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Autore: viktoria    18/02/2014    2 recensioni
“Cittadini e soldati, siate un esercito solo! Ogni viltà è tradimento, ogni discordia è tradimento, ogni recriminazione è tradimento.”
Ogni nazione era convinta che la propria causa fosse giusta, si credeva minacciata da un perfido nemico bramoso di ucciderla, e pensava che soltanto la propria vittoria potesse salvare l'ordine morale nel mondo. I grandi sembravano tutti pronti a cambiare il mondo lasciandolo però nelle mani di soldati, di poveri uomini che partivano lasciando la propria casa, la propria famiglia, il proprio cuore. Questa è la storia di coloro che rimasero.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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Ero ferma immobile con le mani sul ventre rigonfio dinnanzi a quell’ammasso di cemento e ferro.

- Sarà una meravigliosa opera postmoderna.- aveva giurato il sindaco della città poco più di sei mesi prima dal balcone del suo palazzo in quella piccola città che contava solo mille trecentocinquanta anime.

Era un’opera postmoderna, era vero.

Un insieme di tralicci di ferro che volevano essere la rappresentazione di un uomo, un uomo che io non riuscivo proprio a vedere. Era un essere deforme, senza viso, senza arti, senza cuore. Come il sindaco. Come chi per lui quella statua l’aveva costruita.

Don Toni Salvemini aveva cinquanta anni, una bella moglie, una bella casa. Nessun figlio. Era ricco, ricco da fare schifo e non aveva dovuto subire ciò che avevamo subito noi.

- È con immenso cordoglio che oggi sono presente in questa sede e occupo il mio posto.- aveva detto il giorno dei funerali. La chiesa era gremita di gente, tutti visi silenziosi sfigurati dal dolore della perdita.

Eravamo un piccolo paesello di montagna. Avevamo sempre vissuto con la fatica delle nostre braccia. Avevamo visto crescere i nostri bambini. Li avevamo visti diventare uomini e lavorare. E adesso li vedevamo dentro delle bare. In legno di quercia economico, levigato male, chiuse con dei chiodi arrugginiti. In fila. Come soldati.

Ma lui cosa poteva saperne del cordoglio?

Don Toni Salvemini non aveva visto nessuno della sua famiglia andare via e non tornare più. Non aveva visto nessuno della sua famiglia andare via per sempre. Lui aveva soltanto salutato i giovani.

- Voi siete l’orgoglio di Aci Sant’Antonio.- aveva giurato stringendo ad ognuno di loro la mano.

Tutti loro, anche se riluttanti gli avevano stretto la mano. Tutti tranne uno. Sebastiano lo aveva guardato fiero in viso. Lui aveva studiato. Aveva le alte scuole. Non era un ragazzotto cresciuto in montagna come noi. La mano però non gliela diede quel giorno a Don Toni Salvemini.

- Sei un maleducato Sebastiano. Ma che fai non gli dai la mano al sindaco? Così ci fai vergognare Sebastiano!- lo aveva rimproverato Donna Agata quando si era avvicinato alla sua famiglia.

- Mamma, tu fai la donna che a fare l’uomo ci penso io.- aveva risposto Sebastiano sorridendole bonariamente e baciandole la fronte.

- Stai attento a fare troppo l’uomo al paese.- lo rimproverò lei sistemandogli ancora una volta la giacca di quel tessuto così resistente e verde.

Quel verde avevo cominciato a temerlo. Era un verde innaturale, era brutto, senza vita, senza espressione, senza sentimento. Come la statua che mi stava di fronte adesso. Era un verde morto. Probabilmente perché voleva essere un segno, un riconoscimento di quelli che erano i destini dei ragazzi, degli uomini, che indossavano quella giacca verde.

Il nero era l’unico colore che dominava la piazza quella domenica di dicembre. Tutta il paesino venuto a dare l’ultimo saluto ai suoi figli esibiva il nero del lutto. Le donne avevano coperto la testa con i veli domenicali, gli uomini avevano messo il vestito buono, quello per andare a messa. Perché quasi sicuramente c’era anche il loro figlio tra quei ragazzi quel giorno. Il loro fratello. Il loro sposo. Il loro padre. Avevo tenuto il viso basso fino a quel momento. Volevo davvero privarmi della possibilità di dirgli addio?

