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Autore: Iryael    05/02/2014    1 recensioni
Aprile 5402-PF, pianeta Veldin.
Lilith Hardeyns, diciottenne di Kyzil Plateau, trascorre la sua vita tra una famiglia inesistente, un coetaneo che la mette in difficoltà ad ogni occasione e un maestro di spada che per la giovane è anche un padre e un amico.
Sono passati sei anni da quando la ragazza ha incontrato Sikşaka, il suo maestro di spada, e Lilith ha acquisito un’esperienza sufficiente per poter maneggiare tutte le armi presenti nella palestra. Tutte tranne una: Rakta, una scimitarra che perde il filo molto raramente.
Lilith sa che quell’arma, il cui nome stesso significa “sangue”, richiede un’esperienza che ancora non ha.
Non sa che quella scimitarra ha origini molto più antiche di quel che sembra, né conosce il potere di cui è intrisa.
Ignora che qualcuno vuole averla ad ogni costo.
E nemmeno immagina che Rakta sta per diventare parte integrante della sua vita.
============
[Galassie Unite | Arco I | Schieramento]
[Personaggi: Nuovo Personaggio (Lilith Hardeyns, Queen, Sikşaka Talavara)]
Genere: Azione, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ratchet & Clank - Avventure nelle Galassie Unite'
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[ 09 ]
Due minuti
Un tocco piuttosto ruvido scostò il colletto della camicia. Queen riconobbe due dita posarsi sotto la curva della mascella, alla ricerca del battito cardiaco. Il mortale, evidentemente, stava cercando di riconoscere se fosse viva o morta.
Illuso. Noi Tsa-gêke non dipendiamo dal sangue.
«...morta anche lei.» lo sentì sussurrare.
Povero mortale idiota.
 
Lo lasciò perdere – ai suoi sensi lui era insulso, sozzura senza nerbo – e tornò a concentrarsi su Lilith.
Anche se non riusciva a vederla, sapeva di averla già incontrata: la percezione era la stessa di qualche giorno prima, quando aveva vagato per i bassifondi verso il primo incontro con Dragan.
In quel momento si spiegò come mai avesse avvertito l’aura di Rakta su di lei: era la stessa che permeava il luogo. Era lampante che la giovane frequentasse la palestra; così come, a giudicare dalla forza con cui l’aura della scimitarra l’era attaccata addosso, che lo facesse da lungo tempo.
Ma era altresì ovvio che la lombax non fosse mai entrata in contatto con la scimitarra vera. L’aura che la circondava non aveva la stessa natura di quella che caratterizzava i Portatori. Era più blanda, quasi slavata, passiva.
Rakta marcava l’anima del suo Portatore, ma nell’anima di quella ragazza non v’era traccia dei suoi effetti. C’era invece la paura, che l’attraversava come un chiodo, dritta e dolorosa fino al cuore dell’anima. E c’era il bisogno urgente di fare qualcosa, tenuto a malapena a bada dal timore di commettere un errore irreparabile. Più all’interno c’erano speranze e frustrazioni, in cui le seconde dominavano grazie a una selva di ricordi spietati; e infine, al centro dell’anima, là dove arrivava il chiodo della paura, pulsava la rabbia.
Oh, quella rabbia!, gioì Queen.
Così profonda, così cieca, così disperata.
La giovane lombax avrebbe fatto qualunque cosa pur di cancellare la sua paura. Qualunque cosa, con una volontà più forte dell’acciaio.
 
