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Autore: I quattro Dei    16/02/2014    2 recensioni
[Storia temporaneamente sospesa]
In mondi sconosciuti, dove le terre sono divise e una guerra imperversa ogni dove, solo un antica magia può salvare il mondo dalla sua distruzione.
Quattro ragazzi si ritrovano coinvolti senza neanche una spiegazione, poiche quando grandi divinità ti vengono confinate dentro non hai le tue spiegazioni.
Quattro destini e quattro ragazzi, così diversi eppure così simili, legati da un filo sottile quanto resistente.
Genere: Fantasy, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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The Gods' Fate

The Gods' Awakening



Prologo






Raylight era una cittadina esotica e vicino ad un mare cristallino all’inverosimile, la sabbia era bianchissima e molto fine e le acque erano pulitissime, per questo motivo solo in poche persone avevano il diritto di farci il bagno, giusto le famiglie più potenti o ricche della città se lo potevano permettere ed avevano il permesso direttamente dal Sindaco.
 
Ma Raylight non era famosa solo per il suo fantastico mare, la cosa che dava subito all’occhio di quella città era l’immensa quantità di verde che vi risiedeva: in ogni via c’era sempre un parco ben curato e pieno di fiori colorati e di vario tipo. Tutti i viali avevano anche una fila di alberi piantata nel terreno e intorno a loro c’erano tantissime aiuole con la flora locale.
Era tutto curatissimo e non mancavano nemmeno le sculture fatte con le siepi.
 
La cosa particolare poi era anche il fatto che non c’era di inquinamento, infatti le automobili o i mezzi di trasporto erano completamente assenti e per spostarsi nelle lunghe distanze si usavano dei piccoli portali che si potevano aprire grazie ad una Lacryma: quest’ultima, quando veniva azionata, era in grado di far comparire l’ologramma tridimensionale della città in miniatura, si sceglieva la posizione desiderata toccandola semplicemente, e dopo di che la piantina scompariva e ne prendeva il suo posto un portale azzurro che si muoveva similmente a delle onde del mare, ci si passava attraverso e si arrivava a destinazione da un secondo portale, praticamente uguale al primo.
 
In una grossa villa in periferia abitava una ragazza insieme ai suoi genitori, i Signori Phaidon, i quali erano sempre a lavoro, mentre lei stava spesso in casa a leggere. Aveva finito la scuola da un anno e per il momento non lavorava, non ne aveva bisogno visto che i genitori le davano qualsiasi cosa ed erano parecchio ricchi. La sua villa, composta da tre piani più la taverna era circondata da un grosso giardino curato da una persona apposita, e il tutto era circondato da una siepe parecchio floreale.
Michiko, questo era il nome della ragazza, aveva lunghi capelli azzurri e leggermente mossi che le percorrevano tutta la schiena, gli occhi erano grigio perla, il fisico era minuto e la pelle era parecchio chiara. Non aveva tanti amici, era lei che li rifiutava perché spesso si trovava meglio a stare da sola, ed era per questo che stava sempre chiusa in casa o in rare occasioni andava fino in spiaggia e poi al mare a farsi un bagno, visto che la sua famiglia era tra quelle che avevano il permesso.
 
Quel giorno era una delle rare occasioni in cui usciva, aveva voglia di andarsi a fare un giro sulla spiaggia e forse avrebbe fatto pure un bagno, prese le sue cose e uscì di fretta da casa sua, attraversando il viottolo di sassi del suo giardino che la conduceva fuori dal cancelletto.
«Buon pomeriggio signorina Phaidon» la salutò il giardiniere, un ragazzo di qualche anno in più di lei che lavorava per la sua famiglia.
La ragazza si girò a guardarlo per qualche secondo senza rivolgergli la parola, poi, di propria iniziativa, fece finta di inciampare tra i fiori appena piantati e li distrusse.
«Oh, mi spiace» si scusò lei ironica, con stampato un sorrisetto bastardo.
Il ragazzo non disse niente ma sospirò appena, non era la prima volta che capitavano quelle cose e tutti conoscevano ormai l’indole di quella ragazza che non amava per niente i fiori e la vita delle piante.
 
