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Autore: EsterElle    22/02/2014    1 recensioni
Nella terra di Cadmow tutto sta per cambiare. L’armonia che vi ha sempre regnato, l’equilibrio voluto da Dira, la perfetta partizione di un potere enorme: ogni cosa è destinata ad essere sconvolta. Sconvolta, per rinascere a nuova vita.
Ambizione, tradimento, menzogne e segreti; un velo cupo si stende sulla storia delle quattro Regioni. A districarsi tra le torbide acque del mare in tempesta sono due ragazzi, destinati ad essere nemici, entrambi simboli del cambiamento.
Come salvarsi dal crollo di una civiltà? Come sanare un mondo destinato alla rovina?
“Noi siamo Guardiani per volere di Dira e Dira ha fatto si che, per millenni, quattro Guardiani proteggessero il suo popolo. Questa è la Grande Magia, questa è la Sua volontà. Chi sei tu per sovvertire le leggi della natura?”
Genere: Fantasy, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 3
Esplorazioni


 
“Ahia!” gridò una voce limpida di bambina.
Dima osservò quanto il grande viale del Palazzo d’Inverno fosse affollato, quella mattina: una decina di soldati in uniforme, quattro Consiglieri in tonaca viola, un uomo calvo vestito di uno sfavillante abito blu notte, e parecchi valletti e domestici, tutti rigorosamente abbigliati secondo i colori del loro signore. E poi, quasi nascosta dietro la figura massiccia di una cameriera, c’era una bambina. Una bambina piuttosto arrabbiata, a dir la verità.
“Mi hai fatto male!” disse, guardando Dima con i suoi grandi occhioni grigi, mentre mostrava un bottone d’argento.
Dima ebbe giusto il tempo di farle la linguaccia, prima che l’uomo calvo si parasse proprio davanti a lui, coprendogli la visuale.
“Mio caro ragazzo, benvenuto! Di certo sarai molto stanco; è stato un viaggio lungo e ricco di non poche sorprese. Seguimi all’interno e troveremo una bella stanza dove farti riposare” disse, con un gran sorriso, non facendo cenno alle parole, cariche di rabbia, pronunciate dal bambino pochi momenti prima.
“Finalmente qualcuno gentile” mormorò il ragazzo a mezza voce, più calmo, mentre lasciava che l’uomo vestito di blu gli cingesse le spalle con un braccio e lo guidasse in direzione del Palazzo.
Di certo Dima non aveva iniziato con il piede giusto quella sua nuova vita: esprimere così chiaramente i suoi sentimenti verso tutti i presenti era stato un gesto un po’ avventato, dato che, a partire da quel momento, il suo futuro era nelle loro mani. Ma il ragazzo era furbo e decise di mostrarsi come un bambino piacevole e simpatico, per porre rimedio alla gaffe.
“Io mi chiamo Dimitar, e tu?” chiese al suo accompagnatore, lanciandogli il più innocente degli sguardi.
“Goddars, mio piccolo amico. Ma tutti, qui, mi chiamano Supremo” rispose quello, sorridendo.
“È un bel nome -Supremo- ” replicò Dima, facendo mostra di tutte le carinerie apprese dalla zia di Teppe, Laurine, in un umido pomeriggio di qualche anno prima.
Il Supremo rise di gusto alle parole del bambino.
“No, Dimitar, il mio nome non è Supremo. Io sono il Supremo, cioè la massima autorità del Gran Consiglio, colui che rappresenta tutte le Regioni in maniera imparziale” spiegò l’uomo, mentre attraversavano un bellissimo Giardino d’Inverno.
“Ah. Ma tutte queste persone devono venire con noi?” chiese Dima, cambiando improvvisamente discorso e guardando oltre la sua spalla il corteo di Consiglieri e domestici.
-Chissà che fine ha fatto quella bambina- pensava, cercandola con gli occhi tra le cameriere.
“Non li vorrai lasciare fuori al freddo” rispose conciliante il Supremo.
“Freddo? Ma qui non fa affatto freddo!” constatò il bambino, osservando i suoi piedi nudi procedere sul sentiero lastricato completamente ghiacciato.
“Per te, forse. Ma ti assicuro che noi tutti non vediamo l’ora di un bel fuoco caldo e solide mura” rise ancora l’uomo.
