attento a valutare il danno della sua auto e del tutto diverso da come lei lo ricordava. Era cambiato, nulla più richiamava ciò che era stato un tempo. Non c’era traccia di lui negli abiti che portava, fin troppo eleganti e forse costosi. Non c’era traccia di lui nel viso bruno, sottile, privo di rabbia, sereno e curato. Rosemary non aveva mai creduto nel destino, poco romantica per farlo; aveva sempre pensato che ogni cosa che accadeva intorno a loro fosse dovuto dalla loro volontà e non da una forza superiore che si divertiva a prenderli in giro, giostrandoli verso scelte sbagliate o incontri mai pensati. Eppure in quel momento qualcosa le comunicò che quell’incontro non era dato al caso, che la sua distrazione non era stata una semplice disattenzione. Rosemary guardava Blacke Banner e pensò che il destino avesse deciso di far scontrare le loro vite ancora, in quel modo bizzarro e pericoloso. Le loro vite si era nuovamente attorcigliate in un bivio, si erano unite in quella confusione; si erano rincontrati, scontrati violentemente e pericolosamente come per permettere ad entrambi di soffermarsi a pensare più a lungo e non lasciare che solo gli sguardi potessero parlare per loro. Blacke imprecò tra i denti e senza degnarla di un solo sguardo sfoderò dalla tasca dei calzoni il telefono, componendo un numero di tutta fretta.

“Mike è successo un casino, un idiota mi ha quasi distrutto l’auto! Ti richiamo dopo….NO, NON FARE NULLA SENZA DI ME….ciao” Rosemary sentì le viscere sobbalzare. I suoi modi, la sua voce, non era cambiati  di una sola virgola o di un  solo tono: rauchi, aggressivi, erano esattamente come lei li ricordava. Quella voce che aveva sentito tante volte, che aveva odiato e adorato, che le era mancata e che si era rivolta a lei - l’ultima volta - con la stessa rabbia con la quale si era rivolto al tale di nome Mike. Quei modi così rudi, così impulsivi, che avevano trovato tregua forse solo con lei. Rosemary restava in silenzio sotto la pioggia come una stupida, incapace di parlare, di pronunciare il suo nome; incapace di rivolgergli un semplice saluto. Avrebbe preferito sparire, mischiarsi alla pioggia e svanire semplicemente; ma lo sguardo limpido di lui la frenò. Blacke si era voltato finalmente verso di lei, sicuro di incontrare "L’IDIOTA" che aveva rovinato la bella carrozzeria della sua auto. Ma quando la vide, quando realizzò chi ci fosse sotto la pioggia a guardarlo, chi si fosse ri-presentata sulla sua strada, tutta la rabbia e la seccatura svanirono, scivolarono via e lasciarono spazio solo ad uno sguardo incredulo. Blacke socchiuse appena le labbra, incapace di produrre anche il più semplice suono gutturale. Aveva perso completamente le parole, sentendosi catapultare con forza in un passato che aveva sperato di aver dimenticato per sempre. Erano completamente isolati dall’intero mondo, ritrovando il loro. Erano persi nei loro sguardi, annegavano nei loro occhi e - se il silenzio fosse stato assoluto - il rumore dei loro cuori che in quel momento inconsapevoli battevano all’unisono - come se si fossero inviati un segnale, come se si fossero gettati in una affannosa ricerca e finalmente si erano ritrovati -  avrebbe donato suono ad ogni cosa. Ma quel silenzio ovattato, quell’atmosfera irreale fu spezzata dall’ennesimo clacson assordante che invase il loro spazio. 

“IDIOTI CHE DIAMINE FATE IMBAMBOLATI  PER LA STRADA! TOGLIETEVI DALLE PALLE!” Blacke si voltò di scatto verso l’uomo che - dall’auto - aveva interrotto quell’attimo di pura estasi per i suoi occhi e di strazio per il suo cuore. 

“Brutto stronzo va al diavolo” Blacke non si lasciò sfuggire quell’imprecazione che sollevò Rosemary; per un attimo aveva temuto di averlo perso completamente. Sotto agli abiti firmati e all’auto di lusso c’era ancora il vecchio Blacke, il diciassettenne ribelle che non avrebbe mai zittito la sua voce e che non avrebbe mai lasciato ad altri il piacere di spegnerlo ed istituzionalizzarlo. Si rivolse nuovamente verso di lei e ritornando vigile - scacciando via quell’incantesimo che lo aveva reso immobile e fermo - realizzò lo stato di Rosemary.

“Stupida come sempre…. eh Fisher…” Sul viso bruno di Blacke si incurvò un mezzo sorriso. La protezione dell’ombrello le fu porto con molta gentilezza e Rosemary non riuscì ad arrabbiarsi per quell’insulto che in quel momento suonò così dolce. 

“Sempre simpatico, Banner…” Rispose a tono lei, lasciando che la sua figura la sovrastasse. Quel semplice scambio di battute era colmo di significato. Quel semplice scambio di parole che si susseguì da copione la catapultò nel passato, facendole rivivere gli anni del liceo dove tutto era stato perfetto. Dove tutto sembrava eterno e indistruttibile e dove le speranze erano convinzioni ancora da tenere salde… 





Rosmary infilzò una carota, caricando su di essa tutta la rabbia e la frustrazione accumulata quella mattina e quest'ultima penzolò floscia prima di spezzarsi e ricadere nel piatto. L’appetito l’aveva abbandonata del tutto, lasciando solo un gran senso di nausea e stanchezza misto ad una rabbia che le rendeva lo sguardo torvo e corrugato. Intorno a lei c’era un gran vociferare; la mensa anche quel pomeriggio era stracolma di studenti. Il gelo invernale che irrompeva fuori aveva lasciato i giardinetti vuoti ed aveva impedito a lei e alle altre di recarsi nel bosco, il loro luogo sacro dove si riunivano per discutere di quelle ore trascorse separatamente. Giocherellò ancora con quel cibo che aveva perso ogni attrattiva, prima di essere raggiunta da Savannah che come al solito fece voltare metà del pubblico maschile presente in sala. I suoi lunghi e lucenti capelli ondeggiavano ad ogni passo ed il suo sorriso sembrava risplendere, nonostante fuori ci fosse un tumultuoso temporale. Faye la raggiunse poco dopo; si era trattenuta con il Club organizzativo per dar vita a qualche altro evento mondano che avrebbe donato alla scuola maggior notorietà. Isabel fu l’ultima a raggiungere il gruppo, essendo  stata fino ad allora impegnata ad organizzare gli schemi per la partita di pallavolo che si sarebbe tenuta la settimana prossima, con un liceo lontano da Dimwoods. Le tre ragazze si accomodarono al tavolo, non potendo evitare di notare lo sguardo furioso che oscurava completamente il viso di Rosemary, ancora immersa a contemplare l’insalata ed ignorando del tutto la loro presenza. Savannah si allungò verso di lei, puntando al naso - che venne pizzicato - e Rosemary alzò lo sguardo, scrutando le tre con lo stesso sguardo che non si accingeva a cancellarsi dal volto. 

