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Autore: Raven85    27/01/2014    1 recensioni
Ti vogliamo bene, Susie.
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era il 1973 quando mia figlia venne uccisa.
Quella data, 6 dicembre 1973, rimarrà sempre impressa a fuoco nella mia mente. È il giorno in cui è morta una parte di me.
Avevamo tre figli allora, mio marito Jack e io. I Salmon. Una bella famiglia, unita, apparentemente perfetta. Papà Jack, mamma Abigail e tre figli. Susie, quattordici anni. Lindsey, tredici. Buckley, quattro.
Vivevamo in un quartiere tranquillo, tra brava gente, in una tranquilla cittadina di provincia. A volte capitava che qualche ragazzina scomparisse, ma mai là, e comunque sembrava impossibile che potesse succedere proprio a noi.
Un maniaco? Nel nostro paese? Impossibile! È sempre quello che si pensa, no?
Ci sbagliavamo.
Quel giorno nevicava. Lindsey e Susie frequentavano la stessa scuola media, e tornavano sempre a casa da sole, ma ognuna per conto suo. A volte una delle due tardava, perché Lindsey poteva fermarsi per gli allenamenti o Susie a chiacchierare con un’amica. Ma non era mai nulla di allarmante. E anche quel giorno, quando non la vidi tornare non mi allarmai subito.
Mio marito lavorava per le assicurazioni, e quando rientrò notò che nostra figlia maggiore non c’era. Ma non era ancora così tardi.
L’aspettavamo per cena, come al solito, o comunque prima che facesse buio. Ma lei non tornò. Così Jack chiamò la Polizia, trovandosi a dover descrivere agli agenti i lineamenti di nostra figlia, come era vestita e cosa aveva con sé. Ma nonostante l’angoscia continuasse a crescere, speravamo sempre di vederla rientrare da un momento all’altro, magari con il fiatone per aver corso, ovviamente con una scusa convincente.
L’agente Len Fenerman si prese carico del caso, e venne subito a casa nostra. In seguito mi servii di lui per allontanare da me l’orrore, il devastante senso di colpa, ma non posso non dire quanto ci fu vicino anche dal punto di vista umano, e non solo come poliziotto. Teneva nel suo portafoglio tutte le foto delle vittime di casi che non aveva ancora risolto, compresa quella di sua moglie, che a quanto mi disse morì poco dopo il loro matrimonio. Si impegnò davvero a dare un nome all’assassino di mia figlia, ed era anche ottimista di natura. Certo, con i suoi limiti.
Per tre giorni io e mio marito ci trascinammo da un’ora all’altra, con l’unico conforto di doverci occupare insieme dei nostri figli. Lindsey in verità aveva già tredici anni e credo avesse capito qualcosa, anche se noi non ce l’eravamo sentita di dirle nulla. Buckley invece aveva solo quattro anni, e aveva bisogno di tutta l’attenzione possibile da mamma e papà.
Devo dire però che non fummo lasciati soli. Len ci faceva visita spesso, e la mamma di Nate, l’amico di Buckley si offriva sempre di occuparsi di lui. Nessuno di noi osava ancora dare voce al terrore comune: Susie era scomparsa. Forse morta. Forse non sarebbe tornata mai più. Forse, forse.
Fu il 9 novembre che cominciammo a intuire il peggio, anche se nessuno voleva ammetterlo. Len telefonò a Jack, e gli disse che qualcosa avevano trovato. Un gomito. Di Susie.
Solo il giorno dopo so che parlò finalmente a Lindsey. A quel punto era logico supporre che nostra figlia fosse morta, magari uccisa, ma per me non significava nulla. Non volevo crederci.
Le indagini si restrinsero al campo di granturco. Trovarono un libro di Susie, e poi ci portarono un compito fatto da lei. Lasciai che lo prendesse Lindsey, e per quanto ne so lo conserva ancora.
Nei due giorni seguenti furono trovate altre cose, appunti e un bigliettino in uno dei suoi libri scritto da un ragazzo che le piaceva, Ray Singh. La sua famiglia era indiana e lui viveva praticamente solo con sua madre, dato che il padre era sempre fuori per lavoro. Fu il primo sospettato, ma noi non credemmo mai che potesse essere stato lui a fare del male a nostra figlia.