Incontrai per un attimo i suoi occhi neri su quel viso preso di sole. Anche lui mi stava guardando. Stava aspettando un mio gesto e quello gli bastò. Si avvicinò con passo sicuro di chi sa di essere superiore, tutti in città lo chiamavano il baroncello perché lui aveva studiato, aveva la scuola e si vedeva, era indifferente a mia madre che mi teneva stretta per il braccio e mi intimava di non muovermi che io e il baroncello di problemi gliene avevamo dati fin troppi, che lei ci aveva una sola figlia e ci teneva a maritarsela quella figlia, no che le rimaneva zitella dentro che il corredo già era pronto.

- Tornerò.- promise semplicemente Sebastiano afferrandomi il viso tra le mani e baciandomi con trasporto.

Furono quelle le ultime parole che mi disse. Rimase a guardarmi negli occhi per un attimo prima che lo chiamassero sull’auto che era venuta a prenderli. Era verde anche quella, come le loro uniformi.

Le donne avevano sfoderato i fazzoletti e li sventolavano, gli uomini avevano tolto i capelli e avevano piegato il capo in segno di saluto e di lutto.

Stavano partendo in ventisei.

Quanti di quei ragazzi sarebbero tornati?

 

Quando arrivarono le prime notizie dal paese si cominciarono a contare i primi morti.

Quella mattina di Gennaio il corriere era arrivato presto e si era fermato in quattro case. Sapevamo tutti che quella busta marrone del ministero, scritta in quell’italiano difficile che solo il prete poteva leggere, non erano buone notizie. Però dal prete per farsela leggere quella lettera ci andarono tutti comunque.

Don Ciccio Ruggiero, Don Calogero Gennaro, Don Salvo Triosi e Don Carmelo Annunziato. Erano davanti alla porta del curato mentre io scendevo alla fontana a lavare i panni col mio cesto di vimini in mano, le lenzuola e la cenere. Loro avevano il capello in mano mentre Padre Salvatore andava ad aprire la porta e si passava la mano sul viso. Era la disperazione quella che aveva sul viso. Mi voltai di scatto a quell’immagine i pietà che mi spezzava il cuore e camminai più velocemente per arrivare alla fontana dove le mie coetanee stavano già dandosi da fare.

- Lucia, ma com’è che sei sempre in ritardo?- scherzarono le mie compagne tra una canzone e l’altra mentre davano di gomito per lavare le lenzuola.

- Ma lassila stari a carusa, ca ci avi i soi problemi già, mischinedda.- (*ma lasciatela stare la ragazza che ha già i suoi problemi poverina) la rimproverò Donna Concetta.

Anche lei in realtà era nostre coetanea. Aveva solo qualche anno in più ma suo padre l’aveva data in moglie al suo quattordicesimo compleanno e adesso era già in attesa del terzo figlio.

- Sono arrivate le prime lettere.- le informai posando il mio cestino sul bordo e alzandomi le maniche del vestito.

- Lo sappiamo, stamattina abbiamo visto il corriere che le lasciava a Don Ciccio e a Don Calogero.- mi rispose una di loro ancora piegata quasi dentro l’acqua.

- Donna Filumena non l’aveva manco aperta ca già chianceva.-(*non l'aveva neanche aperta che già piangeva) rimbeccò un’altra sollevandosi e passandosi il dorso della mano sulla fronte per togliere il sudore che cominciava a crearsi sulla fronte lasciata scoperta dal fazzoletto bianco che ognuna di noi portava tra i capelli.

- Dite che sono morti?- domandai ingenuamente io mettendomi in ginocchio e prendendo il primo indumento.

- Ca cetto ca su motti. Ma pattri rici ca tanto nun tonnunu chiui.- (*ma certo che sono morti. mio padre dice che tanto non tornano più) chiarì subito una delle ragazza di cui da quella posizione non riuscivo a vedere il viso. Tutte annuirono.

- E macari ca tonnunu t’u maggini cana visti sti poveri carusi?- (*e anche se tornassero te lo immagini cosa hanno visto quei poveri ragazzi) rispose Donna Concetta annacando il bambino che teneva in braccio.

In realtà lo sapevo da me che quelle lettere una cosa sola potevano voler dire.