Arrivarono davanti all’ennesimo portone, che alcuni uomini aprirono con grande sforzo. Infine, entrarono nell’atrio di quell’immenso palazzo di ghiaccio e pietra e gli occhi di Dima si persero nel contemplare la grande cupola che si apriva sopra le loro teste. Di trasparente, solido e luminoso ghiaccio, ovviamente.
“Ma qui c’è solo ghiaccio! Prima o poi questo posto cadrà a pezzi, ve l’assicuro” disse, senza neanche accorgersene.
“Non finché Dira e il suo Guardiano veglieranno su di noi” rispose bonariamente il Supremo.
“Quindi finché ci sarò io, giusto?”
“Si e no, Dimitar, si e no. Ma ora non perdiamoci in questi discorsi noiosi. Se seguirai Bessie, ti condurrà alle stanze che ti sono state destinate e potrai riposare finché vorrai” disse l’uomo, sorridendo.
“Verranno anche i due vecchi della slitta?”.
Il Supremo rise nervosamente “I Consiglieri Estefan e Qwan si godranno anche loro un meritato riposo nei loro appartamenti”.
“Va bene. Quindi starò solo?”
“È un problema?”
“No! Non vedo l’ora” disse Dima con un sorriso largo e gioioso. Già progettava come sarebbe potuto fuggire dalla sua camera da letto; immaginava di esplorare il Palazzo da cima a fondo, di intascare uno di quei bei portafiori d’argento e magari fare scorte di dolci in cucina. Ma, prima, aveva ancora qualcosa da chiedere al Supremo.
“Posso chiederti una cosa prima di andare?” disse, abbassando la voce con fare cospiratorio.
“Certamente” acconsentì il Supremo, chinandosi all’altezza del bimbo, proprio davanti alla splendida scalinata principale.
“Prima di essere portato qui, mi sono impegnato con una promessa solenne. I Consiglieri vecchi dicono che dovrò infrangerla, ma io non voglio”
“Davvero un pessimo consiglio. Non ci auguriamo altro che un sovrano giusto e leale per la Regione del Nord: spero vivamente che tu coltivi questa aspirazione negli anni che verranno. Ma adesso dimmi, di cosa si tratta?” replicò, con un lungo giro di parole.
Dima colse la palla al balzo “Ho promesso al mio amico, Teppedore Gosh, che, se fossi stato scelto, l’avrei portato a Nenjaat con me. Anzi, no, a dir la verità non è andata proprio così… Lui ha promesso a me che mi avrebbe portato qui se lui, Teppe, fosse stato prescelto. Ma sono stato scelto io, quindi la promessa si ribalta, vero?”
“Un affare complicato, noto”
“Ma abbiamo giurato sul bottone rosso e blu, quello raro, con solo tre buchi! Come faccio a dirgli di no? Per favore, Supremo, fallo venire qui” supplicò Dima.
“Se è solo questo, caro ragazzo, vedremo di venirti in contro nel migliore dei modi” disse quello, dandogli una leggera pacca sulla spalla.
“Lo giuri?”
“Lo giuro”
“Su cosa?”
“Ti do la mia parola di Supremo, non basta?” rise di gusto l’uomo. “Ma adesso corri in camera tua. Ci vedremo di nuovo questo pomeriggio per chiacchierare un po’”.
Dima non era del tutto soddisfatto ma, non volendo risultare antipatico, decise di seguire la ragazza in divisa blu scuro e grembiule inamidato.
Camminarono a lungo: salirono e scesero scale lunghissime,percorsero corridoi ampi e traforati da alte ed eleganti finestre, attraversarono dieci e più atri e enormi saloni ariosi e pieni di candide tende mosse leggermente dal vento.
-Questo posto è un labirinto! Come farò a tornare indietro se vado in esplorazione? Mi servirebbe un altro uomo, un vice. Come vorrei avere Teppe già qui! Ma magari quella bambina ha voglia di giocare… glielo chiederò se riuscirò a trovarla!- pensava, mentre seguiva passo passo la ragazza.
Ad un certo punto Dima iniziò a domandarsi se non stessero scendendo nelle fondamenta di quell’antichissima costruzione e, proprio quando iniziava ad esserne convinto, la ragazza si fermò. Per poco il bambino non le finì addosso: lei era immobile davanti ad una modesta porta di legno chiaro, in un corridoio stretto e privo di finestre, ma profumatissimo.