Fu il 15 dicembre che fui costretta ad accettare la realtà. Len venne a casa nostra e disse che nel campo di granturco era stato trovato molto sangue, ma non fu questo a convincermi.
Fu la vista del cappello con i campanellini che avevo fatto a mia figlia per Natale. C’era sopra la saliva di Susie, così disse: l’assassino doveva essersene servito per farla tacere.
In quel momento una parte del mio cuore morì. Non so spiegarlo. Ma la vista di quell’oggetto inanimato, di quell’indumento che mia figlia indossava sempre, fatto da me… lei non se ne sarebbe mai separata. Così fui certa che fosse morta.
Jack telefonò a mia madre per informarla, e io dissi a Lindsey che per quanto mi riguardava poteva anche non tornare a scuola, per il momento: dopo una settimana sarebbero iniziate le vacanze di Natale. Ma lei decise di andare.
Non le chiesi mai come andasse nei corridoi, ma in un certo senso ero certa che se la cavasse meglio di quanto stavamo facendo suo padre e io. Aveva sempre avuto un carattere più forte di quello di Susie, e in quel frangente ne fui felice, perché corazzò il suo cuore contro le chiacchiere della gente.
Buckley chiedeva sempre dov’era sua sorella. Era ancora così piccolo e fragile, e forse non capiva ancora del tutto cosa fosse la morte. In certi momenti, cercavamo di distrarlo proponendogli qualche divertimento che gli piacesse.
Ma ci faceva sentire in colpa. Era come corromperlo.
Arrivò il Natale. Ed eravamo solo noi, per la cena solita. Che io personalmente avrei evitato, ma se non fu deciso altrimenti fu per il nostro bambino. Aveva solo quattro anni, e meritava un Natale felice, come sempre.
Quella sera ci fece visita un compagno di scuola di Lindsey, Samuel Heckler, portandole un regalo. E non so bene cosa successe o cosa si dissero, so solo che dal giorno dopo mia figlia tredicenne aveva un ragazzo.
Fu anche la sera in cui, finalmente, Jack raccontò anche a Buckley la verità, cioè che sua sorella non sarebbe tornata mai più. Almeno questo fu un sollievo, non doverci più nascondere dietro a delle scuse.
Il rapporto con Lindsey era sempre stato complicato, e l’assenza di sua sorella non migliorò le cose. Certo, era una ragazza forte, ma era anche una ribelle. Per giunta si sa che l’adolescenza è di per sé il periodo della ribellione.
Len tornò un pomeriggio in cui ero sola con Buckley e Nate. I bambini si facevano compagnia e io ero certa che mio figlio avesse bisogno solo di questo, di qualcuno con cui stare, senza pensare troppo. Avrei voluto anch’io essere ancora una bambina, senza un marito e una figlia morta.
Fu quel giorno che mi disse di sua moglie, che secondo lui mi somigliava perché “non era una gran conversatrice quando non c’era niente da dire”. Ma non parlammo d’altro, perché poi arrivò mio marito.
Jack era fermamente convinto di sapere chi fosse l’assassino di Susie. Secondo lui era George Harvey, il nostro vicino di casa. Con questa certezza telefonò alla Polizia e li spinse ad investigare, ma non scoprirono nulla di rilevante. Ma lui continuava nelle sue certezze.
A fine gennaio fu organizzata una messa per ricordare Susie. Con mia grande sorpresa decise di venire anche mia madre, sostenendo che sarebbe stato il funerale di mia figlia. Sono certa che a modo suo amasse molto i suoi nipoti, così come a modo suo amava anche me. Del resto ero figlia unica, e nonostante fossimo molto diverse e spesso mi mettesse in imbarazzo era sempre mia madre.