“Che diamine hai?” Isabel addentò una mela, scrutando l’amica con sguardo contrariato. Rosemary alzò appena le spalle, restando muta e ritornando a fissare il suo povero pasto. 

“Hai intenzione di dirci cosa è successo o dobbiamo chiedere alla maga Sibilla?” Savannah le tirò una ciocca di capelli impiegando fin troppa forza.

“Ma sei idiota” Sbottò Rosemary massaggiandosi la nuca dolorante.

“Rose perché non parli con noi? Cosa è successo?” La voce dolce e morbida di Faye si unì a quelle richieste tutte simili tra loro. Sei occhi la fissavano con insistenza, continuando a chiedere quale fosse il motivo di quel silenzio glaciale. 

“Odio il progetto di Tutor che il professor Mcrayane mi ha assegnato! Soprattutto perché lo studente a cui devo fare da tutor è Blacke Banner….” Rosemary si vide con le spalle al muro e non potè sottrarsi nell’esporre il motivo del suo disagio; di sicuro le sue amiche non avrebbero rinunciato fino a quando spiegazioni soddisfacenti non fossero uscite dalla sua bocca. Rosemary chiarì così ciò che la rendeva adirata e silenziosa. Savannah scoppiò in una risata sonora, Faye cercò di apparire seria - anche se il suo risolino si mischiò a quello di Savannah - mentre Isabel rimase a contemplare la sua mela, ignorando del tutto il disagio dell’amica. 

“Quel Blacke? Ma non era in riformatorio?” Savannah si asciugò le piccole lacrime di ilarità che inumidirono i suoi occhi, gustandosi quella notizia e divertendosi nell’immaginare la perfettissima e ligissima Rosemary Fisher intenta ad insegnare nozioni di matematica al ribelle, scapezzato e pazzo Blacke Banner. La sua fama lo precedeva, la sua storia era da romanzo; incarnava perfettamente il prototipo di bello e dannato, di testa calda e sprecata. A Dimwoods la sua storia era sulla bocca di tutti e al suo passaggio un gran ronzio di voci si levava, pronte a raccontare ed informarsi sulla vita cupa e misteriosa di quel ragazzo. Cresciuto senza madre - suicidatasi quando era ancora un bambino - Blacke era cresciuto con il padre, noto a Dimwoods come il ladro e spacciatore peggiore della storia. Quest'ultimo fu rinchiuso poi in galera, seguito dopo un po’ dal primogenito Alec. Blacke era cresciuto da solo e aveva avuto una carriera simile a quella del padre. In riformatorio per fin troppe volte, il ragazzo aveva avuto ancora un’altra e forse ultima possibilità quell’anno e quella possibilità era stata poggiata nelle mani di Rosemary, evidentemente contrariata da tutto quel progetto creatosi senza che lei potesse replicare. 

“E' uscito la settimana scorsa e deve recuperare alcune materie. Hanno deciso di dargli la possibilità di diplomarsi….” Rosemary incrociò le braccia al petto incupendosi maggiormente e Faye rimproverò Savannah che non la smetteva di ridere, senza preoccuparsi del disagio di Rosemary, mentre Isabel sembrava del tutto disinteressata a quella notizia, forse considerandola poco rilevante. 

“E' giusto che gli venga data una seconda chance, tutti ne hanno bisogno….” Faye mostrò il suo animo tollerante, facendole notare che quel ragazzo non poteva essere lasciato a se stesso. Il destino con lui era stato già ingiusto donandogli una vita fatta di stenti, rinunce e mancanze e l’aggiunta della poca fiducia in lui lo avrebbe distrutto completamente, concludendo il lavoro di quel nefasto destino abbattutosi su di lui. Rosemary sembrò del tutto insensibile di fronte alla precisazione di Faye ed agitò con forza la testa.

“No! È insopportabile. Non ha fatto altro che fumare tutte le tre ore! E quando non fumava scarabocchiava su un blocchetto che inoltre non mi ha fatto nemmeno vedere! È odioso” Rosemary soffiò stancamente, aderendo con la schiena alla sedia e gettando lo sguardo oltre la mensa, dove suo malgrado lo intravide tra la folla. Era seduto in un angolo, solo, con lo sguardo rapito da quel blocchetto e con la sigaretta che gli pendeva dalle labbra, fregandosene del divieto che padroneggiava in ogni angolo della mensa. Il cappello da baseball gli ricadeva di sbieco sul capo rasato e sembrava completamente perso in un altro mondo. Sembrava vivere in una fantasia propria, estraniato dalla realtà che si prestava ai suoi occhi. 

“Secondo me ti piace.. Guardate come lo guarda! Scommetto che tra un mese quello ti sfilerà le tue candide mutandine…” Rosemary si voltò sconvolta verso Savannah che sorrideva sorniona.

“Tre settimane..” Isabel sfilò dalla tasca della tuta una banconota poggiandola sul tavolo ed aprendo quella bisca improvvisa. Faye non riuscì a trattenere un sorriso divertito e Rosemary guardò le due traditrici con sguardo incredulo.

“Siete delle vipere” Sussurrò tra i denti, irrigidendosi maggiormente sulla sedia ed ignorando del tutto le due amiche, che in quel momento avevano scommesso su un suo prossimo cedimento carnale. Rimase rigida e torva sulla sedia fredda della mensa, cercando di non gettare lo sguardo verso Blacke e non dare a Savannah altri motivi per credere che lei potesse essere affascinata da un tipo come lui. Blacke Banner era attraente, ciò non poteva negarlo; nessuno pareva volerlo negare. Ma tutta quel fascino dato dal suo stile innovativo, dai suoi occhi nocciola in netto contrasto con la pelle scura, dalla sua figura magra e slanciata, venivano oscurati da quei suoi modi poco raccomandabili. L’essere finito in riformatorio troppo spesso aveva giovato e non sulla sua carriera. Molti lo consideravano un mito, un ribelle interessante da apprezzare soprattutto per la sua voglia di non seguire le regole e di vivere in un mondo proprio; mentre altri - come Rosemary - preferivano stargli alla larga. I suoi occhi lo intercettarono più volte e solo quando lasciò la mensa Rosemary ritornò a fissare altrove. I soliti discorsi fecero dimenticare per il momento il disagio e la scommessa che aveva dato inizio a quel pomeriggio e le quattro ragazze spostarono la loro attenzione su altro; Faye informò le amiche che per il week end sarebbe stata assente e la solita cena - che le quattro amiche organizzavano alla solita tavola calda gestita da sua zia - sarebbe stata spostata.