Queen distolse l’attenzione per riflettere.
Quella ragazza era una tela bianca che già odorava di vernice; una tela che doveva essere sua a qualunque costo.
Fu allora che ebbe l’idea.
* * * * * *
Non spostarlo, aveva detto Matej. Non muoverlo, o peggiorerà soltanto.
Il parquet scheggiato le graffiava le ginocchia, ma Lilith non lo sentiva. Teneva gli occhi fissi sul suo maestro, sui tre manici che spuntavano dalla schiena come faraglioni.
Aveva urlato e scalciato fino a un attimo prima, quando il poliziotto aveva pronunciato quelle parole.
Con una sola frase l’aveva zittita, svuotata di tutta l’isteria, riportata coi piedi per terra. Aveva realizzato appieno le condizioni di Sikşaka solamente in quel momento, e allora la paura le aveva stretto le viscere.
Aveva sgranato gli occhi, aveva supplicato con lo sguardo il poliziotto affinché le dicesse qualcosa di rassicurante, ma aveva ricevuto indietro solo silenzio. Silenzio e il distogliersi di uno sguardo carico di pietà.
Si era sentita mancare.
Peggio di così...peggio c’è...
Non riuscì a finire la frase. Un’ora prima era solo uno spauracchio; in quel momento era tangibile: sarebbe rimasta sola. Portò lo sguardo su Sikşaka e, cercando di mettere a tacere il proprio timore, gli strinse delicatamente una mano. Era calda. Calda e morbida, come quella di chi dorme profondamente.
E, in effetti, sembrava proprio che dormisse. Riverso al suolo in maniera scomposta, come dopo la sbronza epocale dell’anno precedente. All’epoca lo aveva svegliato con una secchiata d’acqua fredda, dopo averlo trascinato in cucina, e poi lo aveva costretto ad ingollare mezzo litro di caffè.
Sentì le lacrime pungerle gli occhi. Si era fatta così tante risate, a raccontarglielo dopo.
Si morse il labbro. Matej, da qualche parte alle sue spalle, sputava ordini alla ricetrasmittente, ma lei non lo ascoltava. Sentiva di dover fare qualcosa di utile, e allo stesso tempo sentiva il bisogno di scavare una buca dove rannicchiarsi e piangere.
Perché sapeva che Sikşaka non era nel pieno di un pisolino dopo sbronza, e l’assenza della sirena dell’ambulanza era angosciante.
Sapeva ch’era ad un soffio dallo spirare, e l’idea che se ne andasse l’atterriva perché rimanere soli, a Kyzil Pateau, era una maledizione. Vivere in una cittadina mediocre di un pianeta marginale, con la mentalità di un paesino e la legge che vigeva all’acqua di rose, era improponibile senza il supporto di qualcuno. Giorno dopo giorno diventava sempre più una condanna, un soffocamento dalla quale i giri criminali promettevano di far uscire.
Evitare che lei cadesse in uno di questi giri era uno dei fini per cui Sikşaka l’aveva invitata alla sua palestra; glielo aveva detto chiaro e tondo qualche tempo prima. Si era dato da fare per lei, e lei non poteva ricambiarlo nel momento in cui lui aveva più bisogno.
Chiuse gli occhi e li strinse forte per trattenere le lacrime. Si sentiva un verme.
«Dove cazzo sono i soccorsi?» domandò.
Non ricevette risposta, e quando si voltò verso il poliziotto egli, che non si era accorto della domanda, uscì dalla palestra.
Per Lilith fu come ricevere un altro schiaffone.
Alla paura si aggiunse la rabbia.
Perché ci mettono così tanto?! È perché non siamo nei quartieri altolocati?!, ruggì nella sua mente.
Digrignò i denti. Non era possibile che non ci fosse nient’altro da fare oltre ad aspettare. Anche perché – era evidente dal silenzio della strada – i soccorsi s’erano fermati a farsi un drink.
Alla rabbia si aggiunse la determinazione.
Si guardò intorno: se l’ordine pubblico non l’aiutava, avrebbe fatto da sola. Doveva solo trovare un modo, e farlo alla svelta.
 