Poteva ancora essere considerata una donna piacevole, nonostante avesse superato la sessantina. Spesso inquisiva sui nostri vicini di casa, voleva sapere ogni cosa di loro, e amava vestirsi col suo vecchio visone, truccarsi molto, indossare i tacchi e viaggiare su limousine sempre più appariscenti. Mi dava spesso anche consigli non richiesti su come crescere le mie figlie, e insisteva - soprattutto con Susie - sul fatto che non fosse abbastanza magra. Lo ripeté anche con Lindsey, ma non gliela diedi mai vinta. Non volevo certo delle bambine anoressiche.
La sera del suo arrivo, dopo la cena insistette come al solito per truccarmi. Ma dovetti subire soltanto il piegaciglia, perché poi per fortuna si dedicò a Lindsey che le aveva chiesto di insegnarle a truccarsi.
Come era probabilmente prevedibile quella sera mia madre si ubriacò. E truccò Lindsey come una squillo.
Forse riesco adesso a capire il motivo della sua richiesta a sua nonna. Dalla scomparsa di Susie vedere Lindsey era stato per me e mio marito - soprattutto per Jack - come vedere sua sorella maggiore attraverso di lei. Invece con il trucco, sebbene volgare e sconveniente alla sua età, riusciva ad essere di più sé stessa e di meno il fantasma di qualcun altro.
Alla messa intervennero Samuel con suo fratello, Clarissa, l’amica di Susie col suo ragazzo, e molti suoi compagni di classe con tutti gli insegnanti. Solo Ray Singh non c’era, e nemmeno sua madre.
La cerimonia si trascinò fra inni sacri e belle parole dette sul conto di nostra figlia. Non ne ricordo nemmeno una. In compenso ricordo mia madre voltarsi verso Lindsey e sussurrarle qualcosa. E poi mia figlia voltarsi e cadere svenuta.
Non scoprii mai il perché, e neanche glielo chiesi.
In estate Lindsey andò coi suoi compagni di classe al raduno degli studenti dotati. Mi sorprendeva sempre come Jack e io, che in fondo avevamo un’intelligenza abbastanza comune, avessimo potuto dar vita ad una figlia brillante in scienze (Susie) e a un’altra che eccelleva praticamente in tutto (Lindsey). Solo Buckley rientrava nella categoria dei bambini “normali”.
Ma non per questo gli volevamo meno bene.
In luglio Jack telefonava sempre alla Polizia cercando di premere sulle indagini, e questo costrinse Len a farci una visita ufficiale. Per chiedergli di non chiamare più, e per dirci che il caso era archiviato.
Questo non fece altro che schiacciare mio marito sempre di più. Nonostante fossi la prima a credere che stava esagerando, che l’intera situazione era grottesca, capivo anche che questo era il suo modo di tenersi occupato, di reagire alla vicenda. Senza Susie il suo mondo era crollato: e se c’era un modo in cui avrebbe potuto trovare pace, era la cattura del suo assassino.
Forse fu quest’ultima visita di Len a scatenare gli eventi di quella notte. In verità già da tempo Jack non dormiva in camera con me, ma riposava sulla poltrona del suo studio. Così non ebbi modo di accorgermi di nulla, e non sentii grida o rumori sospetti. Solo la mattina dopo, quando fummo svegliati da sirene della Polizia e chiacchiericci e Lindsey andò a controllare, vide che lo studio era vuoto. Suo padre non c’era.
Ammetto di avere agito anche quella volta nella maniera sbagliata. Posso giustificarmi dicendo che ero a pezzi, ero stanca dei deliri di mio marito e di dovermi caricare il peso di tutta la famiglia da sola. Ma così andò: nonostante le insistenze di Lindsey la rimandai a letto, e lei stava per prendere suo fratello e salire nella sua stanza quando la Polizia telefonò.
Dissero che mio marito era all’ospedale, colpito dalla mazza da baseball che era appartenuta a Lindsey. Così afferrai giacca e borsa, e lasciando i miei figli corsi.
Avevo chiamato Len. Ci incontrammo nel corridoio, e io gli dissi tutto quello che sapevo: Jack era in sala operatoria con un ginocchio rotto, ma altro non potevo dire. Mi spiegò il resto lui.