Michiko arrivò alla spiaggia, si tolse gli stivaletti grigi e cominciò a camminare tra la sabbia, in cerca di qualche conchiglia che avevano portato le onde del mare.
Indossava una maglietta a maniche corte rosa e sotto un paio di pantaloncini bianchi, e prima di uscire di casa si era messa della crema solare ad alta protezione, visto che la sua pelle era parecchio delicata e visto che non le piaceva per niente abbronzarsi.
 
Stava camminando da qualche minuto quando una grossa conchiglia bianca e dalle venature rosa attirò la sua attenzione.
Si avvicinò ancora di più alla riva, dove le onde si infrangevano con la sabbia, e la raccolse, trovandola semiaperta. Presa dalla curiosità dell’insolita grandezza di questa, fece forza e la aprì, trovandosi davanti una perla meravigliosa che grazie al Sole rifletteva i colori dell’arcobaleno.
Non riuscì però ad ammirarla più di tanto perché questa cominciò a brillare di luce propria, abbagliandola. Michiko si mise una mano davanti agli occhi, ma la luce la avvolse completamente e poi sparì di colpo, lasciando la ragazza leggermente spaesata.
Guardò di nuovo la conchiglia che aveva in mano, la perla era sparita e non solo, anche qualcosa dentro di lei era sparito o cambiato, si sentiva leggermente diversa e stava provando sensazioni strane e che non aveva mai provato fino ad allora.
Si guardò intorno e provò stranamente piacere nel vedere i fiori crescere rigogliosi, e solo in quel momento si accorse di avere dei ricordi mai appartenuti a lei, e soprattutto di avere un obbiettivo.
-Loro… li devo trovare… di nuovo- sussurrò, prima di correre verso il luogo dove aveva lasciato gli stivali e facendo cadere la conchiglia a terra.
 
*
 
Nel cielo del continente dell’ovest vi era situata un'isola fluttuante, sostenuta da una grossa bolla sotto al suolo, la credenza popolare era quella che la bolla era fatta d’aria, ma ciò era errato, poiché essa era una bolla d’acqua. Nessuno era mai riuscito a capire come ciò fosse possibile e l’ipotesi più quotata era che tutto ciò fosse la conseguenza di un qualche esperimento. Non era nemmeno difficile recarsi al piano superiore, poiché un grosso ascensore collegava le due parti della città.
 
Sulla superficie terreste dell'isola vi era situata una grande città, Lacrima era il suo nome, composta da vie, palazzi, villette a schiera e grattacieli, cinque per la precisione, con sopra una grossa lacrima di diamante che era visibile da ogni angolazione la si guardasse.
 
Questa città era soprannominata anche la città d'acqua per un particolare assai strano: ogni costruzione aveva un getto d'acqua, posto sopra il tetto, che facendo fuori uscire l'acqua circondava tutto. Anche le persone stesse avevo l'acqua a circondarli come una sottile membrana sopra i vestiti, dovuto al semplice fatto che all'altezza a cui si trovavano era difficilissimo respirare per via dell'area rarefatta e dei gas che salivano dal livello inferiore della città, quello più industrializzato dei due.
Tra i due livelli non vi erano grandi differenze sociali, vi erano anzi buoni rapporti ed entrambi si scambiavano merci a vicenda. L’unica differenza stava nei mezzi di trasporto, erano tutti uguali a parte i treni, che li si poteva trovare solo nel livello più basso.
 