Fu allora che una puntura di spillo le attraversò il cranio.
«È così, piccolina: non si fidano della chiamata. Perdono tempo a verificarla.» disse una voce femminile.
Lilith si portò una mano laddove aveva sentito pizzicare, gli occhi sgranati per la sorpresa.
«No, non senti le voci. Telepatia, piuttosto.»
La ragazza si guardò intorno, ruotando la testa a scatti. Chi le stava parlando?
«Oh, non perdere tempo a cercarmi. Se ti dicessi che puoi salvarlo tu, il tuo caro maestro?»
Il cuore di Lilith fece una capriola.
«E come?»
«Lo vedi quel sacchettino di pelle con le monete? Userai quello.»
Individuò subito il sacchettino. Anche quello era sdraiato sul parquet, e il suo contenuto si rovesciava tra le schegge.
«Ce ne sono tante simili all’oro rosso: prendine tre. E poi cercane tre simili all’oro bianco.»
Lilith fece come l’era stato detto, anche se non capiva come quegli oggetti avrebbero potuto salvare una vita.
È una follia! – gridò la sua coscienza. – Sono monete! E manco sai chi ti sta parlando! Fidati delle autorità, per una stramaledetta volta!
Quando le ebbe in mano, le fissò con occhi lucidi.
«Adesso accoppiale, una bianca con una rossa. Poi rimettigli Rakta in mano. Fai che la stringa.»
La ragazza eseguì senza fiatare.
«Fatto.» dichiarò alla fine.
«Adesso la parte più spinosa: togli i coltelli e metti una coppia di monete in ciascuna ferita. Gli incantesimi si attiveranno da soli per il portatore di Rakta.»
Lilith sgranò gli occhi.
Incantesimi.
«Stai...stai scherzando...» soffiò.
Queen percepì il crollo delle sue convinzioni e capì di aver commesso un passo falso. Ma non aveva il tempo per rimediare con qualche bugia, né possedeva le forze per rialzarsi e avviare lei stessa il processo curativo. Perciò smise di interpretare l’insegnante compassionevole e si fece dura.
«Senti: o fai come ti dico e lo salvi, o continui a tremare e muore. Scegli in fretta; gli restano trenta secondi scarsi.»
Furono le parole giuste per mandare Lilith nel caos.
Mi fido? Non mi fido?
(Come si fa a saperlo?)
Istinto o ragione?
(L’istinto è l’unico senso di cui valga la pena di fidarsi, lo sai. A meno che non ti proponga cose assurde, però!)
E se ha ragione la voce?
(Ma se non ce l’ha sarai la sua assassina.)
Sì ma...
(Ucciderai l’unica persona per cui rovesceresti l’inferno.)
È davvero così poco il tempo?
(Il tempo è tiranno, te l’hanno mai detto?)
E se davvero è così poco…galassia, lo sto sprecando! Ma cosa posso fare? Cosa? A chi lo chiedo?
(No, cazzo! Lilith Hardeyns, tu hai un orgoglio! Non puoi aspettare sempre che vengano a imboccarti!)
E se la storia degli incantesimi è vera?
(Da quando credi nella magia?)
È illogica, ma se davvero la voce non ha mentito?
(E perché dovrebbe dirti la verità qualcuno che manco si fa vedere?)
Se ho davvero il potere di salvargli la vita?
(Cerrtooo...)
 
Si guardò le mani alla ricerca di quel potere, sconvolta dall’idea di poter fare qualcosa e atterrita dal pensiero che fosse qualcosa di improponibile. Si accorse che stava tremando. Non riusciva a tener ferme le mani; tremolavano tanto da far tintinnare le monete.
 
Però...se davvero avessi la possibilità di salvarlo e la stessi buttando?
(Andiamo, guarda in faccia la realtà! Non sei un dottore, non sai manco come si chiamano i tuoi organi interni!)
È meglio la coscienza o la misteriosa voce telepatica?
(Risposta scontata, ti pare? Ovvio che dovresti preferire me, la tua coscienza!)
E poi è la voce di chi? Perché è qui? Perché non si presenta a farlo lei il gioco di incantesimi? Incantesimi, stragalassia!
(Ecco, ora sì che ragioniamo...)
Perché devo scegliere tra due cose impossibili? L’ambulanza non scenderà mai, e la magia non esiste! Perché non mi viene concessa almeno UNA opzione fattibile?!
(Scelte difficili e merda in faccia qualunque strada tu prenda. Benvenuta nel mondo dei grandi, dolcezza.)
 