A quanto pareva mio marito era sì uscito di casa con la mazza da baseball, e aveva raggiunto il campo di granturco, convinto che George Harvey fosse lì e deciso a ucciderlo. E c’era sì qualcuno nel campo, ma non era il nostro vicino: era Clarissa, in attesa del suo ragazzo. E sembrava che fosse stato proprio il suddetto ragazzo a ridurre in quel modo mio marito, sentendo lei che urlava.
Con Len uscimmo su un balcone. Fumammo una sigaretta e gli chiesi di sua moglie. Disse che si era suicidata, ma non sapeva il perché.
Qui iniziò la fine, o così credevo, del mio matrimonio. Ci baciammo soltanto, io e Len, ma devo essere sincera e dire che non mi innamorai mai di lui, semplicemente lo usai per distrarre la mia mente e allontanare da me tutto il resto: Jack ferito, mia figlia morta.
Quando ero giovane, il mio sogno sarebbe stato di fare l’insegnante. Anche quando sposai Jack ero convinta che sarei riuscita ugualmente a conciliare tutto: almeno finché non arrivò Susie, e dopo di lei Lindsey.
Buckley fu ugualmente inaspettato, e arrivò proprio nel momento in cui ero convinta - con due figlie di dieci e nove anni, quindi abbastanza grandi - che quel sogno potesse ancora essere realizzato. La terza gravidanza mi indusse a lasciar definitivamente perdere, ma nonostante questo non odiai mai nessuno dei miei figli, anche se non avevo mai avuto uno spiccato senso materno. Lo avevo riscoperto con loro.
Tornando dal balcone, nella sala d’aspetto c’era Hal, il fratello di Samuel. Disse che aveva accompagnato lui Lindsey, che Buckley era da Nate e che sarebbe rimasto ad aspettare mia figlia nel caso avesse bisogno di un passaggio al ritorno. Io lo ringraziai e poi andai da mio marito.
Fu allora, credo, che maturò in me l’idea di andarmene. La convalescenza di Jack fu lunga e dolorosa, e per farlo sembrare un gioco a Buckley si inventò ogni sorta di storie su un ginocchio alieno. A lui piaceva, glielo rendeva meno terribile. E naturalmente non sapeva che il suo papà era stato picchiato a sangue da un adolescente.
Ma anche stavolta, a risentirne fu Lindsey. Era lei, non suo padre, a dover tornare a scuola e sentirsi additata come “la figlia del pazzo”. Ma adesso lei aveva Samuel accanto, e sono certa che lui le diede una grossa mano.
Buckley invece andò per la prima volta all’asilo. Amava molto il luogo e la sua maestra gli piaceva, e sembrava che la simpatia fosse reciproca. Ma anche per lui non era facile convivere con l’ombra di una sorella uccisa.
Si avvicinava il giorno del primo anniversario della scomparsa di Susie. Per il giorno del Ringraziamento mia madre venne a trovarci, e dopo la cena uscimmo solo noi due per una passeggiata.
Si era sicuramente accorta di qualcosa nei miei modi di fare, e come al solito non usò tatto. Ma prima mi confessò che mio padre aveva avuto un’amante.
Credo che quella fu la prima volta in cui io e mia madre parlammo davvero. Era vedova da tempo, ma non l’avevo mai vista tanto fragile ripensando a lui. Forse per questo aveva sempre avuto difficoltà nei rapporti con me.
Decisi di colpo di passare davanti alla casa di George Harvey, e mia madre mi seguì. Ma prima della “casa verde”, come la chiamavamo, c’era quella dei Singh e lì, fuori dalla porta, seminascosta nei cespugli scoprii Ruana, la madre di Ray. Stava fumando.
Era una donna bellissima e con una grazia da danzatrice. Apparentemente fredda e snob, aveva un sorriso molto seducente e penso fosse anche una brava madre. Le chiesi se dava una festa dato che sentivo risate e voci in casa sua: disse di no, che la dava suo marito. Lei era solo la padrona di casa.
Capii perfettamente cosa intendeva, così le chiesi una sigaretta e fumammo, l’una accanto all’altra. Entrambe madri di un adolescente. Una con un figlio vivo, l’altra con una figlia morta.