“Eccoci arrivati, signorino” disse, prima di aprire la porta.
Dima, curioso come sempre, ficcò subito dentro la testa .
Restò a bocca aperta: mai si sarebbe aspettato di vedere quello che in realtà vide!
Un gruppo di donne dall’aria indaffarata si muoveva da una parte all’altra di un locale molto ampio, luminoso  per merito di una grande portafinestra  in vetro, lontana  rispetto a dove si trovava Dima. Le donne quasi non si accorsero del suo arrivo: alcune di loro erano affacciate su una grande vasca, le braccia calate nell’acqua fino ai gomiti e, con le dita rosse e scorticate, strofinavano un infinità di panni. C’era chi rammendava e chi rimestava la biancheria in un grosso secchio che bolliva pigramente sul fuoco, c’era chi riempiva cesti di panni umidi e puliti e chi si preparava ad uscire nel cortile. Un cortile davvero molto bello, pensò Dima: il bambino riuscì a sbirciare al di là della porta in vetro e vide un grande giardino dall’erba verde e due alberi di arance. Quel giardino era scavato nelle profondità del terreno e prendeva luce grazie ad una fantastica cupola. Dima non aveva mai visto nulla del genere!
“Ma che posto è questo?” chiese alla ragazza, mentre ancora si guardava intorno.
“Questa è la lavanderia del Palazzo” rispose quella, prendendolo per le spalle e guidandolo attraverso la stanza.
“E io cosa ci faccio qui? Il Supremo ha detto che dovevi accompagnarmi in camera mia, non a lavare i panni!”
“Nessun bambino sporco come voi è ammesso ai piani superiori, signorino”
“Quindi volete farmi il bagno?” chiese, inorridito, Dima.
“Esattamente” rispose la ragazza, senza riuscire a nascondere quanto questa piccola fobia del ragazzo la divertiva.
“Vi presento Frewa” disse ancora, indicando una donna dalle dimensioni mastodontiche china su un catino.
Quando sentì pronunciare il suo nome la donna si voltò verso di loro: aveva la pelle rossa e coriacea, due piccoli, acquosi, occhi azzurri e una bocca larga, che subito si aprì in un sorriso un po’ rigido, ma buono.
“Eccoti Bessie, appena in tempo! Stavo per riaccendere il fuoco, qui l’acqua si sta raffreddando in fretta. E tu, non sarai mica il nostro nuovo principino?” iniziò a domandare, cambiando spesso discorso in modo repentino.
“Invece si” disse semplicemente Dima, che ancora guardava con disgusto i vari pezzi di sapone bianco ammassati in un angolo della lavanderia.
“Per le sette bocche di Dira, guarda cosa mi tocca sentire! Quell’altra era molto più carina” disse quella, asciugandosi le mani bagnate sul grembiule umido.
“L’altra chi?” chiese subito il ragazzo, incuriosito.
“Niente, signorino, la vecchia Frewa non voleva offendervi!” disse precipitosamente Bessie, con voce stranamente acuta.
“Intendevi la bambina che ho visto questa mattina sul piazzale?” insistette Dima.
“Non parlo con bambini sporchi come te, non ti dirò altro finché io e Bessie non saremmo riuscite a renderti un vero damerino. Ora come ora sembri più un monello di periferia che il Signore del Nord”
Dima non ebbe il tempo per ribattere: con un guizzo veloce del braccio Bessie gli aveva già calato i pantaloni e la vecchia Frewa cercava di sfilargli la camicia con le grosse mani gonfie. Non aveva ancora del tutto realizzato qual che stava accadendo quando si ritrovò immerso nel catino d’acqua bollente. La mezz’ora che seguì fu tanto penosa per il povero ragazzo quanto indimenticabile per le due donne: urla, schizzi e maledizioni piovvero fuori dalla bocca e dalla vasca del bambino, mentre veniva insaponato, strofinato, strigliato fino a fargli diventare la pelle rossa e irritata. I tentativi di fuga furono innumerevoli, ma la vecchia Frewa aveva avuto parecchi figli e sapeva come trattare i ragazzi, anche quelli che, una volta adulti, sarebbero diventati i suoi signori e padroni.
Infine, stanche e fradice ma sorridenti, le due donne portarono un Dima estremamente imbronciato all’aperto, in cortile.