Il ministero non si sforza a scrivere a noi poveracci solo per farci sapere che i nostri figli sono arrivati. Loro sono solo carne da cannone. Sono stati mandati a morire.

- Sebastiano è intelligente, vedrete che tornerà.- mormorai io più a me stessa che a loro.

Le mie compagne non osavano rispondere.

L’avevano vista tutti la scena in piazza. Tutto il paese era presente. Era stata una promessa di matrimonio perché mio padre, se al suo ritorno, qualora fosse tornato, non m’avesse sposato, l’avrebbe ammazzato lui stesso con le sue mani. Che adesso l’unica cosa che potevo fare io era andare in città perché tanto lì nessun gentiluomo mi avrebbe sposata.

- Papà, ma io lo amo.-

- L’amore, Lucia, non la sfama la casa!- aveva gridato mio padre mentre mi rimproverava per il mio increscioso comportamento.

Ma a me non era mai importato. Io al "baroncello" avevo dato già tutto. Non solo il mio cuore. Quello ancora la mia famiglia non lo sapeva, era l'unico motivo per cui ancora condividevo la loro casa e il loro rifugio.

 

La cerimonia nella piazza era terminata. Molti erano già andati via perchè guardare quell'opera non faceva altro che ricordare gli orrori della guerra, la deformità dei giovani che erano tornati. Alcuni senza una gamba, alcuni senza una mano, Antonio cieco. Lui però almeno era tornato. Era subito venuto a casa mia appena il camion lo aveva lasciato sulla pizza. Quante volte aveva percorso quella strada lui, il povero orfanello cresciuto con me e con Sebastiano, io lo coccolavo quasi fosse la mia bambola, Sebastiano gli aveva insiegnato a leggere e scrivere. Lui era sempre stato grato della nostra amicizia. Quando bussò alla porta mi alzai di scatto con il cuore in gola.

- Nun ti pigghiari i scantu ca tantu nun ta cunsignunu a tia a busta...- (*non ti prendere di paura che tanto la busta non la consegnano a te) mi aveva ricordato poco gentilmente mio padre, ricordandomi che io per Sebastiano non ero nulla, solo una donna facile agli occhi della casa e del paese.

Lui stesso andò ad aprire e si trovò dinnanzi il viso stravolto di quello che un tempo era stato un bel ragazzotto. I capelli erano tagliati completamente, una lunga cicatrice gli sformava il volto e gli occhi erano diventati vitrei.

- Antonio.- gridò quasi mio padre facendolo accomodare.

Mia madre intanto ci aveva raggiunti in cucina e si dovette trattenere per non gridare di orrore e pietà verso quel ragazzo che un tempo era stato bambino e che lei aveva visto diventare uomo. Lasciò immediatamente la stanza e seppi per certo che era andare a piangere in un'altra stanza.

Piangeva per gli orrori della guerra, per gli uomini che erano morti e anche per quelli ritenuti fortunati che erano tornati ma che non avrebbero più avuto la loro vita.

- Scusatemi se sono venuto qui, non è mia intenzione disturbarvi Don Angelo, volevo parlare con Lucia se non vi spiace.- intervenne subito il giovane guardando un punto fisso, immobile davanti a lui.

- Com'è successo?- domandò mio padre come se non avesse nemmeno sentito quello che aveva domandato il ragazzo.

- Una granata.- rispose quello senza dilungarsi nei particolari. Sembrava che i ricordi nella sua mente, quelli li vedesse benissimo anche senza bisogno degli occhi. Rabbrividì e io abbassai lo sguardo per non vederlo soffrire solo al ricordo.

- Mi spiace ragazzo.- mormorò mio padre. -però sei vivo.- costatò dandogli una pacca affettuosa sulla spalla.

Era la risposta di tutti a quel male. Ogni volta che un ragazzo tornava, storpio, segnato nell'animo, annullato nella sua dignità di essere umano, quelli che erano rimasti mormoravano: “almeno è vivo.”

probabilmente Sebastiano avrebbe preferito morire da eroe che tornare in condizioni simili. Sperai che il desiderio di rivedermi e di mantenere fede alla promessa fattami lo spingesse ad accettare anche una simile situazione.

Antonio lo aveva fatto.