Non passai davanti alla casa di George Harvey. E quella notte feci un sogno bellissimo, ambientato in India.
Un giorno, in cui sapevo che Lindsey avrebbe fatto il giro di corsa dell’isolato con i suoi compagni, Samuel tornò da solo. Disse che lei si era fermata al penultimo giro proprio davanti alla casa del nostro vicino, e poi l’aveva persa di vista.
Solo chi ha perduto un figlio può capire cosa provai quella sera, non vedendola rientrare. Di colpo fui catapultata indietro a quasi un anno prima, alla sera in cui stavo aspettando il ritorno di un’altra figlia. Una figlia che non era mai tornata.
Invece Lindsey tornò. Rientrò a casa piena di tagli e macchie di fango, ma quando Samuel le chiese dove fosse stata, lei guardava solo suo padre. E disse che era entrata nella casa del signor Harvey.
So che gli portò un foglio trovato là dentro, ma non chiesi cosa fosse e non volli neanche vederlo. Semplicemente uscii, per andare a prendere Buckley da Nate. Ancora una volta scappai dalla verità, scappai dalla mia bambina che non c’era più.
Appena ebbi preso il mio figlio minore, mi fermai ad una cabina e fissai un appuntamento con Len. Una volta di più sentivo il bisogno di distaccarmi dalla realtà, dalla mia vita di moglie e madre: e sapevo anche come fare.
Portai Buckley al Centro Commerciale e per la prima volta gli permisi di giocare da solo nella vasca con le palle di plastica. Poi lasciai il nome e andai alla ricerca di Len.
Ci incontrammo in un locale normalmente riservato agli addetti ai lavori, fra raffiche d’aria e rumori assordanti. E fu in quel luogo che tradii mio marito.
Se adesso mi guardo indietro non esito ad ammettere di essere stata ipocrita. Dopo il rientro di Lindsey uscii di casa dichiarando che avevo altro da fare ed eravamo ancora una famiglia: e neanche un’ora dopo ero nelle viscere del centro commerciale che facevo sesso con un altro uomo, lasciando mio figlio a giocare, solo, proprio come quelle madri sconsiderate che non sarei mai voluta diventare.
Era trascorso ormai un anno. Apparentemente tentavo di sembrare la stessa, moglie e madre, ma dentro di me avevo già preso la mia risoluzione: andarmene, fuggire. Il dolore per la perdita di Susie era nascosto dentro di me: l’avevo chiuso in un angolo della mia vita, in attesa di ritirarlo fuori una volta che fossi stata certa che non avrebbe fatto più male.
Quella sera non era ancora buio. Lindsey e io eravamo nella sala di casa nostra: io leggevo e lei guardava fuori dalla finestra. E fu lei a notare il trambusto nel campo di granturco.
Quando me lo disse risposi che non mi interessava, ma che sicuramente a suo padre sarebbe piaciuto saperlo, una volta che fosse tornato dal lavoro. E lei rimase lì, accanto a me, in attesa.
Ma non rimase tranquilla a lungo. Quando le sembrò finalmente di capire cosa stava accadendo, aprì la finestra perché sentissi il brusio delle voci poco lontano. Disse che stavano facendo una commemorazione per sua sorella.
Risposi, forse in modo troppo brusco, che non era certo quello il modo di ricordare Susie, ma non seppi dirgliene altri. E lei, così di punto in bianco mi chiese se avevo intenzione di andarmene.
Come le dissi in seguito, in quel momento le mentii. Promisi che non li avrei lasciati mai.
Ma sapevo che non era vero. E forse lo sapeva anche lei.
Sentimmo arrivare la macchina di Jack, e io dissi a Lindsey di andargli incontro e riferirgli. E come mi ero aspettata, lui affermò che ci sarebbero andati. E mia figlia decise che avrebbero portato con loro anche Buckley.
Io non andai. Lasciai che Lindsey vestisse suo fratello e che tutti e tre uscissero, se lo desideravano tanto. Io mi sarei sentita solo una comparsa inutile. Non so spiegare il perché.