“Brutte streghe, volete farmi prendere una polmonite, adesso?” si lamentò lui, mentre stringeva a sé i morbidi asciugamani in cui era avvolto.
“Signorino Dima, voi siete il Signore del Nord, non avrete mai più freddo” disse Bessie, mentre gli strofinava i capelli e lanciava un occhiata incuriosita allo stano simbolo che il ragazzo aveva impresso sulla spalla destra.
“Oh, Frewa, guarda un po’ cosa abbiamo qui! L’avresti mai detto che sotto tutto quel fango c’erano morbidi riccioli castani? Sembrate proprio una bella pecorella, lo sapete?” disse ancora, mentre passava le dita gelate sulla testa del ragazzo.
“Un pecorone, caso mai! Giuro, in tutta la mia vita non ho mai visto un ragazzino fare tanti capricci per fare il bagno. Hai i pidocchi ragazzo?” rispose lei, brusca.
“No, la mamma ci controllava tutte le settimane” disse quello, ancora più scontroso.
“Sia ringraziato il buon cuore di Dira, che ci ha risparmiato un’epidemia di pidocchi a palazzo” replicò, alzando le braccia al cielo e afferrando con le sue manone quelle di Dima per pulirgli a fondo le unghie.
“Va bene che non sento freddo, ma non mi piace starmene qui fuori nudo come un verme. Dove sono i miei vestiti?” chiese il ragazzo dopo un po’.
“Bruciati” rispose semplicemente Frewa.
“Bruciati? E adesso come faccio ad andare in giro? La mamma me le darà di santa ragione quando lo verrà a sapere! Quanti guai che combinate, voi due!”
Le due donne si scambiarono un rapido sguardo, preoccupate; sapevano bene che il bambino non avrebbe mai più visto la madre né nessuno dei suoi vecchi compaesani. Essere scelto come Guardiano era un dono, tutti, a Cadmow, lo sapevano; eppure, spesso, sotto le pieghe dorate di una veste, tra i cibi prelibati di un banchetto e i morbidi cuscini di un letto caldo, si nascondevano i tratti di una vera e propria maledizione.
“State tranquillo, signorino, avrete i vestiti più belli di tutto il reame al posto dei vostri” disse Bessie, carezzandogli la fronte. Dima si beò di quel gesto materno, dolce e delicato, sconosciuto.
“Ne darete anche a Teppe quando arriverà? Perché lui è persino più sporco di me e forse ha anche i pidocchi” disse, ad occhi chiusi.
“E chi è questo Teppe?” chiese Frewa, distrattamente.
“Il mio migliore amico. Il Supremo lo porterà qui a giorni, mi ha dato la sua parola”
“Il tuo migliore amico ha i pidocchi? Povere noi! Mai che ci Dira ci mandi un bravo ragazzo di città!” replicò Frewa, roteando i piccoli occhi.
“Ma io non ne ho, lo giuro!”
Quando il ragazzo uscì dalla lavanderia, tutte le donne lasciarono il loro lavoro per ammirare l’opera della vecchia Frewa. Dima era irriconoscibile: il cespuglio sporco di ricci impastati di fango ora era una curata chioma di un morbido castano chiaro, in netto contrasto con gli occhi scuri e la carnagione rosea e sana. Le tracce di fango e sangue erano sparite dal volto e dalle mani e in cambio dei suoi vestiti laceri aveva ricevuto eleganti pantaloni in flanella blu scuro e una bella tunica ricamata sui toni del beige.  Per la prima volta in vita sua, Dima provava il piacere di indossare un paio di scarpe.
“Adesso, ragazzo, sembri proprio un signore” disse Frewa, mentre gli rassettava il colletto della tunica.
“Non è che me ne freghi molto” rispose quello, alzando le spalle e allontanando le mani della donna.
“Bisogna lavorare molto sui tuoi modi, però, mio caro. Ma, sia ringraziata Dira, questo non è compito mio” continuò quella, con voce tagliente.
“Ora, signorino, dovete seguirmi ai piani superiori” disse Bessie.
“Giuro che se mi porti in un’altra sala da bagno scappo!” mise le mani avanti il ragazzo.
“ Prometto che vi condurrò dritto nella vostra stanza, senza ulteriori deviazioni” ribatté lei, sorridendo.