- Meglio morto signore.- ammise il ragazzo come se quelle parole gli costassero la vita. Eppure capivo benissimo che non scherzava, affatto. -piuttosto che veder morire i propri fratelli in una guerra inutile.- concluse come se delle ulteriori spiegazioni fossero da parte sua doverose.

Rimanemmo tutti in silenzio. Nessuno prese la parola per un tempo che mi sembrò davvero molto lungo.

Evidentemente mi sbagliavo. Se avesse potuto scegliere non avrebbe scelto me. Dopo tutti questi terribili pensieri che mi affollavano la mente, alla fine Antonio tornò a riformulare la sua richiesta di poter parlare con me.

 

Una mano grande, calda e rassicurante mi si posò sulla schiena e applicò una leggera pressione per svegliarmi dal mio sogno. Dai miei ricordi. Sospirai e asciugai con le dita due lacrime che era sfuggite al mio controllo degli ultimi mesi. Avevano patito molto, eppure, ogni tanto, anche loro cedevano.

La piazza si era svuotata quasi del tutto ma non potevo fare a meno di guardare quel gigante cattivo in ferro.

- Stai bene?- domandò con premura l'uomo al mio fianco.

- Sì, sto bene.- risposi come sempre. Quella risposta era diventata parte di me perchè altro non c'era che espremesse in modo migliore quello che le persone volevano realmente sentire da me.

Sì, Lucia Alì in Salluzio stava bene.

Sposina da poco con un giovane reduce di guerra, in attesa già del primo figlio, miracolo di quella guerra, padrona di una casa invidiabile che il sindaco aveva donato a quei pochi ragazzi che erano riusciti a tornare, vivi, alle loro case e alla loro famiglia.

Gli occhi vitrei di mio marito si posarono su di me e mi bloccarono il respiro. Perchè quegli occhi che non potevano vedere credevo spesso che potessero realmente leggermi dentro. Credevo realmente che spesso quell'uomo conoscesse i miei pensieri più profondi ed intimi.

Quella sera a casa mia, quando aveva chiesto la mia mano, Antonio era sembrato sicuro e convinto della sua scelta.

- Ma Sebastiano...- avevo cercato di protestare io.

- Sebastiano mi ha chiesto di farlo, Lucia.- aveva risposto lui come se la scena della piazza non gli importasse. Come se quella non fosse stata una promessa di nozze ma solo una promessa di trovarmi un buon partito durante la guerra.

- Io non posso accettare senza avvertirti che io e lui ci siamo amati.- ammisi. Eravamo rimasti ormai soli nella stanza ed io ero ancora impegnata nei miei lavori di rammendo. Mi pagavano poco per farlo ma in quel momento anche quei pochi soldi erano sempre guadagnati e ben accetti. Antonio non aveva fatto una sola smorfia alla notizia come se in realtà lui lo sapesse già.

- Spesso?- domandò come se avesse importanza. Io arrossii. Mi sentii fortunata a non poter essere vista. Lo sentii sospirare. Come se fosse amareggiato dal non poter vedere la mia reazione, come se fosse desideroso di tornare alla luce dopo le tenebre.

- Una volta.- risposi presa dallo sconforto di vederlo in quel modo. Piccolo sembrava, nonostante la sua grande statura, piccolo e bisognoso d'affetto.

- Siete in attesa?- chiese di nuovo riferendosi non solo a me ma a tutta la mia famiglia. Mi stava chiedendo se fossi già rovinata?

Sorrisi appena e feci spallucce come se potesse vedermi, poi chiusi gli occhi e risposi anche a parole per rendere comprensibile anche a lui la mia strana risposta.

- Non saprei.-

lui si allungò verso la mia voce e posò la mano sul tavolo invitandomi con un gesto a prenderla. Allungai la mia e la posai nella sua. Era dura, più di quella di mio padre. Chissà cosa aveva fatto quella mano.

- Posso prendermi cura di te Lucia, e anche del figlio che potresti aspettare.- mi rassicurò lui con assoluta gentilezza. Era il massimo che potessi aspettarmi da un uomo dopo aver ammesso di essere una ragazza senza virtù.

Neanche la mia dote, piuttosto interessante, mi avrebbe salvata dalla solitudine adesso che ero una figlia perduta.

- Se ti sposerò nessuno saprebbe che non è tuo.- sussurrai io come se in realtà non stessi parlando con lui. In realtà avrei dovuto anche consumare con lui le nozze quindi neanche io l'avrei mai saputo.