Mio padre possedeva una casetta nel New Hampshire. La sera del Giorno del Ringraziamento mia madre mi aveva dato le chiavi, e nell’estate del 1975 io dissi che sarei andata là per un po’. Non ritenni opportuno specificare che non sapevo se sarei tornata.
Rimasi lì un inverno, poi mi spostai in California. In realtà non sapevo veramente cosa fare. Ma ero lontana, lontana dalla mia famiglia, da mio marito, dai nostri figli, quelli vivi e quella morta. E questo mi bastava.
Durante il viaggio mandavo cartoline ai ragazzi, non molto di più. E quando arrivai a San Francisco, trovai lavoro in un’azienda vinicola. Inutile dire che il mio sogno di insegnare non riuscii mai a realizzarlo.
Ogni tanto telefonavo a Jack, ma era più per avere notizie dei nostri figli. Buckley cresceva: Lindsey proseguiva a meraviglia coi suoi studi. E Holiday, il nostro cane, li teneva tutti su di morale.
Nell’autunno del 1981, una mattina come tante arrivai sul posto di lavoro e trovai un biglietto. Una parola sola: Emergenza. Dato che mia madre viveva da tempo a casa con Jack e i ragazzi, potevo solo supporre che fosse accaduto qualcosa a qualcuno di loro: e ovviamente quando telefonai a casa non rispose nessuno. Riuscii però ad avere il numero di telefono dei Singh, e Ruana mi disse di aver visto un’ambulanza a casa mia. Ma non sapeva chi avessero portato via.
Allora, anche per l’agitazione, non pensai ai problemi cardiaci di Jack: ma visto che a chiamare era stata mia madre, era in effetti la soluzione più plausibile. Telefonai dunque all’ospedale, dove mi confermarono i miei sospetti. Jack era stato colpito da un infarto.
Non pensai su due volte, mi feci accompagnare all’aeroporto e comprai il biglietto per il primo volo che riuscii a trovare. Tra i vari cambi fu un volo molto lungo e difficile, e nel frattempo ebbi ampio spazio per pensare.
All’aeroporto erano venuti a prendermi Lindsey, Samuel e Buckley. Mi sorpresi di quanto mia figlia mi somigliasse, di quanto si fosse fatta bella e alta, e di quanto mio figlio fosse diventato paffutello. Proprio com’ero io a dodici anni.
Il primo approccio non fu semplice. E non ne fui sorpresa. Avevo abbandonato un bambino di sette anni e lo ritrovavo alle soglie dell’adolescenza: avevo perso sei anni della sua vita, e non potevo certo pretendere che mi accogliesse a braccia aperte. In effetti l’unica parola che mi rivolse per tutto il tragitto fu una parolaccia. Ma per quanto rattristata, non insistetti.
E mi ritrovai a pensare che allo stesso modo avevo abbandonato anche Susie. Certo, non era la stessa cosa: lei non c’era più, e per sentirla non era necessario rimanere nella nostra casa. Se solo fossi stata pronta a sentire la sua presenza, lei si sarebbe palesata dappertutto. Invece Lindsey e Buckley erano vivi, e se era vero che lei aveva ormai quindici anni e poteva anche avermi perdonato, lui era appena un bambino ed era ovvio che il mio improvviso abbandono gli avesse causato un trauma.
Nella stanza d’ospedale, per la seconda volta in pochi anni, Jack sembrava ancora più inerme e invecchiato. Ma sembrò davvero felice di vedermi, e anche io credevo che tornare fosse stata la scelta giusta. Era ora di smettere di fuggire.
Quasi subito scesi all’ingresso dell’ospedale, dove una ragazza vendeva giunchiglie, e le comprai tutti i mazzi che poi sistemai nella stanza di mio marito. Erano i fiori preferiti di Susie: ed ero certa che a lui avrebbe fatto piacere.
La sera non seguii i miei figli a casa, ma rimasi accanto a Jack, e dopo avere mangiato un boccone al bar mi addormentai vicino a lui, anche per via della stanchezza accumulata in quel lungo viaggio.