La città di Lacrima era florida, dedita alla scienza e allo studio, e ricca di piante velenose anche se confinate in determinare aree. Aveva animali rari creati in laboratorio al solo scopo di essere uccisi e sezionati per venderne la carne e le pelli. Molto comuni erano anche i laboratori chimici e le fabbriche di ogni genere, così come le raffinerie.
Lacrima era davvero un ottima città-laboratorio, dove era possibile trovare e creare di tutto.
 
In una delle vie del livello inferiore, nascosto nell'ombra e incassato tra le fabbriche, era possibile trovare un piccolo negozio d'antiquariato, gestito da una donna un po' pazza e strampalata, dove al suo interno vi era anche l'ufficio di uno dei migliori cacciatori di tesori antichi: Shi Kurai era il nome sulla targhetta che un uomo lesse prima di entrare.
 
«Ho un lavoro per te, cacciatore» esordì sicuro, rivolgendosi alla figura vestita di nero che si trovava nella stanza.
«Che genere di lavoro?» domandò essa, il suo tono era calmo e piatto.
«Si dice, che da qualche parte nelle grotte a nord della città, vi sia un vaso antico dalle fattezze di un dragone» spiegò l’uomo.
«E voi volete che io lo ritrovi giusto?» chiese scettico.
«Esattamente, e se troverete qualcosa al suo interno potrete tenerlo insieme alla mia ricompensa, a me interessa solo il vaso» spiegò, porgendo al ragazzo una mappa con degli appunti, che questo non esitò a prendere.
 «Perfetto, la contatterò io quando avrò il vaso»
Il Signore uscì dalla porta da cui era entrato e il ragazzo iniziò subito a preparare le sue cose. Si muoveva agilmente, con il suo metro e ottantacinque d'altezza ,tra tutti quegli oggetti fragili e antichi che adornavano il suo ufficio, doveva farlo se non voleva rischiare di urtarli e farli cadere al suolo. Le spalle erano larghe ma non muscolose, gli occhi erano neri e la pupilla, a forma d'omega, era blu come i capelli che tendevano leggermente al viola, e che portava racchiusi in una lunga treccia, a parte quelli sulla nuca che invece erano completamente sparati all'aria e che cadevano a nasconderne gli occhi.
 
Arrivò alla porta e si infilò il suo cappotto simile ad un trench senza maniche, lungo fino al ginocchio, con due file di bottoni d'oro che terminavano in vita. La parte della chiusura si divideva poi dal resto, restando una fascia unica e un cappuccio. Sotto invece portava dei pantaloni di una tuta nera con ricami dorati a forma di rombo.
 
Aprì l’uscio del suo ufficio, trovandosi nel negozio della donna che era momentaneamente assente, probabilmente in magazzino, le lasciò un biglietto sul bancone dove accennava di avere un lavoro e di tornare appena finito e si calò il cappuccio in testa facendo uscire la treccia da un fessura praticata dietro.
 
Uscì quindi dal negozio, per poi sparire nei vicoli della città laboratorio, fino ad arrivare in una delle vie maestre e prendere la moto che aveva lasciato parcheggiata, montò in sella e sfrecciò fuori città verso le grotte. Spense il motore della moto ore dopo, quando ormai era calata la sera, e si avventurò nelle grotte tirando fuori una torcia che portava sempre con sé e la mappa che aveva ricevuto. Iniziò quindi a cercare la stanza segreta che, si credeva, doveva trovarsi all'interno del tempio di una qualche divinità dimenticata, o almeno così dicevano gli appunti che erano insieme alla mappa.
 
Era nella grotta da un’ora ormai e ancora non aveva trovato quel maledetto tempio, fu così che si ritrovò davanti un bivio.
«Destra o sinistra?» domandò al nulla.
«Ah ma che importa!» e prese quello di sinistra.
Percorse un altro paio di metri ed infine, dopo aver svoltato un angolo, si trovò davanti un’imponente struttura dallo stile greco. Notò immediatamente il grande portone aperto che invitava ad entrare, e di certo il ragazzo non rifiutò, poiché si avviò subito stando attento ad eventuali trappole nascoste, ma al contrario delle sue aspettative arrivò sano e salvo all'interno del tempio che era fatto completamente in lucido marmo bianco.
 