“Darren ha detto che ha organizzato qualcosa di speciale” I bellissimi occhi di Faye assumevano una luce nuova ogni volta che il discorso - o semplicemente il suo pensiero - si rivolgevano al bel capitano della squadra di Football che ormai aveva rapito ogni frammento di lei. 

“Non mi ha detto dove ha intenzione di portarmi ma….” Il discorso si interruppe di colpo; all’unisono le quattro ragazze furono rapite da un particolare che non poteva essere ignorato. Le porte della mensa si erano spalancate e Marine Miller fece il suo ingresso, scuotendo maldestramente i lunghi capelli che quel pomeriggio erano di un volgare biondo che non le apparteneva realmente. Si incamminava per la mensa con passo deciso e convinto, imitando fastidiosamente gli atteggiamenti che appartenevano a Savannah, la quale si adirò più di tutte quando un particolare alquanto macabro le saltò allo sguardo. Indossava la sua medesima gonna a balze color miele e su una spalla la sua identica borsa dondolava ad ogni passo. Aveva addosso ciò che lei quella mattina aveva scelto con selettività e precisione; aveva copiato il suo stile con fedeltà, come se l’avesse controllata passo per passo. 

“Non sapevo che tu e Marine faceste compere insieme….” Isabel guardò Savannah che intanto - con viso paonazzo - seguiva il percorso di Marine, la quale sembrò essere del tutto a suo agio in quel tentativo di assomigliarle. Marine Miller quel pomeriggio era la copia maldestra di Savannah; quel pomeriggio aveva tentato con scarsi risultati di emularla.

“Infatti non mi azzarderei mai nel recarmi con lei in qualunque posto… nemmeno al bagno” Rispose a denti stretti, sentendo la rabbia salirle fino alla testa. Il sangue iniziò a pompare con forza e non riuscì a trattenere maggiormente la rabbia che con ardore chiedeva di uscire, soprattutto quando un particolare saliente le saltò allo sguardo. Istintivamente si toccò la sottile gola sentendo la sua pelle, non riuscendo a tastare la sottile catenina che solo una settimana prima lo aveva ornato e che in quel momento rivedeva al collo di Marine. L'elegante e costoso ciondolo di “TIFFANY” che suo padre le aveva regalato e che aveva perso misteriosamente, scintillava dispotico sul collo di quest’ultima. Savannah fu completamente oscurata dalla rabbia e non riuscì a controllarsi o a darsi un contegno. Sentì il bisogno di avventarsi su di lei e strapparle di dosso ogni cosa. Balzò dalla sedia e nonostante gli inutili tentativi di Faye di trattenerla al suo posto, si avventò verso Marine. 

“Brutta squilibrata schizofrenica ladra! Ridammi il mio ciondolo” Marine si voltò teatrando  uno sguardo confuso. Savannah era a pochi centimetri da lei, pronta a caricare quella rabbia che le causava fastidiosi pizzicori alle mani. 

“Cosa?” Quel tono sognante e distaccato fece smuovere in Savannah quel desiderio di volerla prendere e schiaffeggiarla violentemente. 

“Dammi il mio ciondolo LADRA” Scattò in avanti, ma l’intervento di Isabel - che riuscì ad afferrarla e a trattenerla per il maglioncino - la  sottraesse da una furiosa rissa che l’avrebbe gettata in guai seri. Marine curvò appena la testa di lato e sfoderando il suo solito sorriso sporco di rossetto, iniziò a giocherellare con il piccolo ciondolo, causa di rabbia e frastuono. 

“Oh questo? Papà me lo ha comprato la settimana scorsa! Ti piace?” Savannah scattò nuovamente in avanti, ma l’intervento di Rosemary e Faye la bloccarono completamente. Le parole però non trovarono ostacoli e iniziarono a fluire rabbiose.

“Brutta stronza! Tuo padre non può permettersi nemmeno una schifosa casa. Siete dei pezzenti e tu idiota sei pazza! Vorresti essere come me! Ma dovresti rinascere! Non sarai mai come me! Sei patetica, sei inutile!“ 

“Smettila Sav….”  Faye la tirò ancora, ma Savannah resisteva con tutte le sue forze e quegli insulti continuavano a volare verso Marine, che guardava Savannah con sguardo stralunato e sconvolto. Intanto in mensa tutti gli occhi erano puntati su di loro, ma Savannah sembrava non accorgersi di ciò e continuava a tirarle insulti, ad offenderla e schiacciarle in faccia la dura realtà; a ripeterle che la sua vita era inutile e che non valeva la pena di essere vissuta. Faye e Rosemary riuscirono a trascinare Savannah - dopo vari tentativi di divincolarsi dalla presa delle due amiche - fuori dalla mensa e a spegnere quegli insulti che non la smettevano di uscire. Isabel avanzò verso Marine.

“Ti consiglio di non fiatare….” Le strappò prepotentemente la collana dal collo e con sguardo tagliente la minacciò di non protestare. Marine rimase ferma in mezzo alla mensa, lasciando che risa di scherno si posassero su di lei e non potendo ribattere lasciò scorrere quegli insulti taglienti e melliflui.






Rosemary ritornò con i piedi sull’asfalto bagnato e la mente al presente quando la voce di Blacke - che questa volta apparteneva a quel momento - le giunse forte nonostante il tono usato fosse calmo e sottile.

“Mi sono sempre domandato cosa farneticasse la tua testa….” Rosemary mise a fuoco ciò che aveva davanti e sentì il cuore colpire violentemente la cassa toracica quando ritornò ai suoi occhi, questa volta però reali e non legati ad un ricordo. Blacke era pericolosamente vicino e la pioggia scrosciava ancora fastidiosamente, creando intorno a loro un atmosfera disagiante. 

“Nulla d’importante, stavo solo pensando a come ritornare in albergo…” Rosemary si schiarì frettolosamente la voce, fingendo un sorriso semplice e privo di imbarazzo. Ciò che la tradì però fu il lieve rossore che si dipinse sulle sua guance, nonostante intorno a loro ci fosse solo pioggia e freddo. Le morbide labbra di Blacke si incurvarono in un lieve sorriso notando quel piccolo particolare che l’aveva resa sempre dolce. Nonostante gli anni trascorsi non era mutata di una sola virgola; era bella come lui la ricordava ed era esattamente come lui aveva deciso di ricordarla. 