Avevo deciso che gli avrei detto addio, e mi ero sentita meglio, ma forse già allora dentro di me sapevo che non ci sarei riuscita. E non era per la consapevolezza che lui potesse materialmente avere bisogno di me: del resto se l’era cavata benone per tutto quel tempo, anche prima che venisse a stare da noi mia madre. Ma perché lui mi amava, e io, anche se a modo mio, lo amavo.
Come amavo i frutti del nostro amore.
Quando prima dell’alba mi svegliai, Jack era già con gli occhi aperti. Disse di aver visto Susie. E quella fu la prima volta in cui gli confessai che l’avevo vista anch’io, ma non in quella stanza. Vedevo nostra figlia nella casa del New Hampshire, in California, nelle strade, nei negozi, in ogni bambina che incontravo, in ogni donna che non sarebbe mai diventata. Anche per me lei era ovunque, come per lui. E Jack ne fu felice.
Len venne a trovarci. Fu strano per me rivederlo, così come immagino lo fosse per lui, probabilmente non aspettandosi di trovarmi lì. Ma non venne a dirci che il corpo di Susie era stato trovato, o che George Harvey era stato arrestato. Aveva con sé un oggetto che apparteneva a nostra figlia: un ciondolo del suo braccialetto, la chiave di volta della Pennsylvania con le sue iniziali.
Fu l’ultima volta che ci incontrammo, con o senza mio marito.
Finalmente Jack uscì dall’ospedale, più o meno rimesso, e tornammo a casa tutti insieme. Da mia madre avevo saputo che Lindsey e Samuel avevano deciso di sposarsi, e ne ero stata lieta. Speravo solo che lei avesse più inclinazione alla maternità di quanta ne avevo avuta io.
Hal e Samuel avevano regalato a Buckley una batteria, e lui la provò immediatamente, ma nessuno gli chiese di smettere nonostante il fracasso. Se gli era di conforto, eravamo disposti a sopportarlo… per un po’.
Mia madre se n’è ormai andata da tempo, e mi piace pensare che in qualche modo lei e Susie si siano incontrate, o che lo faranno in futuro. Nonostante mamma fosse una persona particolare, con un suo speciale modo di vedere le cose, in fondo lei e mia figlia avevano alcune cose in comune. Tra tante, io che non ero riuscita ad avere un rapporto sano con nessuna delle due.
Le cose sono davvero migliorate per la mia famiglia. Jack e io abbiamo avuto modo di venirci incontro, e lo facciamo prevalentemente parlando di Susie e pensando a lei. Ormai non ci nascondiamo più dietro a ostinati silenzi, e questo è bene. Non solo per noi.
Lindsey e Samuel si sposarono, e acquistarono una casa che lui ristrutturò quasi tutta da solo. E poi arrivò la vera gioia della nostra vita, la loro figlia, la nostra prima nipote. Susie piccola.
Se penso mai a come sarebbe stata la nostra vita se Susie fosse ancora qui con noi? Certo, ci penso. Crediamo sempre di fare il possibile per proteggere i nostri figli: non restare fuori fino a tardi, non parlare con gli sconosciuti. Ma la verità è che a volte le cose accadono, e accadrebbero comunque, perché purtroppo siamo esseri umani e non siamo perfetti, non abbiamo occhi che vedono ovunque. Facciamo degli errori. A volte siamo stanchi, fragili, o semplicemente distratti. Possiamo solo sperare che qualcun altro possa vedere e provvedere, ma noi come madri e padri possiamo fare del nostro meglio. E credo proprio che noi in particolare lo abbiamo fatto. La nostra nipotina ne è la prova.
Ti voglio bene, Susie.


Salve… eccomi tornata col nuovo capitolo, questa volta protagonista la mamma di Susie, personaggio forse ritratto in una luce più egoista. Spero di aver fatto un buon lavoro.
Un ringraziamento speciale va a DelilahAndTheUnderdogs, che giustamente mi ha corretto sull’anno della morte di Susie… spero che ti piaccia anche questo capitolo!
Ciau

  
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