«Questo tempio sì che porterebbe soldi» commentò, osservando gli interni ampli e le colonne maestose e una statua di bronzo alta tre metri di cui non si riusciva a capire la forma perché rovinata ed abbozzata in più punti. Infine il ragazzo notò davanti alla statua un altare in marmo nero, con sopra il fantomatico vaso a forma di dragone, di dubbio gusto, secondo lui, ma aveva un lavoro da portare a termine e così si avvicinò al vaso e provò a sollevarlo, ma il peso era troppo eccessivo per un oggetto del genere e quindi lo aprì, allungando la testa per controllare il contenuto, ma da esso uscì un grosso banco di nebbia nera che lo avvolse completamente.
 
«Ma che caz...» non terminò la frase perché quella strana nebbia gli entrò in corpo passando per la bocca. Quando essa sparì del tutto il ragazzo era ancora lì, ma ora sul volto indossava una maschera che gli copriva naso e bocca, ed in lui sparirono o si affievolirono la maggior parte dei sentimenti. Solo la follia, il bisogno di portare morte e disperazione e la sete di sangue riuscirono a resistere e ad accrescere in lui.
"C'è un lavoro che mi aspetta, la caccia è aperta" pensò, prima di incamminarsi di nuovo per le vie della grotta.
 
*
 
A nord del continente più freddo e glaciale era situata una città tanto piccola quanto unica, circondata da boschi e foreste a perdita d’occhio. Pochi abitanti e niente di particolare, se non la distesa di neve che la ricopriva per intero per trecentosessantacinque giorni l’anno.
 
Triasia veniva definita “La Città Candida” dai pochi che avevano il coraggio di avventurarsi fin lassù per poterla vedere con i loro occhi. Era stata costruita  interamente sul grande lago ghiacciato che giaceva ai piedi della montagna più alta del continente, ed era circondata da una fitta foresta abitata da ogni genere di animale esistente, mentre il freddo pungente rendeva possibile viverci solo a coloro che vi erano nati.
 
Molti avrebbero pensato che era da pazzi costruire una città su un lago ghiacciato viste le alte probabilità di rottura di quest’ultimo, ma non era un problema che preoccupava gli abitanti, che per spostarsi utilizzavano pattini e slittini. A Triasia non esistevano stagioni, era sempre inverno e faceva sempre freddo, per cui il ghiaccio non si sarebbe mai sciolto. Nonostante il freddo, però, Triasia era una cittadina viva e fiorente, le persone erano serene e sorridenti e si guadagnavano da vivere con le loro bellissime sculture di ghiaccio, vendute in tutto il continente.
 
Proprio in uno di questi negozi,una ragazza dai lunghi e lisci capelli neri e dagli occhi dorati, aveva appena distrutto la sua ennesima scultura: non le venivano proprio.
Quella ragazza si chiamava Carhan, aveva diciotto anni, e come tutte le giovani adulte della sua città ci si aspettava che sapesse scolpire il ghiaccio alla perfezione, ma non era così.
Non aveva ereditato il grande talento dei genitori e ogni volta che toccava il ghiaccio, questo o si rompeva, o assumeva forme indefinite.
 
«Carhan! Com’è possibile che ti vengano tutte male?» le disse un uomo sulla cinquantina, alto e con folti capelli neri leggermente più lunghi sulla nuca, i baffi gli davano un’aria rigida ed austera, com’era infine il suo carattere, e i suoi occhi erano dorati come quelli della ragazza. Era suo padre venuto a farle l’ennesima ramanzina che lei non aveva la minima intenzione di ascoltare.
Uscì quindi dal negozio prima che lui le dicesse altro, magari ricordandole quanto sua madre avesse talento quando era ancora in vita. Pattinò a lungo, allontanandosi da quella città che aveva imparato ad odiare, in quanto non si sentiva parte di essa.
 