Tese le orecchie in un ultimo, disperato tentativo di udire le sirene dell’ambulanza ma niente, le rispose solo il silenzio. E allora la paura di rimanere da sola scelse per lei.
Era una follia, era vero. Ma era il momento delle decisioni, e quel salto nel buio era molto più allettante della solitudine certa.
«Lo faccio. Lo faccio, lo faccio, ce la faccio!»
Afferrò ed estrasse il primo pugnale che la mano ancora tremolava. La lama venne via con uno strap raccapricciante, portando con sé qualche grumo di carne. Per un istante il corpo si sollevò assieme al coltello, quasi come se il lombax avesse avuto uno spasimo. A Lilith parve di sentire la voce di Sikşaka strozzare un singhiozzo e subito dopo – come se quello non avesse martoriato a sufficienza la sua fermezza – vide un fiotto di sangue segure la punta del coltello, quasi a rincorrerlo per impedirgli di lasciare il corpo.
La sicurezza della ragazza si fece piccola sotto le urla della coscienza, che gridava quanto fosse idiota a seguire il consiglio di qualcuno che forse manco esisteva. Si morse il labbro così forte da sentire il sapore del sangue sulla punta della lingua, ma non vi badò. Le importava che Sikşaka stava per morire e una voce di donna le aveva chiesto di avviare degli incantesimi curativi, e lei stava esaudendo quella richiesta assurda con il petto così compresso dalla paura e dal dubbio da parere prossimo alla frantumazione.
Non aveva mai pregato, Lilith, non aveva mai creduto che esistessero divinità o altri esseri superiori; ma in quel momento avrebbe dato un braccio perché uno di essi esistesse e risolvesse la situazione con uno schiocco di dita.
Queen, percepito quel desiderio così disperato, sentì un brivido lungo la schiena.
Oh, ma i Toksâme esistono. – avrebbe voluto dirle. – Ce n’è un universo pieno, di divinità. Peccato che siano la rovina del multiverso.
 