“Mentre aspettiamo che arrivino i rinforzi che ne dici di prenderci un caffè… se ricordi ancora, poco distante c’è il LIKE’S CAFFE'…” Blacke non mostrava insicurezza; era consapevole che quell’invito sarebbe stato accettato senza la ricerca di scusanti inutili. Il LIKE’S CAFFE'. Quanti ricordi aleggiavano intorno a quel luogo, quanti ricordi erano rimasti improntati in ogni angolo, su ogni parete e su ogni tavolo di quel piccolo Bistrot. Quanti caffè bevuti al solito posto, quanti sorrisi e lacrime avevano accompagnato le tazze fumanti di quell'aroma amaro e pungente. Ritornare lì sarebbe stato come tuffarsi a capofitto nel passato e riportare alla mente ancora ricordi di ciò che non c’era più. Ma gli occhi di Blacke furono un motivo ovvio per accettare e gettarsi in quella vasca di ricordi, in quel passato che forse sarebbe rimasto solo tale. 

“ V-va bene…” La voce le tremò ed ormai si era tradita. Aveva messo in chiaro che la sua presenza aveva colpito dritto, aveva puntato nella parte giusta del petto: al centro della cavità toracica. Blacke sfoderò nuovamente il telefono dalla tasca dei calzoni e ricompose un numero.

“Mike vieni all’incrocio di Doyle street, la macchina è ferma per strada. Io ti raggiungo dopo, adesso ho altro da fare….” Di nuovo quel Mike ebbe una strigliata di capo e Rosemary non riuscì a non ascoltare il tono servizievole con il quale assecondò la volontà di Blacke. Rosemary era stata catapultata in un altro mondo: non era la Dimwoods che ricordava, e i suoi abitanti avevano risentito degli effetti di quel capovolgimento. Blacke ripose il telefono e con ancora la protezione dell’ombrello entrambi si incamminarono verso il LIKE’S CAFFE' per concedersi il piacere di un buon caffè e di una vecchia compagnia giunta per caso. Giunta solo perché il destino in quel momento aveva deciso di mostrare la sua puntuale forza. 


Sedettero involontariamente a quel solito tavolo in cui anni prima avevano consumato miriadi di caffè e in cui le loro parole si erano mischiate alle risa e alla semplicità di stare insieme. Quel giorno, nonostante fuori piovesse, nel Bistrot sembrò giungere il sole, illuminando ogni centimetro di loro. Erano seduti uno di fronte all’altro, con i leggeri rivoli di fumo prodotti dal caldo caffe ordinato che li divideva. Rosemary stringeva la tazza tra le mani e nascondeva gli occhi puntandoli nel liquido scuro. Blacke non accennava a fare lo stesso, ma insisteva nel guardarla, nel sfiorarla con gli occhi e nell’attendere una qualsiasi parola che potesse spiegargli il motivo del suo ritorno. Il viso sottile era una maschera neutra che nascondeva con talento il disagio di ritrovarsi nuovamente con lei. Avrebbe potuto rinunciare a quel caffè - proposto da lui - avrebbe potuto girare le spalle e lasciarla sotto la pioggia, ma la tentazione di risentire nuovamente la sua voce, di guardare ancora i suoi occhi e sperare in un suo sorriso, erano stati più forte del dolore e della delusione che ormai non faceva altro che premere su di lui. Otto anni prima Rosemary era andata via per inseguire un sogno, un sogno che vedeva lui come ostacolo. Blacke poggiò le labbra sul bordo della tazza e sorseggiò appena l’aroma forte e pungente del caffè, che riscaldò il corpo intorpidito dal freddo. Lo stesso fece Rosemary, che aveva ancora i capelli umidi e gli abiti impregnati di pioggia. C’era silenzio tra loro, un silenzio che preannunciava una sfilza di parole lasciate in sospeso. Blacke fu il primo a spezzare il silenzio, lasciando che i ricordi dolorosi fossero sovrapposti a ciò che lei gli aveva lasciato di bello; quei ricordi che solo a riportarli alla mente gli provocarono una piacevole malinconia. 

“Cosa ti ha riportato a Dimwoods?” Rosemary alzò di scatto lo sguardo, impreparata a quella domanda. Aveva accettato quel caffè senza pensare alle conseguenze, senza pensare al disagio che la compagnia di Blacke le avrebbe recato. Quel disagio che le impediva di parlare e di dare una semplice risposta a quella domanda e che prevedeva un duplice riscontro. Era tornata per due motivi, uno dei quali era da tenere ben custodito. Sospirò e ritornando a fissare il caffè che fumava nella tazza riprese parola. 

“Ho terminato gli studi ed ho fatto domanda per la specializzazione in cardiochirurgia. A Dimwoods abbiamo uno dei miglior dipartimenti e mi hanno riportata qui…” Pronunciò quelle parole tutto d’un fiato, come se le avesse scritte con precisione nella sua mente. Lo aveva ripetuto anche quando - alla stazione - aveva rincontrato una vecchia amica di famiglia e anche con Aaron aveva pronunciato quelle parole che avevano destato nel fratello un pizzico di sospetto. Blacke alzò un sopracciglio scettico e sorrise di sbieco. 

“Credevo che fossi tornata per me…” Quella battuta fu fuori luogo e le guance di Rosemary si colorarono di un leggero rossore; portò la tazza alle labbra e sorseggiò tutto d’un fiato il caldo caffè. La lingua andò a fuoco facendole perdere la sensibilità e bruciando le papille gustative. Rosemary arricciò le labbra, trattenendo con difficoltà un mugolio di dolore. 

“Scusa non volevo…” Blacke si rese conto del danno appena prodotto e  del disagio gettato tra loro. Scusarsi fu un altro elemento che fece comprendere a Rosemary quanto fosse cambiato Blacke; otto anni erano bastati per mutare non solo la forma ma anche l’essenza di quell’individuo che non riusciva a riconoscere? Nonostante tracce del vecchio Blacke fossero però visibili; tracce impercettibili che Rosemary riusciva a scorgere soprattutto quando trovava il coraggio di guardarlo negli occhi. Quell’abito scuro di ottima fattura gli donava, lo rendeva elegante, slanciava la sua figura ed arricchiva il suo fascino. Ma nei modi aggressivi e burberi, divertenti, dimostrati lì fuori e dagli occhi nocciola - che risaltavano sulla pelle scura - Rosemary poteva vedere il vecchio Blacke Banner. Il ragazzo che aveva conosciuto al liceo, quel ragazzo capitato sulla sua strada una semplice mattina. 

“Oh, non preoccuparti…. “ Rosemary si schiarì la voce e riuscì a produrre quelle inutili parole che furono seguite da altro silenzio, rotto solo dal vociferare di sottofondo e dalla musica sottile proveniente dalle casse che occupavano gli angoli del Bistrot. Blacke guardò la strada che poteva essere scorta dall’enorme vetrata che circondava il luogo; puntò gli occhi verso le due auto parcheggiate non molto lontano e che erano divenute due puntini incerti nella pioggia. Anche quella sottigliezza sembrò essere capitata perfettamente; il luogo dell’incidente era stato un elemento importante per catapultarli in un luogo appartenuto al LORO passato.