Dima non aveva idea del piano, del corridoio o della torre in cui era collocata la porta davanti alla quale Bessie si fermò dopo l’ennesimo giro del Palazzo. Ma quando spalanco una delle doppie imposte in legno bianco  finemente intagliato, il suo sguardo si perse nella grande stanza che si apriva davanti a lui.
“Eccoci” disse semplicemente la ragazza.
“Questa è la mia stanza? Nel senso, è tutta per me?”
“Certo, signorino, è vostra per tutto il tempo in cui vi tratterrete al Palazzo” rispose lei, avanzando verso una grande porta finestra interamente oscurata dalla tende. Quando le spalancò, il tenue chiarore di quel giorno nevoso invase la stanza, e Dima corse a buttarsi sulle morbide coperte ammassate sul letto a baldacchino.
“Ma allora il capitano aveva proprio ragione, non mi volete portare in prigione!” disse, mentre si rotolava tra i cuscini.
“Che assurdità, signorino” rise Bessie, sedendo un momento al suo fianco.
“Questa è la casa più bella che potessi immaginare! Quando arriverà Teppe sarà tutto perfetto” continuò, rivolto alla ragazza.
“E ancora non avete assaggiato nessuna delle prelibatezze del cuoco di Palazzo. Vi farebbe proprio bene ingrassare un po’” sorrise quella, sviando abilmente la conversazione da un argomento delicato.
“Caspita, non vedo l’ora! Però c’è un’altra cosa che vorrei fare, prima di riposare” replicò, scendendo dal letto e piazzandosi di fronte alla ragazza.
“Dite, signorino, ed io vi aiuterò”
“Quando sono arrivato, questa mattina, ero così arrabbiato con i vecchi della slitta e col capitano Reeply che ho gettato il bottone d’argento che mi aveva regalato. Sai, quello è il simbolo del nostro patto! Ecco, adesso che so che non mi aveva mentito, lo rivorrei” spiegò Dima.
“Lo avete lanciato nel cortile?”
“Si”
“Allora lo faremo andare a prendere da uno dei garzoni del giardiniere e quando vi sarete svegliato lo troverete sul comodino” disse lei, scompigliandogli affettuosamente i capelli.
“In fondo, siete un bravo bambino” aggiunse, dolce.
“Però io sono quasi sicuro che, quando l’ho lanciato, la bambina che era con noi nel cortile lo ha raccolto. Perché non mi dici qual è la sua stanza, così posso andare a prenderlo?” continuò Dima, con una furba espressione innocente stampata sul volto.
“Signorino, non c’era nessuna bambina questa mattina. Vi sarete sicuramente sbagliato” rispose lei, sulla difensiva.
“Dai Bessie, non sono mica scemo! Ho undici anni, ormai, anche se qui siete tutti convinti che ne abbia solo dieci”
“Eravate molto stanco, e lo siete anche adesso. Dovete riposare per qualche ora, prima del pranzo” disse, spingendolo verso il letto.
“Non mi dici dov’è perché è la figlia di una domestica e io, che sono il Guardiano, non posso parlare con lei?” azzardò Dima.
“Esattamente” rispose quella, sorridendo nervosamente.
“Se è solo per questo, non devi preoccuparti! Fino a due giorni fa ero il figlio di un minatore poverissimo, e ladro, per di più”
“Basta, signorino, non c’è altro da dire. Voi dovete riposare, non giocare in giro per il Palazzo insieme ad altri bambini. No, basta, non voglio sentire nient’altro. Andate dritto sotto le coperte, da bravo” disse Bessie, sforzandosi di sembrare severa.
Dima, sconfitto, si arrese e si stese ubbidiente tra i grossi cuscini.
“Adesso vi lascio solo ma vi consiglio di non andarvene a spasso per i corridoi: vi perdereste di sicuro” sorrise Bessie, prima di rimboccargli una leggera coperta di cotone e uscire dalla stanza.
-Che silenzio- pensò Dima, poco dopo che la ragazza fu uscita. Era dal suo burrascoso viaggio in carrozzino che non aveva avuto modo di trascorrere qualche minuto in santa pace, solo con se stesso. Era tutto così strano, agli occhi del bambino: non solo non era più ad Imbris, l’unica realtà che avesse mai conosciuto, ma stava addirittura per diventare Guardiano del Nord.