Intanto Lilith fece forza sulle dita tremolanti e infilò la prima coppia di monete nel crepaccio lasciato dalla lama.
Una zaffata emerse dalla ferita e la costrinse a storcere il naso, ma non si ritrasse. Per quanto la vista del sangue che fluiva dal corpo del suo maestro la sconvolgesse, non si allontanò. Anzi, si affrettò ad affondare più in profondità le monete, pregando che funzionasse davvero.
Fu esaudita.
Non seppe spiegare come o sulla base di quale principio, ma non aveva ancora ritratto i polpastrelli quando sentì la stessa sensazione che provava quando lucidava Rakta. Percepì sulle mani quella specie di elettricità statica che le drizzava il pelo, assieme al tramestio alla bocca dello stomaco. Guardò la spada, poi le monete nella ferita e le sue dita sporche di sangue. Non aveva parole per descriverlo, ma sentiva che qualcosa di giusto stava succedendo.
Cacciò sbrigativamente le lacrime, afferrò il secondo pugnale con più decisione e ripeté il gesto compiuto poco prima. Dopo il terzo ed ultimo coltello, quando il vello sulle sue mani era ormai incrostato di sangue fino al polso, tornò a stringere dolcemente la mano di Sikşaka, osservandone i lineamenti con un misto di ansia e aspettativa dipinto sul volto. Avrebbe funzionato. Doveva.
«Funzionerà, Sik, vedrai.» sussurrò.
«Funzionerà, giovane mortale.» la rassicurò Queen. «L’ho visto accadere troppe volte per non poterlo garantire.»
Lilith alzò il capo e si guardò nuovamente intorno. La palestra era sfasciata, neanche ci fosse passata una tempesta.
«Puoi dirmi chi sei?» domandò. «Se si salva, lo devo a te. Voglio almeno sapere il tuo nome.»
Queen percepì che le difese della giovane si abbassarono totalmente, sia nella mente che nell’anima. Sogghignò. Era il momento che aspettava.
«Oh, mi conoscerai presto, non temere.» disse, sibillina. «Per il momento ti basti sapere che sono un’emanazione di Shine, Toksâme di quest’universo. E che tu, mia giovane e coraggiosa mortale, sei stata scelta da me per far parte di un gioco tanto antico quanto spietato.»
La ragazza corrucciò le sopracciglia. Non aveva compreso la prima parte, ma la seconda l’aveva inquietata. Senza accorgersene, strinse più forte la mano del suo maestro.
«Cosa vuoi dire?»
«Non ti preoccupare, per questa partita i pezzi si stanno ancora schierando. Capirai tra qualche anno.»
La voce della lombax si fece più dura. «No, fammi capire adesso. Ti devo un favore, è vero, ma non mi farai fare questo “gioco” senza dirmi un cazzo di niente.»
Queen, riversa sul pavimento, digrignò i denti. Non sopportava i mortali insolenti, non lo aveva mai fatto in passato e non li avrebbe tollerati in futuro.
«Taci!» e scaricò un ruggito direttamente nella testa di Lilith.
Tra le tempie, quello che cominciò con un urlo divenne una colata incandescente di sofferenza. La ragazza sentì i pensieri esplodere, diventando schegge che si conficcavano dolorosamente nel cervello.
Lampi rossi e neri striarono ciò che guardava, squarciando la capacità di vedere come grossi artigli avrebbero fatto con una tela. La ragazza serrò gli occhi e si portò le mani alla testa, urlando e gemendo per quella tortura sbucata dal nulla. Si agitò e si scosse, ma niente, andò avanti finché non si ritrovò prostrata, con la fronte che toccava la maglia insanguinata di Sikşaka.
Finì in un lampo, così com’era cominciata. Nella testa di Lilith rimase solo l’eco di quel ruggito spaventoso. Le orecchie ronzavano, la forza per pensare era ridotta a zero.
Queen accolse il risultato con soddisfazione, prima di proseguire. Raccolse il Potere e ne intrise le parole. Non le pronunciò ad alta voce per non farsi scoprire; le mimò con le labbra e le trasmise con la telepatia.
«Fô kuö dafâmko ï fô neö dafâmko.» [1]
Le parole scivolarono senza difficoltà nella mente di Lilith, trovando un terreno sconvolto, ma fertile. Pur non avendo mai udito quel dialetto, la lombax ne comprese lo stesso il significato e, per reazione istintiva, si portò in difesa. Che significava?