“Tra poco arriverà il mio assistente e si occuperà lui di tutto, anche della tua auto…” Si voltò nuovamente verso di lei e finalmente incrociò più di cinque minuti il suo sguardo. Finalmente si rincontrarono e lui sentì il cuore riprendere a pompare vita. Otto anni, otto anni non erano bastati per cancellare le sue tracce dalla mente, dal suo cuore. Otto anni lontano da lei lo aveva solo aiutato ad accantonare il suo ricordo, ma non a cancellarlo definitivamente. In quegli otto anni il suo cuore si era fermato completamente ed era divenuto gelido, di pietra, immobile nel suo petto. In otto anni Blacke aveva cercato di scaricare quel dolore su altro e farlo lo aveva condotto lontano. Nonostante avesse ottenuto ciò che aveva sempre sognato, non averla accanto aveva reso quel TUTTO un NULLA incolmabile. Ma adesso che era lì di fronte a lui, adesso che il suo sguardo si era piantonato nel suo, il cuore era ritornato a battere, era ritornato a vivere. Rosemary scosse il capo e involontariamente allungò una mano verso la sua stringendola, mimando a gesti di lasciar perdere con quell’atto caritatevole e caricandosi della colpa dell’incidente. Ma quell’unione e le parole che avrebbero spiegato quel gesto le si fermarono in gola e Blacke sentì che quel tocco - dopo otto anni - bruciava ancora sulla pelle. Lei si ritrasse portando le mani al grembo, toccandosi incredula il palmo della mano che era ancora caldo; sentiva la sua pelle e nonostante non fosse più poggiata su di essa era rimasta l’impronta di lui, non solo sulla mano ma ovunque. 

“Q-quindi hai un assistente…” Cercò di rompere quell’imbarazzo riportando l’attenzione sulla nuova vita di Blacke, visibile nei mille cambiamenti avvenuti in superfice. 

“Si, Mike. Si è trasferito da Londra… “ Quelle povere informazioni furono pronunciate con tono atono e piatto. Era Poco rilevante ciò che aveva da dire sul ragazzo che lo seguiva ovunque, che adorava il suo stile, la sua arte e  lo portava a fare qualunque cosa Blacke gli proponesse. 

“Di cosa ti occupi adesso?” Il caffè rimase a raffreddarsi sul fondo della tazza e Rosemary decise di rompere quella lastra di ghiaccio che li divideva. Non avrebbero riacquistato più ciò che avevano avuto, ma era giusto ricreare anche in piccola parte un qualcosa. Blacke sorseggiò ancora il suo caffè aumentando l’attesa; lo finì tutto schioccando le labbra e lasciando che l’aroma forte si sentisse sul palato e sulla lingua. Degustò quell’amaro sapore, non paragonabile all’amaro che sentiva in lui a causa di quella formalità che li rendeva distanti e li rendeva due perfetti sconosciuti. 

“Mi occupo di tutto ciò che ha a che fare con l’arte: dipingo, disegno, mi occupo di fotografia. Ho seguito il tuo consiglio….” Blacke non riusciva a trattenere le parole; pronto sempre a riportare in scena il passato, ricordandole ciò che li aveva legati un tempo. Rosemary annuì, lasciando che un debole sorriso le si creasse sul volto; sentiva una fierezza in lei. Blacke Banner aveva dato adito alla sua passione ed aveva lasciato andare il suo istinto violento e irascibile; era riuscito ad uscire da quel tunnel buio che sembrava privo di luce e di uscita. Blacke aveva deciso di VIVERE  e non SOPRAVVIVERE e sprecare ogni attimo della sua vita; era riuscito a dar prova di sè e quella prova era stata superata con successo. 

“Ho comprato il vecchio edificio accanto al liceo. Ho parlato con il sindaco Hill e mi ha dato il consenso per costruire un istituto d’arte per i giovani di Dimwoods…” Rosemary ricordava quel vecchio edificio lasciato morente nella sua stessa calce, lasciando che gli anni e le intemperie eliminassero ogni sua traccia. Era sempre stato un edificio affascinante e la sua storia era legata alla creazione di quella cittadina. Un tempo era stato un rifugio, era stata la salvezza di molti e dopo anni - in cui era stato lasciato inconsiderato - Blacke aveva deciso di dargli voce e ridargli lo splendore di un tempo. Mentre parlava Blacke abbassò lo sguardo sul tavolo, tracciando timidamente le venature del legno incise su di esso e non notando come il volto di Rosemary - rimasto fino ad allora imbarazzato e distante - si fosse addolcito. Blacke era sempre stato così: dimostrava la parte peggiore di sè, metteva in risalto ciò che avrebbe potuto tenere più persone possibili lontane da lui, ma concludeva con finali che avrebbero fatto zittire chiunque avesse osato parlare. Rosemary confutò i pensieri di poco prima: quel mutamento era avvenuto solo in superfice, ma sotto di essa si racchiudeva ancora il vecchio Blacke, che nascondeva ancora la sua parte migliore, che saltava fuori in momenti come quelli ed in gesti tanto importanti. La fortuna che aveva ottenuto - grazie solo a se stesso - non era sprecata nelle sue mani.  

“E' un gesto molto bello” Blacke alzò gli occhi ed il sorriso di Rosemary fu contagioso; coinvolse anche il suo volto e si ritrovarono a sorridere - anche se poco - di fronte ad un caffè come una volta. Blacke vide in quell’evento un segnale, lesse in quel gesto - che aveva coinvolto entrambi - un messaggio che lo incitava a non perdere altro tempo. C’era ancora qualcosa tra di loro; c’era ancora quel legame ed era visibile dal semplice fatto che il tempo non aveva scalfito i loro ricordi, non aveva minimamente cambiato ciò che entrambi provavano l’uno per l’altro. Blacke sapeva che i brividi al cuore non coinvolgevano solo lui; sapeva che la presenza di Rosemary lì non era data solo al caso, ma che il suo accettare quel semplice invito era un chiaro segno che una seconda possibilità era stata data ad entrambi. Blacke - incurante delle conseguenze - si allungò verso di lei, pronto a pronunciare sentenza, a pronunciare ciò che sentiva fremere in lui; socchiuse le labbra, pronto a proferire parola. Rosemary non si fece sfuggire quel susseguirsi di azioni che avrebbero condotto ad un’unica azione concreta, che l’avrebbe spiazzata e che l’avrebbe colta impreparata. 