- Lo so.- rispose quello. Il viso si aprì in un sorriso tirato che mi strinse il cuore. -vuoi sposarmi?- mi domandò dopo un attimo.

- No.- quella volta la mia risposta fu secca, anche un po' brutale.

Io nel mio amore per Sebastiano ci credevo. Ci credevo davvero molto.

Poi il tempo aveva cominciato a passare.

Io non potevo più negare a me stessa di aspettare un figlio. Mio padre non poteva perdere l'ultima opportunità di maritarsi sua figlia.

- Devi scegliere Lucia.- mi aveva avvisato una sera, a cena. Mia madre seduta alla sua destra e Antonio alla sua sinistra al mio fianco.

- Cosa dovrei scegliere?- domandai io senza essere capace di toccare cibo, giocherellavo col piatto come se quello potesse mettermi appetito.

- Preferisci partire per Buccheri e rimanere nel convento delle suore adoratrici finchè il bambino non nascerà e allora lo abbandonerai lì, oppure preferisci prendere il medicamento che Donna Annunciatrice ci ha fatto avere?- la forchetta mi cadde di mano e mi sentii profondamente male.

Mi stava chiedendo se preferissi chiudermi nove mesi in un convento di clausura e abbandonare poi il mio bambino o se preferissi ucciderlo con i veleni della megera del paese.

- Non sono interessata e nessuna delle due scelte...- risposi io con un filo di voce.

- Non puoi farlo! Non puoi rovinarci tutti!- gridò mio padre scattando in piedi.

- Mandami via di casa allora.- gli consigliai silenziosamente con gli occhi lucidi, stavo discutendo del mio allontanamento da casa.

- Cos'altro vorresti fare?- domandò mio padre sempre più alterato.

- Crescerò da sola il mio bambino.- risposi tranquillamente riprendendo silenziosamente la forchetta che avevo lasciato cadere.

- Sposami.- sussurrò Antonio al mio fianco.

Se prima, nonostante tutto, mia madre aveva continuato a mangiare, adesso si era bloccata. La stanza era sprofondata in un silenzio tombale e i miei genitori guardavano il “salvatore” della loro bambina.

- Hai chiesto la mano di mia figlia?- domandò mio padre stravolto.

- Sì.- rispose Antonio spostando il viso verso mio padre come se lo potesse vedere.

- Anche se è perduta?- chiese mia madre sull'orlo delle lacrime.

- Il governo mi ha dato una casa a Catania, e una rendita cospicua. Se dovessi sposarmi si occuperebbero dell'educazione della prole.- ci informò. A mio padre tuttavia non importava affatto.

- Sì, ti concedo la mano di mia figlia e tutta la sua dote Antonio. Ti chiedo solo di sposarla il prima possibile.- impose mio padre alzandosi.

Antonio lo seguì e si strinsero la mano. Ero appena stata venduta al miglior offerente.

 

Due anni dopo vivevo a Catania con un marito presente e attento, avevo uno splendido bambino che avevamo chiamato Emanuele, come il re e come Gesù, e aspettavo il mio secondo figlio. La guerra era finita e la pace, se non la ricchezza, erano tornate in Italia. Ad Aci Sant'Antonio dei ragazzi partiti in guerra ne erano tornati solo dodici. Dodici su cento dodici. Sebastiano non era mai più tornato. Lo avevo aspettato, nonostante fossi diventata una donna sposata e rispettabile, lo cercavo ancora nei perfetti lineamenti del mio bambino. La vita continuava, io ero innamorata dell'uomo che mi aveva salvata dalla strada e che mi aveva concesso di poter crescere mio figlio nel modo migliore desiderabile, ero innamorata del figlio bastardo che lui aveva riconosciuto, ero innamorata del piccolo bimbo che mi cresceva in grembo. Ero innamorata della vita. E pregavo.

Pregavo perchè un giorno Sebastiano tornasse a casa, non per stare con me, ma per sapere che stava bene, che dopo tutto la guerra non aveva fatto di lui solo cenere.

Pregavo perché benchè non l'avessi sposato Sebastiano rimaneva comunque parte del mio cuore e della mia anima.

Pregavo perché in cuor mio sapevo che la guerra non faceva prigionieri.

  
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