Girava tutto intorno a quelle maledette sculture di ghiaccio, e se qualcuno non era portato per farle veniva emarginato, proprio come lei. D’altronde la sua era una piccola città con idee molto piccole e limitate, cosa si poteva aspettare?
 
Arrivò come suo solito al confine con la foresta, ma quel giorno c’era qualcosa di diverso.
Carhan osservò attentamente e vide una sfera di luce scintillante avvicinarsi a lei, per poi tornare verso la foresta. La sfera fece quel movimento parecchie volte, era come se le stesse dicendo di seguirla.
 
Carhan sapeva di non dover andare nella foresta, che era molto pericoloso, ma la curiosità di sapere cosa fosse quella luce era troppo forte, così prese i suoi stivali dalla borsa a tracolla che portava sempre con sé e li sostituì ai pattini che aveva ai piedi, incamminandosi poi nella foresta seguendo quella strana luce.
Durante il tragitto il cappotto blu le s’impigliava continuamente nei vari rami degli alberi, così se lo tolse, restando in leggings lunghi neri, mentre sopra aveva un maglione intrecciato rosa antico che le lasciava scoperte le spalle. Dopotutto il freddo non le aveva mai dato fastidio.
 
Improvvisamente la luce si fermò ed assunse le sembianze di una donna, della quale Carhan non riusciva a vedere il volto a causa del bagliore intenso che emanava. La donna tese la mano verso di lei, e la corvina, trasportata da qualcosa che non poteva comprendere, la prese. Si ritrovò avvolta da quella luce calda ed avvolgente, si sentì invadere da emozioni che non aveva mai compreso, sensazioni che non aveva mai provato, ricordi che non aveva mai avuto e in quel momento riuscì a dire solo una cosa.
«Devo andare…li devo incontrare».
 
*
 
A sud del continente, invece, non vi erano troppe città, dato che la maggior parte del territorio era ornato dal temibile e arido deserto di Armain. Nella parte più centrale era praticamente impossibile scorgere una qualsivoglia presenza di vita, sia umana che animale, ma più ti spostavi a sud, e più aumentavano le zone abitate.
 
All'estremo sud vi era la capitale, Dramé, che nonostante ciò contava un ridottissimo numero di abitazioni. Le case erano semplici costruzioni in pietra tutte uguali tra loro, era praticamente impossibile vedere una qualsivoglia presenza di vegetazioni, dato che l'arido deserto giungeva a coprire anche la zona abitata, resa vivibile dalla presenza di numerosi laghi. La città di Dramé era famosa per il commercio di pietre preziose, estratte dalla grande miniera ad ovest della città, dove tutte le persone avevano trovato sicuro lavoro, e commerciandole potevano, così, acquistare i beni di prima necessità.
 
Non era, tuttavia, tagliata fuori dal resto del mondo. Al di fuori della città vi erano alcune stazioni di vari mezzi di trasporto magici, con i quali risultava facile spostarsi con rapidità a chiunque. Proprio nella miniera lavorava, insieme al padre e al fratello maggiore, un giovane ragazzo di ventuno anni, di nome Shou Z. Hikari. Era un tranquillissimo e pacato ragazzo, assolutamente nella media anche per quanto riguardava l'estetica, alto un metro e settantacinque con un fisico nella norma, ma irrobustito dal duro lavoro, e aveva dei bellissimi occhi azzurri. I capelli, castano chiaro e lisci, li portava lunghi e legati in una coda bassa. Purtroppo ancora non sapeva cosa il destino aveva scelto per lui.
 