“Rose…” Pronunciò il suo nome masticando ogni lettera con dolcezza, assaporando quella parola e gustandosene ogni suono. Rosemary era in attesa, sperando in un finale che avrebbe migliorato quel pomeriggio che ormai si accingeva a terminare. Sperò di sentire quelle parole sognate per troppe volte; sperò di sentire la sua voce chiederle di ricominciare, di lasciarsi tutto il passato, gli sbagli, le occasioni non colte e le parole non dette. Blacke era rimasto in lei per tutti quegli anni, aveva lasciato la sua impronta, marchiandola con prepotenza e dolore e non permettendo ad altri di prendere il suo posto. Ma ci fu una variabile che cambiò ogni cosa: la porta del Bistrot si spalancò, producendo il tipico tintinnìo del campanello e dando adito al freddo di entrare e rompere il calore della sala. Blacke dovette distogliere lo sguardo da lei ed il suo cambio di espressione fece comprendere a Rosemary che quella variabile entrata in gioco avrebbe messo fine al loro breve ed intenso incontro. 

“Mike tempismo perfetto” Il tono sarcastico non sfuggì nè a Rosemary - che sorrise divertita nel vedere il volto di Blacke irrigidirsi e le labbra assottigliarsi infastidite - né allo stesso Mike, che si paralizzò a pochi passi dal tavolino in legno. Rosemary si voltò verso il ragazzo poco più giovane di loro; il tranch nero era zuppo ed i capelli biondo cenere gli si appiccicavano sul viso. Aveva corso e ciò lo si poteva scorgere dal petto che ad intermittenza andava su e giù. 

“Blacke scusami, ma il carroattrezzi è giunto in questo momento e credevo che volessi un passaggio. Ho l’auto qui fuori….” Mike sembrò non notare Rosemary e in parte fu un bene: non aveva voglia di aprirsi in presentazioni inutili che sarebbero state dimenticate, ma voleva raggiungere al più presto l’albergo e sprofondare completamente nelle calde coperte che l’attendevano. 

“Bene…. Di al carroattrezzi che si preoccupasse anche dell’altra auto; Rosemary dove devo accompagnarti?” Mike si voltò verso la ragazza, accorgendosi di lei solo in quel momento. Rosemary sobbalzò sentendosi chiamare in causa; Blacke la guardava con aria seria, mutata rapidamente e con troppa fretta. 

“Oh, non c’è bisogno; posso anche proseguire a piedi. Hai già fatto abbastanza con l’auto….” Rosemary si alzò goffamente dal tavolo scontrandosi involontariamente con Mike, che con eleganza le chiese scusa. Blacke fece lo stesso e lasciando una banconota sul tavolo - che avrebbe dato alla Cameriera di Turno una succulenta mancia - prese il soprabito di Rosemary, aiutandola ad indossarlo e riducendo nuovamente la distanza tra loro. 

“Non è mai abbastanza, soprattutto se si tratta di te… “ Rosemary sentì il soffio caldo sul suo collo e trasalì appena a quella confessione così esplicita. Si schiarì la gola e indossando il soprabito smeraldino spiegò la sua destinazione. 

Un attimo dopo Rosemary si ritrovò in macchina a pochi centimetri da lui, tenendo le gambe unite e cercando di non toccare le sue; Blacke guardava fuori il finestrino, ammirando la pioggia che si scontrava con il vetro scuro dell’auto, mentre lei cercava distrazione altrove, non trovandola e sentendosi solo a disagio. Il viaggio sembrò interminabile e il silenzio era caduto intorno a loro; Blacke aveva dimostrato in modo molto esplicito che quell’incontro era stato per lui una fortuna, a differenza di Rosemary, che sembrò considerarlo solo una catastrofe. Non riusciva a reagire nel giusto modo di fronte a ciò che si presentava chiaramente ai suoi occhi: Blacke era ancora legato a lei e sentiva uno strano disagio per quella consapevolezza; disagio che pian piano si trasformò in paura. Paura di soffrire ancora, paura di vedersi costretta a lasciarlo ancora a causa di quella verità che si stava nuovamente impadronendo della sua vita. Come avrebbe reagito alla notizia che Rosemary Fisher - ragazza apparentemente onesta - in realtà non era altro che una bugiarda che aveva avuto il coraggio non solo di occultare il corpo di una giovane ragazza e non darle giustizia, ma che aveva fatto accusare anche un uomo innocente? L’idealizzazione che aveva di lei sarebbe crollata a quelle confessioni e perderlo definitivamente le avrebbe causato solo altro dolore. Avrebbe preferito restare così, in quello stato di consapevolezza non concreta. Sentì l’auto frenare e seppe che la loro corsa era finita; si strinse nel soprabito ed attese che Blacke la congedasse. 

“Avrai al più presto la tua auto…” La sua attenzione ritornò a lei; la guardava dal fondo dell’auto con il capo appoggiato al freddo finestrino, con uno sguardo strano, intenso e spiazzante. Rosemary annuì appena, rimanendo a fissarlo e non riuscendo a comunicare al suo corpo di abbandonare l’auto e lasciarselo andare alle spalle; lasciarlo nel passato e non riportare a galla ciò che aveva provato unicamente per lui. Ma quando il suo cervello - che in quell’attimo sembrava atrofizzato - le comunicò di uscire dal calore della macchina e quindi uscire via ancora dalla sua vita, fu tardi. Blacke le si avvicinò e senza violare la sua volontà le sfiorò una guancia con le labbra, toccando appena l’angolo delle labbra. 

“E' stato bello rivederti….” Le sussurrò prima di lasciarla andare ancora. Rosemary non ebbe il tempo di dire la stessa cosa che già era scivolata fuori dall’auto. Pioveva ancora, ma lei restò a fissare la macchina scivolare sull’asfalto bagnato e abbandonare la sua traiettoria. Rimase immobile sotto la pioggia sentendo ancora il suo profumo su di lei; sentiva il cuore che accellerava piano sempre più fino a battere violentemente, a colpire la cassa toracica in un piacevole dolore. Rosemary chiuse gli occhi, sentendo ancora il tocco della sua pelle, il suo profumo e la sua voce roca e calda, ammaliante. Sentiva ancora la sua presenza accanto a lei ed ancora la mente la catapultò in un tempo passato, dove quel bacio non si era fermato all' angolo delle labbra…



 

Rosemary camminava a passo spedito per i corridoi della scuola rimasti quasi vuoti quel pomeriggio. Fuori pioveva a dirotto e molti studenti avevano deciso di rientrare a casa, prima che il tempo peggiorasse e mettesse a rischio il loro rientro nelle proprie dimore. Solo Rosemary e altre poche persone erano rimaste lì, chi per obbligo, chi - come lei - per pura dedizione allo studio. Savannah, Faye ed Isabel avevano deciso di aspettarla a casa di quest’ultima e lei avrebbe raggiunto le amiche dopo aver compiuto il suo dovere al liceo. Le mani stringevano un leggero foglio di carta; lo stringevano con forza, tanto da stropicciarne i bordi e Rosemary sentiva una rabbia fremere in lei tanto da farle attorcigliare le budella e rendere il suo volto rigido e corrugato. Le labbra erano una linea sottile di nervi e imprecazioni che riusciva a trattenere a stento; i suoi passi riecheggiavano rumorosi per gli angoli della scuola, la sua direzione era unica e l’avrebbe raggiunta una volta svoltato l’angolo. Spintonò la porta con carica e si ritrovò a fissare quattro ragazzi intenti a svuotare la propria vescica e che guardarono Rosemary increduli; non capendo cosa potesse volere nel bagno dei maschi quella ragazza che ignorandoli, scrutava quel luogo in cerca di una persona in particolare.Quando la trovò non riuscì a trattenersi.