-Guardiano del Nord!- scandì nella sua mente. Era un concetto tanto grande e sconvolgente che il bambino si ritrasse al solo pensiero. Non gli dispiaceva di diventare ricco, mangiare a volontà e vivere in un bellissimo Palazzo. Era però angosciato all’idea di dover prendere decisioni, lavorare, viaggiare, stare senza i suoi amici, lui, che non si era mai allontanato da Imbris in tutta la sua breve vita. Avrebbe dovuto leggere, scrivere, stare chino su una scrivania giorno e notte.
-Io vorrei solo poter giocare e godermi tutta questa ricchezza- si disse, guardando furori dalla finestra con desiderio.
Non sentiva nostalgia della sua famiglia. Di certo pensava a loro, a sua madre soprattutto, ma non avvertiva la loro mancanza. Era così bello non dover stare perennemente allerta, pronto a schivare lo schiaffo che era sempre in viaggio. A casa sua non c’era mai stato spazio per i bambini, le coccole, i giochi, l’affetto: tutto il suo mondo ruotava attorno agli umori del padre, della madre, dei fratelli e alla loro incessante, aberrante, povertà. Da quanto era partito, aveva incontrato tanti sconosciuti, era stato sballottato da un posto all’altro, era stato persino costretto a fare il bagno: tutto, però, era meglio della triste esistenza che conduceva con i suoi genitori.
-Magari, quando sarò un Guardiano a tutti gli effetti, potrò aiutare la mamma. Sono certo che le farebbe molto piacere non dover cucinare e pulire e lavare per tutti quegli uomini- ragionò, senza troppa tristezza. Per il momento, non aveva desiderio di ricongiungersi a loro.
-Uffa, ma quando arriverà Teppe? Di sicuro mi annoierò a stare tutto il tempo solo, qui dentro. Sono tutti così seri, anche se sono stati gentili a prendersi cura di me- si disse, agitandosi nel letto. Desiderava ardentemente la compagnia del suo amico e non solo per tener fede ad una bislacca promessa. Teppe era casa, era ciò che conosceva e amava; era il legame con la sua vecchia vita e il suo intero mondo, era quello che i suoi genitori e la sua famiglia non avrebbero mai potuto essere.
Pensare a Teppe lo portò a ricordare l’ultima volta che avevano giocato insieme, al fiume, e al vomito, al sangue, a quel fortissimo dolore alla spalla, al sogno incredibile che aveva fatto durante il temporale. Non si era mai voluto soffermare, neanche col pensiero, su quello che, a quanto gli avevano raccontato, era stato in grado di causare a casa sua. Lo spaventava l’idea di poter scatenare un potere tanto forte da provocare la morte di chi aveva accanto. Non avendo nessun ricordo di quell’episodio, però, non era difficile far finta che nulla fosse accaduto.
-Sono davvero curioso di vedere cosa ho sulla spalla. Tutti dicono di un simbolo; magari è un enorme drago che sputa fuoco, o il teschio della bandiera di un pirata. In fondo, sono il Guardiano! Adesso mi alzo e vado a controllare- si disse, incapace di domare quella curiosità che, tanto spesso, lo divora dall’interno.
 Così saltò giù dal letto e, a piedi nudi, fece il giro della stanza, alla ricerca di uno specchio; non trovando quello che cercava, iniziò ad aprire le belle porte che si affacciavano sulla camera. La prima a cui si avvicinò era decorata per metà con inserti di vetro smerigliato color lavanda; la spalancò, entusiasta, ma la richiuse immediatamente.
-Basta bagni!- pensò, imbronciandosi.
Ne aprì una seconda, finendo in un salottino accogliente, e una terza, che lo portò in un piccolo ambiente piuttosto buio, pieno di armadi, cassettoni, e specchi.
“Finalmente!” esultò.
Corse davanti alla bella specchiera che decorava un angolo della stanza e si sfilò con fatica la tunica. Il petto e la schiena erano puliti, ma né il bagno né la vecchia Frewa avevano potuto fare qualcosa per rimediare alla collezione di graffi, croste e lividi che fiorivano sulla sua pelle. Dima non vi fece caso e si giro di schiena, torcendo il collo all’indietro per osservare la pelle sotto la sua spalla destra. Intravide qualcosa, una sorta di disegno, spostato più verso il centro, tra le due spalle, che sotto la sola destra.
“Non riesco a capire. Ma che cos’è?” borbottò tra sé e sé mentre si contorceva davanti allo specchio.