La tua volontà è la mia volontà.
Le parole echeggiarono nella mente e si insinuarono in ogni dove.
La mia volontà è la sua. Sono uguali. Vogliamo la stessa cosa.
Ecco, così suonava più comprensibile. Era una cosa nuova, affascinante. Ed era bella. Scaldava l’anima sapere di non essere la sola a volere qualcosa, anche se lei non sapeva ancora bene cosa.
Magari lei ha capito cosa vorrei. Dopotutto vogliamo la stessa cosa.
In fondo lei voleva salvare Sik quando anche l’altra voleva salvarlo. Forse un’opportunità la meritava.
Queen percepì le difese abbassarsi e s’insinuò prepotentemente.
«Pô öpîlla kû dedsôë tîs pêl-succîsi ë Toksâme pê quïlka ümedîslâ. Losôë öf nêä zeömja pusômki fô cuïsso ksô mâë ï fâsa, losôë ëf gsô-jeä d’ji jôfiso ëf jâfta öf nêä äspêmi.» [2]
Lilith percepì una strana energia insinuarsi tra i pensieri. Era così diversa da quella emanata da Rakta, eppure era così simile. Non si preoccupò di combatterla, la lasciò andare oltre, scavare dentro di lei e riempirla con quella nota di forza e mistero.
Si concentrò sulle parole. La sua parte nel gioco sarebbe stata di natura bellica, quindi. Suonava interessante.
Ma come posso...?
«Tîs quîlka ljâta ottsimpîsoë jâni panemôsi Rakta. Jâ-kêmuïsoë ö lkupeösi fô öski pîffi fôni jâm Sikşaka Talavara ï mâm ô-jîkkisoë ö-ksâ noïlksa d’ji tê ëmlîcme fâ üla pîffi ösnê gêö-d’ji. Ëf panêmeä ï fô üla pê Rakta losômma fô kûö ümêjo tsê-sêko zê-d’ji, ö likkîngsi, ïmksisôë öffo Accademia della Flotta pê Metropolis.» [3]
L’Accademia, ma certo!
L’Accademia e le lezioni di Sik! Con quelle insieme sarebbe diventata temibile!
«Dâcfeä d’ji kû kê ëljsêdo öf jâsla Soldati ï kê ëntïcme ö lutîsosi gsêffo-kinîmki cfê ilône. Mâm kê fôlj-sôë fûlem-ôsi pôf lû-jîlla; jâ-kêmuïsoë ö fodasôsi jâm ospâsi ï pipêxe-mî. Öf kîsnemi pîf quöska ömma, quömpa losôë ümo ïjjîffi-xô, jamjassîsoë tîs imksôsi lûffa USS Ferox. I tâë losôë lâfa ïp iljfuledonîmki öë neïe äspême, mâm mî öjjikkisôë ö-ksê, minnîma pô King â pô Chaos êm tislâmo.» [4]
Queen sapeva di porre un vincolo azzardato a vietarle di seguire la parola di Chaos, ma non le importò. Se doveva manipolarla, lo avrebbe fatto fino in fondo.
Lilith annuì. Sullo sfondo, la coscienza diceva cose assurde come “l’Accademia è fuori discussione, ricordi il dialogo con Sik?”
Ancora una volta, la coscienza venne ignorata. Era la voce a dominare nella mente di Lilith. Con quel tono fermo le aveva aperto uno scenario cui lei non aveva pensato a dovere.
Uno scenario che le piaceva e l’allettava. Sì, si sarebbe adoperata per raggiungerlo.
La mia volontà è la sua volontà.
* * * * * *
La pithil portava sabbia senza sosta, tingendo pian piano gli angoli della cittadina. Se l’ingresso alla palestra non fosse stato riparato, Matej sarebbe diventato un pupazzo di sabbia.
Non che gli importasse. Era arrabbiato, in quel momento.
Quando aveva sentito il centralino dell’ospedale che, alla radio, gli chiedeva di dare nuovamente il suo indirizzo, Matej era dovuto uscire dalla palestra per non sbottare davanti a Lilith.
«Come sarebbe “si sono persi”?» ringhiò alla radio. «Siete l’ospedale, sacra luna! Le vostre ambulanze dovrebbero andare a curvatura, e invece si perdono per le vie di Kyzil Plateau, un buco di cittadina!»
Non stette ad ascoltare la risposta. Sebbene fosse suo dovere farlo, sapeva che gli avrebbe provocato un inutile scatto d’ira. A quel punto, o l’ambulanza si teletrasportava, o per Sikşaka non ci sarebbe stata speranza.
E mentre la radio gracchiava il battibecco tra la centralinista e l’autista, il poliziotto si sedette sul gradino davanti all’ingresso e si prese il capo tra le mani.
Udì Lilith gridare e immaginò che stesse piangendo.
Si morse il labbro. Con che parole avrebbe potuto rassicurarla? Con che ottimismo poteva aspettarsi che lei acquisisse fiducia nell’ordine pubblico se quello si dimostrava totalmente inefficiente?
 