“USCITE IMMEDIATAMENTE FUORI DI QUI” Tuonò contro il povero gruppo che non si mosse minimamente a quelle accuse; i quattro ragazzi si guardarono sorridendo a quel suo tentativo di incutere terrore. Nonostante il tono di voce austero e alterato, il viso paonazzo e gli occhi fiammeggianti di rabbia, Rosemary Fisher non avrebbe mai trasmesso timore ad alcuno. Quel compito era dato ad Isabel o a Savannah, ma lei non era adatta per quel ruolo. 

“Ragazzi uscite…..” Una voce roca e stanca si unì alla sua. Il gruppetto, con calma e senza accennare la minima fretta, si alzò all’unisono le zip dei calzoni, seguendo un movimento comune e diregendosi fuori dal bagno. Rosemary restò sola con Blacke che - seduto sul boro del lavabo - era intento a rollare uno spinello. Aveva il solito cappello che copriva solo una parte del capo rasato e la felpa gli andava più larga del solito, nascondendo il fisico asciutto.

“Blacke Banner….” Rosemary tuonò di nuovo, avvicinandosi ancora di più a lui. 

“Si, è cosi che mi chiamo” Disse leccando la cartina per chiudere quel lavoro sporco ed illegale. Si portò lo spinello alle labbra e puntò il suo sguardo su Rosemary; era sfidante, mentre tentava di accendere quel malvagio piacere rinchiuso per bene nella sottile cartina quasi trasparente. Rosemary non si lasciò intimorire da quella sfacciataggine e non preoccupandosi della reazione di Blacke gli strappò da bocca quella schifezza, schiacciandogli contro il naso il foglio che aveva trascinato con sè per metà Liceo.

“ORA SPIEGAMI COS’E'” Rosemary non la smetteva di urlare; la rabbia la gestiva come una marionetta e lei la lasciava fare. Blacke scostò con forza la prova intangibile del suo fallimento e superandola raccolse il suo spinello. 

“E' una F….di Fallito” Rispose, tentando ancora di dar vita a quella sigaretta, che sigaretta non era. Rosemary gliela strappò nuovamente da bocca, aprendo una piccola battaglia che non avrebbe avuto fine. 

“Si, è una F! Dopo che ho perso tempo con te a spiegarti ogni singola regola! Abbiamo fatto innumerevoli esercizi su questo argomento e tu cosa fai? Ti addormenti in classe, ti rifiuti di fare il compito e quando pensi che la lezione sia finita scarabocchi qualcosa di insensato e vai via, gettando il NOSTRO lavoro nel gabinetto! E butta questa schifezza” Le parole di Rosemary non furono ascoltate minimante e Blacke era ritornato a raccogliere lo spinello mischiatosi con l’acqua che imbrattava il pavimento. Incurante di tutto riprese posto sul lavabo e ritentò ancora di accendersi lo spinello ormai del tutto zuppo. 

“Nessuno ti ha chiesto di farlo Fisher. “ Rispose quando finalmente l’estremità prese vita, inondando il bagno di un odore vomitevole che fece tossicchiare Rosemary.

“Che schifo” Boccheggiò lei, cercando di allontanare da sè quel fumo intenso che iniziò a invadere ogni centimetro del bagno.

“Se lo provassi non diresti così” Blakce diede una boccata lunga e intensa per poi poggiarsi al muro e lasciare che l’effetto prendesse avvio nel suo corpo. Rosemary lo guardò disgustata, ma non era intenzionata a lasciar perdere. 

“Ascoltami! Non ho intenzione di perdere altre ore con te e non credo che anche tu lo voglia. Quindi che ne dici se tu iniziassi a studiare e riuscissi a prendere un bel voto così da svincolare entrambi da questa seccatura?” Rosemary cercò di trattare con lui, provando un approccio meno invasivo e meno violento. Si avvicinò di poco, cercando di trattenere tutta la rabbia di quel fallimento che Rosemery tradusse come un dispetto fatto a lei, un modo per farle credere che il suo tentativo di buona samaritana non avevesse funzionato a dovere. Quel fallimento che Blacke era riuscito a farlo sentire anche suo. 

“Farò richiesta di un altro tutor in modo da lasciarti andare. E poi a fine anno ritornerò qui per essere bocciato ancora... Non ho intenzione di studiare, non l’ho mai fatto e non credo che mettermi appiccicata un’imbranata come te - che crede di essere migliore, che crede di poter giudicare e imporre - potrebbe costringermi a farlo. Voglio restare nella mia ignoranza, la consapevolezza delle cose ti porta solo alla pazzia. Io non so nulla e vivo tranquillamente giorno per giorno, a differenza tua… che non fai altro che tormentarti l’anima..” Blacke aspirò ancora una buona manciata di fumo e poggiò nuovamente la testa alle piastrelle sporche, lasciando che la marijuana facesse l’effetto ricercato; aveva pronunciato quelle offese consapevole degli effetti che avrebbe prodotto. Rosemary non aveva mai avuto vergogna della sua intelligenza, della sua passione per lo studio, anche se molte volte le sue amiche - forse le uniche a cui avrebbe dato realmente retta - le avevano ripetuto di assaporare la vita nel giusto modo, non lasciando che quella sua passione le potesse rovinare la degustazione; lei aveva sempre lasciato scorrere le parole, tenendo salde le sue convinzioni. Eppure adesso sentì quelle parole trafiggerla violentemente, sentì un offesa trucidarla e farle male. 

“Non voglio arrendermi solo perché hai deciso di farmi un dispetto, anche stupido a dirla tutta. Ti costringerò a studiare….“ Rosemary era decisa a non dare soddisfazione a quel druido che preferiva sballarsi piuttosto che dare a sè stesso una ragione per ricominciare, una ragione per riavvolgere la sua vita e provare a migliorarla. Blacke scrollò le spalle non ribattendo e facendole capire che per lui il discorso poteva concludersi lì. Avvicinò ancora lo spinello alle labbra, ma questa volta fu interrotto; Rosemary lo prese con riluttanza tra le mani e lo gettò ai sui piedi calpestandolo con vivacità.

“Inizieremo la prima lezione adesso e la prima nozione sarà: Non fare uso di droghe…fondono il cervello” Si portò le mani ai fianchi e sentì un piccolo trionfo nello scorgere negli occhi nocciola di Blacke panico e rabbia. La guardava con ancora le labbra socchiuse e con i polmoni e il cervello in attesa di altro fumo, di altro sballo. 