Era tanto concentrato che non si accorse del leggero rumore della porta che si apriva e, delicatamente, veniva richiusa. Non sentì dei passi leggeri aggirarsi per la stanza e non vide una figuretta minuta affacciarsi nella stanza. Così, non poté fare a meno di sobbalzare quando questa parlò con voce chiara e forte:
“Ciao” disse.
Dima si voltò, spaventato, e incrociò gli occhi grigi della bambina.
“Ehi, ciao” rispose, sorpreso. “Cosa ci fai qui?” chiese subito.
“Volevo ridarti il tuo bottone. È molto bello”
“Caspita, grazie! Sai che me l’ha dato il capitano Reeply? L’ha tolto dalla sua divisa proprio davanti ai miei occhi” disse quello, vantandosi giusto un po’.
“No, non lo sapevo”
“Anche tu collezioni i bottoni?”
“No”
“Meglio, così non mi sento in dovere di regalartelo per ringraziarti!” disse Dima, con un gran sorriso.
“Tu avresti voglia di giocare con me? Presto arriverà il mio amico Teppe, ma nel frattempo possiamo passare un po’ di tempo insieme” propose subito, senza vergogna, senza peli sulla lingua, estremamente diretto.
“Ma quando arriverà il tuo amico io potrò continuare a giocare con voi? Qui è tutto così noioso!” disse lei, giocherellando con l’orlo di un grembiule bianco ricamato.
“Penso di si”
“Allora va bene” sorrise lei. “Tu come ti chiami?” chiese.
“Dimitar, ma mi chiamano così solo i grandi” 
“Allora io come ti devo chiamare?”
“Dima”
“Va bene. Io sono Elaisa Tomcure, piacere di conoscerti”
“Che nome terribile che hai!” disse lui, torcendo il naso.
“Che cosa?” replicò lei, sgranando gli occhi, sorpresa.
“Il tuo nome è proprio brutto” scandì Dima, come se parlasse con una bambina sorda. “È smielato, più di quello di tutte le altre femmine che conosco” aggiunse.
“Ma lo sai che sei proprio antipatico?” ribatté lei, acida.
“Ehi, non te la prendere, non ho detto nulla di male! Non è colpa tua se hai un nome così brutto”
“Ma la smetti?”
“Di fare cosa?”
“Di prendermi in giro! Peggio per te se il mio nome non ti piace, è così che mi dovrai chiamare”
“No, io ti chiamerò solo Elsa”
“Nemmeno per sogno!”
“Allora facciamo un patto: se vuoi giocare con noi, accetterai di farti chiamare Elsa. Ci stai?” disse Dima, tendendo la mano.
La bambina ci pensò un po’, in equilibrio su una gamba sola, ma infine annuì.
“Benvenuta nel gruppo, Elsa” sorrise il bambino, per poi sputare sul palmo della sua mano aperta.
“Che schifo!” urlò lei, facendo un passo indietro.
“Guarda che è così che si suggellano le promesse. Devi sputare anche tu sulla tua mano e poi dobbiamo stringercele” disse Dima, con l’aria di un esperto.
“Ma davvero? Allora facciamo un patto: io mi faccio chiamare Elsa solo se non mi obbligherai mai a sputare sulla mano” disse lei, scaltra.
Dima sentiva che c’era qualcosa di strano, in quella promessa, ma, in fondo, lei era una femmina e dalle femmine, si sa, ci si può aspettare di tutto.
“Va bene” disse lui, mogio, pulendosi la mano sui calzoni.
“Perché te ne stai in questo stanzino senza la camicia?” chiese quella, mentre si sedeva con grazia su una piccola poltroncina bianca e sistemava le pieghe della gonna.
“Perché tutti dicono che ho uno strano segno sulla spalla e volevo vederlo anch’io” rispose Dima, tornando davanti agli specchi.
“Ci sei riuscito?”
“No, è proprio al centro, non riesco a capire cos’è”
“Fammi vedere” disse lei, alzandosi e facendo voltare il bambino di spalle.
Lei posò le dita sottili sul piccolo disegno e trattenne rumorosamente il fiato.
“Che cos’è? Un drago? Un lupo che ulula alla luna?” chiese il bambino, emozionato.
“No, affatto. Vieni di là, dove c’è più luce?”
“Perché?”
“Perché così ti faccio vedere che simbolo è!”