Poi, finalmente, si udirono delle sirene.
Matej alzò la testa di scatto, riconoscendo il suono all’istante. La Polizia.
Pochi secondi dopo una vettura contrassegnata si fermò davanti all’ingresso della palestra e due colleghi uscirono all’aria fresca della notte.
«Era ora!» sbottò Matej. «Quanto vi ci è voluto?!»
I nuovi arrivati non ebbero il coraggio di dirgli la verità, ossia che era parso tutto uno scherzo finché non li aveva contattati lui di persona.
Entrarono tutti e tre nella palestra, trovando Lilith china sul suo maestro. Quando si voltò a guardarli, dietro il velo delle lacrime bruciava un terribile rancore.
«Signorina...» disse il più alto dei due, contrito.
La ragazza riconobbe la voce. Era la stessa che le aveva riso in faccia, quando aveva telefonato.
«Sparisci.» ordinò, caustica. «Sei inutile.»
«Ehi!» rimproverò l’altro. «Non è il caso di essere irrispettosi!»
Riconobbe anche la sua voce. Era quello che faceva battutine di sfondo alla telefonata.
Per un istante fu tentata di prendere Rakta e farli a pezzi, ma tutto quello che fece fu mettersi in piedi e fronteggiarli.
«Il mio rispetto te lo devi guadagnare, stronzo.» ringhiò. «Serve un’ambulanza. Quindi, o tu e il tuo compare ne portate una qui, o potete andarvene.»
Matej diede uno sguardo al corpo sdraiato a terra, e solo allora si accorse che era diverso da come lo aveva lasciato. Mosse un passo in avanti. Lilith lo vide con la coda dell’occhio e non gradì.
«Indietro, tutti voi.» ammonì. Allargò i piedi e flesse leggermente le gambe. «Gli unici che farò avvicinare a Sik saranno dei dottori.»
Matej fu l’unico a non prendere quella minaccia per una smargiassata.
«Che ragazzina pericolosa...» commentò invece il più basso, che alle orecchie di Lilith suonò orribilmente canzonatorio.
«Decisamente.» convenne il collega. «Matej, non ci avevi parlato di un soggetto disturbato.»
Lilith sentì l’energia di Rakta pizzicarle la schiena. Sembrò dire: Raccoglimi!
Ed era più che disposta a farlo. Ma non aveva certezze che la spada non servisse al funzionamento di quelle strane monete, per cui la lasciò al suo posto. Piegò le braccia, invece, e portò le mani all’altezza delle spalle. Non le strinse a pugno – non subito, almeno. Lasciò che i poliziotti intuissero che le sue dita fossero incrostate di sangue. Lasciò che sommassero quel dettaglio ai capelli spettinati ed alle occhiaie, così che pensassero che fosse una squilibrata.
Godette del loro sgomento nell’istante in cui realizzarono che non stava fingendo.
Poi partì a testa bassa, desiderosa solo di sfogare la sua frustrazione sulle autorità che, ancora una volta, l’avevano tradita e derisa.

[1|⇑] La tua volontà è la mia volontà.
 
[2|⇑] Da adesso tu vivrai per distruggere i Toksâme di questo universo. Sarai al mio fianco durante la guerra tra noi e loro, sarai il braccio che calerà il colpo al mio ordine.
 
[3|⇑] Per questo scopo apprenderai come dominare Rakta. Continuerai a studiare l’arte delle lame con Sikşaka Talavara e non accetterai altro maestro che t’insegni l’uso delle armi bianche. Il dominio e l’uso di Rakta saranno la tua unica priorità finché, a settembre, entrerai all’Accademia della Flotta di Metropolis.
 
[4|⇑] Voglio che tu ti iscriva al corso Soldati e t’impegni a superare brillantemente gli esami. Non ti lascerai lusingare dal successo; continuerai a lavorare con ardore e dedizione. Al termine del quarto anno, quando sarai un’eccellenza, concorrerai per entrare sulla USS Ferox. E poi sarai solo ed esclusivamente ai miei ordini, non ne accetterai altri, nemmeno da King o da Chaos in persona.

 

   
 
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