“BRUTTA STRONZA QUELLA ROBA MI E' COSTATA UN OCCHIO DELLA TESTA” Blacke saltò giu dal lavabo, avvicinandosi a lei minacciosamente.  Rosemary sentiva le gambe tremare per il terrore e la paura di rimanere in quel bagno, morta magari ai piedi dei lavandini, immersa nella pozza del suo stesso sangue. Blacke era irascibile e nessuno gli avrebbe impedito di gettarsi su di lei e ammazzarla; il coraggio di farlo non gli mancava e ad aumentare quel coraggio c’era quella schifezza appena spiaccicata alla suola delle sue scarpe. 

“Smettila di fumare e cerca di migliorare questa tua vita! Vuoi distruggerti esattamente come hanno fatto tuo padre e tuo fratello?” Chi la induceva a parlare in quel modo? Cosa le poteva importare di come Blakce avesse deciso di proseguire la sua vita. Lei non aveva alcuna voce in capitolo, eppure stava parlando fin troppo, con la voce fin troppo prepotente e con lo sguardo fin troppo serio e aggressivo. 

“COSA CAZZO TE NE FREGA EH? IO FACCIO CIO' CHE MI PARE…. E TU DEVI STARNE FUORI…” Si fronteggiavano con aggressività e odio. Per due mesi interi erano stati dei perfetti sconosciuti, uniti solo da un obiettivo comune: quello di Blacke era di scrollarsi di dosso le pressione dei professori e dell’assistenza sociale, fingendo di proseguire gli studi impegnandosi a pieno e non dedicarsi più alla malavita adolescenziale. Quello di Rosemary era semplicemente un obiettivo morale e in parte egoistico: voleva mostrare ad altri la sua bontà e la sua intelligenza. Per due mesi avevano studiato nel silenzio delle aule, nei silenzi delle biblioteca e nei silenzi dei loro sospiri accennati. Blacke aveva dato a Rosemary il permesso di rivolgergli la parola solo ed esclusivamente per dargli le giuste nozioni e lei aveva accettato senza chiedere altro; ma involontariamente i due si erano ritrovati a condividere un obiettivo: quello di acquistare un buon voto e vincere una piccola sfida personale. Tra i due non era nata un’amicizia ma una piccola alleanza, fatta di parole complicate e nozioni teoriche. Ma adesso Rosemary era lì per impartire un ordine che Blacke non avrebbe mai eseguito. 

“Non ne sto fuori! Sono il tuo tutor, sono responsabile di te e del tuo rendimento scolastico! Quindi da adesso in poi ascolterai me….” La voce si affievolì quando lo sguardo di Blacke si assottigliò. I suoi occhi divennero lame taglienti e affilate, minacciose, che le trasmisero terrore, un terrore che sembrò paralizzarle ogni cosa e comprese le parole che desideravano uscire.

“Non ascolterò te idiota! Io faccio ciò che mi pare e non mi va di studiare. Trovati un'altra pecorella smarrita per mostrare quanta bontà c’è in te. Schifosa e teatrale bontà che ti serve solo per leccare il culo ai professori... Sei patetica” Rosemary deglutì, trattenendo le lacrime di rabbia, trattenendo la voglia di abbandonare il campo e scappare via, donando la vittoria a quello sbruffone che le stava solo facendo del male. 

“Ascolterai me.. e non sono una lecca culo….” Rosemary pronunciò quelle parole con tono impaurito, sottile, simile ad un mugolio di una bambina alle prese con i piagnistei infantili. Aveva gli occhi curvi in un espressione triste e impaurita e sotto al suo sguardo sembrò ancora più piccola e indifesa. Questi particolari non sfuggirono a Blacke che scoppiò in una risata fragorosa. 

“Cazzo….” Pronunciò quell’imprecazione tra le risa e prima che Rosemary potesse comprendere ciò che stava accadendo sentì le sue labbra poggiarsi con prepotenza sulle sue; sentì le mani cingerle la vita e il muro freddo premere sulla schiena. La baciava con fin troppa forza, come se stesse combattendo con sè stesso, come se fosse diviso tra due forze: una che gli diceva di non farlo e l’altra - quella che sembrò prevalere - di farlo. Quel bacio al sapore di erba sembrò stordire Rosemary, che rimase ad assaporare le sue labbra che non furono spiacevoli, nonostante il mancato romanticismo del luogo e del gesto. Poi sentì quel contatto venire meno e guardò un Blacke del tutto confuso grattarsi il capo rasato, come se non capisse ciò che aveva appena fatto. 

“CAZZO…. CAZZO…. MALEDIZIONE” Imprecò ancora e senza spiegare nulla, senza che lei potesse ribattere, esporgli le sue sensazioni, la lasciò lì, sola, ad assaporare ancora quel bacio e ad ascoltare ancora il suo cuore tremare violentemente…






Rosemary si destò da quel ricordo quando una strana sensazione la fece ritornare al presente. Sentì un gelo su di lei dovuto non solo alla pioggia, che continuava a scendere ininterrotta; un brivido inquietante le passò per la schiena e un leggero formicolìo la colpì la nuca. Sentiva degli occhi scrutarla con insistenza, sentiva la presenza di qualcuno invadere il suo spazio. Si voltò in più punti, in cerca di chi fosse quello sguardo non accertato, che insisteva su di lei. La strada era vuota, ad eccezione di qualche auto che rientrava nella propria abitazione, essendo scesa la sera. Rosemary si guardò ancora intorno rabbrividendo e sentendo la paura invadere ogni fibra del suo corpo; si strinse nel soprabito e decise di rifugiarsi nella stanza d’albergo affittata per tutto il periodo della sua permanenza. Fu accolta dal Concierge, che con eleganza e ospitalità le diede il benvenuto e la condusse verso la reception, che le avrebbe dato la chiave della sua stanza. Rosemary era entrata ed era al sicuro e, nonostante avesse guardato attentamente ogni angolo della strada, la figura incappucciata poggiata ad un muro - completamente oscurata - era sfuggita alla sua attenzione. Quella figura che anonimamente si mischiò ai pochi passanti di quella sera, diretta altrove ma con l’intenzione di ritornare.


Hooola..! Eccovi il terzo capitolo che è ancora una volta incentrato su una delle quattro protagoniste, con qualche flashback per farci capire meglio quello che succede nel presente. Man mano che andremo avanti conosceremo altri particolari sia sul passato che sul presente. Che dire, ringraziamo coloro che hanno continuato a seguirci. Un ringraziamento particolare va anche a coloro che ci hanno onorate con una piccola ma significativa recensione. 
Al prossimo capitolo, un bacio Whitesnow&Medy
  
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