Terminato il lavoro mattutino Shou uscì dalla miniera, ringraziando ogni divinità esistente che quel giorno avrebbero avuto il pomeriggio libero, e con il fratello e il padre si diresse a casa per darsi una sciacquata, dato che poco dopo pranzo aveva un importante appuntamento. Entrando vide la madre in cucina e preferì non distrarla, salendo a grandi falcate fino in camera sua. Gettò la tuta dal lavoro in un angolo della stanza ed entrò rapidamente in doccia, per uscirne, poco dopo, come nuovo. Dopo essersi asciugato i capelli indossò dei pantaloni in tessuto color nero pece e degli stivali in pelle fin sotto il ginocchio color cioccolato. Dopo un rapido sguardo all'armadio optò per una normale camicia bianca, lasciando scoperto parte del petto e mettendo così in mostra le numerose collane che aveva, e completò il tutto con una giacca con cerniera in pelle marrone scuro, con la zip tenuta completamente aperta che lasciava, in parte, intravedere numerosi braccialetti ad entrambi i polsi. Si legò i capelli con la sua consueta coda bassa, salutò rapidamente i genitori e il fratello seduti a tavola, ed uscì in strada.
 
Dopo aver camminato alcuni minuti si fermò davanti ad un negozio di cappelli, dato che aveva iniziato a tirare un tiepido vento e voleva bearsi di quel piccolo dono. Improvvisamente l'aria si fece gelida, non fece in tempo ad aprire gli occhi che una crepa sotto i suoi piedi lo risucchiò, per poi sparire come non fosse mai esistita.
 
Sentiva la sabbia intorno a lui, ma non lo stava soffocando, e non capiva il perché.
"Non può ucciderti, la sabbia fa parte anche di lui". Sentì una voce dentro la sua testa, senza capire cosa fosse o da dove provenisse. Percepì una fitta al petto e sentì che qualcosa in lui stava cambiando. Pochi istanti dopo la crepa si aprì nuovamente, facendo uscire il ragazzo inerme, e ancora una volta si richiuse come non si fosse mai aperta. Shou iniziò a pulirsi la sabbia di dosso, per poi voltarsi verso il negozio di cappelli ancora chiuso, e si perse ad ammirare alcuni di essi. In quel mentre giunse il proprietario per aprire il negozio.
«Shou! Ragazzo!» lo salutò.
«Ti piacciono i miei cappelli?».
Lui non rispose, limitandosi ad annuire.
«Se vuoi puoi prenderne uno! Devo un favore a tuo padre! A proposito salutamelo!».
«Certamente signor Kenway!» rispose sorridendo.
L'uomo annuì convinto per poi incamminarsi dentro il negozio, ma in realtà dentro di sé sentiva che qualcosa nel giovane era cambiato, ed infatti così era stato. L'odio, la rabbia e l'ira che albergavano in lui aumentarono a dismisura. Si sentiva cambiato, provava sensazioni ed aveva ricordi che era certo non gli appartenessero, e la cosa gli piaceva. Era come se il vecchio Shou fosse morto, per dare possibilità al nuovo di vivere. Non riusciva a spiegarsi cosa fosse successo, era come se quello che era diventato in quel momento fosse stato il ragazzo che ventuno anni fa era nato a Dramé. Sapeva cosa doveva fare, quasi fosse la sua unica missione.
 
Sorridendo si voltò verso il porta cappelli e ne prese uno in stile cow boy che si intonasse alla sua giacca, se lo calcò in testa e iniziò ad incamminarsi fuori dalla città, verso la prima stazione.
«È giunto il momento di incontrarci di nuovo» disse al vento.











Rieccoci qua con il Prologo!
Adesso i protagonisti sono arrivati ad un primo impatto con qualcosa di nuovo per loro, ma cosa gli succederà? Avrà risvolti positivi o negativi per loro?
Ringraziamo tutti quelli che stanno seguendo questa storia e chi ci ha lasciato un suo commento!
Alla prossima con il primo capitolo!


Carhan - Michiko - Shi - Shou


 
  
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