“D’accordo” annuì Dima, curioso più che mai.
Seguì la bambina nella grande stanza da letto e poi davanti alla portafinestra .
“Ecco, lo vedi?” chiese la bambina.
Dima non ebbe bisogno delle indicazioni di Elsa per capire quello che lei intendeva mostrargli: sulla sua guancia sinistra, leggermente decentrato, c’era un disegno quasi traslucido, di un azzurro chiarissimo, ben visibile ad occhio nudo.
“Bhe, hai un cristallo di neve a metà disegnato sulla guancia. Cosa c’entra con la mia spalla?” disse, con leggero disprezzo.
“Certo che sei davvero un presuntuoso! Tu, sulla schiena, hai lo stesso identico simbolo” rispose lei, alzando il piccolo mento per aria.
“Non è vero!”
“Si che è vero!”
“Ma guarda che a me quel simbolo sulla spalla è venuto da solo, mica l’ho fatto incidere”
“E secondo te io sarei così scema da disegnarmi un fiocco di neve su una guancia di mia spontanea volontà?” ribatté Elsa, rispolverando il tono acido di poco prima.
“Perché io, che sono il futuro Guardiano del Nord, dovrei avere lo stesso simbolo di una cameriera?” disse Dima, arrabbiato.
“Cameriera a chi? Sei davvero insopportabile! E anche bugiardo! Tu non sei il futuro Guardiano del Nord” attaccò Elsa, mentre il suo volto, dalla carnagione chiarissima, si chiazzava di rosso.
“Invece si che lo sono! Io sono il Guardiano e se continuerai a farmi arrabbiare di rispedirò dritta in cucina”
“Ma sei proprio tardo, allora! Non sono una cameriera!” cantilenò la bambina, sempre più arrabbiata.
“Allora cosa ci fai qui?” urlò Dima, dandole uno spintone, come se, al posto di una ragazzina bassa e minuta, avesse avuto davanti uno dei monelli di Imbrs.
“Mi hanno portato qui i Consiglieri dell’Est perché io sono la futura Guardiana del Nord” strillò Elsa, con le lacrime agli occhi.
Il bambino non ebbe il tempo di ribattere: la porta della stanza venne spalancata e, con un turbinio di vesti blu notte, il Supremo irruppe nella camera, seguito da alcuni domestici.
“Eccola qui” disse, cercando di controllare l’affanno.
“Ma questa è la mia stanza!” protestò Dima, non appena ritrovò la voce, alla vista di quell’invasione.
“Signorinella, sbaglio o eravamo rimasti d’accordo che non ti saresti allontanata dai tuoi appartamenti?” chiese il Supremo, avvicinandosi ad Elsa e ignorando il bambino.
“Mi dispiace” disse lei, con un filo di voce, spaventata alla vista della rabbia che il Supremo mal controllava.
“Poco male, poco male” scandì l’uomo, mentre prendeva ampi respiri. “Avrei preferito rimandare questo momento il più possibile, ma sono ugualmente lieto che abbiate fatto la conoscenza l’uno dell’altro” continuò, cercando di ritrovare la calma usuale.
“Questa bambina è una bugiarda” si lamentò subito Dima.
“No, è lui il bugiardo! Dice di essere il Guardiano del Nord” ribatté Elsa, cercando di difendersi dalle accuse.
“Perché è vero! Supremo, lei non vuole ammettere di essere una cameriera” piagnucolò il ragazzo.
“Adesso smettetela di litigare come due bambini” intervenne l’uomo seccamente.
“Nessuno dei due dice il falso. La volontà di Dira è oscura all’uomo e non tocca ai mortali giudicare le sue scelte. Dimitar, Elaisa, stringetevi le mani e riportate la pace nei vostri cuori: da oggi le vostre strade si uniscono e solo Dira potrà separarle”.
 
 
 
 
 
 
Note
Finalmente (all’alba del capitolo 3!!) facciamo la conoscenza di Elsa, uno dei personaggi principali di questa storia! Non so se avete notato, ma ho un’insana passione per i dettagli insignificanti... se dovessi esagerare, non esitate a farmelo notare!! Spero che tutto risulti abbastanza chiaro, anche se molti particolari non sono ancora stati svelati; se dovessero esserci dubbi o domande, risponderò con molto piacere!
Grazie a chiunque leggerà questo capitolo!
EsterElle
  
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