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Autore: Rhona    25/02/2014    1 recensioni
[Storia in revisione grammaticale e stilistica, alcune volte con l'inserimento di scene di passaggio e simili. Pubblicazione nuovi capitoli ancora in corso, ma a rilento.]
I romani: un popolo colto, erudito, padrone del mediterraneo ed oltre. Potenti uomini conquistatori che non esitano a commettere genocidi in onore di Roma, capitale del mondo intero.
I barbari: guerrieri, selvaggi, forse anche cannibali, che combattono per la loro terra, ma per difenderla, non per ampliarla.
E poi c'è lei. Chi è lei? Non è barbara, ma si oppone a chi la chiama romana... Non è romana, ma si arrabbia se la si chiama selvaggia...
Romani contro barbari: non è la guerra di due popoli; è lo scontro di due mondi opposti eppure tanto vicini.
**** Attenzione: il rating e gli avvertimenti potrebbero cambiare.
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
Capitoli:
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Le persone raffigurate sono solo semplici prestavolto, senza alcun collegamento
con idee, opinioni e/o azioni con i personaggi descritti nella storia.


 






Capitolo III


  

QUINDICI GIORNI DOPO

ROMA

 
 
Marco Giulio Flaviano fece ritorno a Roma due settimane dopo la disastrosa battaglia. Già dalle possenti mura si sentì in colpa, pensando alla grandezza e alla magnificenza della Roma che aveva tanto facilmente deluso. E sapeva bene che Roma non perdonava i falliti. I sassoni, alleati degli svevi, li avevano praticamente trucidati. Aveva sentito molte voci sulla loro famigerata belligeranza, ma quello che aveva vissuto era praticamente un’ incubo. Aveva perso due terzi del suo esercito...  il “suo”era un eufemismo: quello che gli avevano affidato i senatori. Aveva una tremenda paura di essere visto come una disgrazia per la sua famiglia. Aveva perso anche Demetrio, il suo servitore fidato. Oh, si, anche la puttana: ma poteva facilmente procurarsene un’altra, magari non incinta. Infondo era felice e sollevato di essersi liberato di Cecilia, che avrebbe gettato disonore su tutti se avesse dichiarato che il padre del bambino era lui. Discendente da una famiglia di alto lignaggio, Marco era stato designato per ricacciare le popolazione romane stanziate più vicine al confine. Fra di queste c’erano gli svevi, sfortunatamente alleati dei sassoni. E la tribù sassone che li aveva sconfitti era capeggiata da Vaughan. Si sentiva parlare di lui, lungo il confine. Era un figlio di povera gente, forte come un orso e spietato come pochi, che era finito per essere tanto forte e autoritario, da essere eletto capo dalla tribù, alla morte del precedente. Si fece forza, percorrendo a piedi la strada che portava al foro. Aveva appuntamento con il senatore Titurio, era lui che gli aveva dato sostegno con l’imperatore. Pur essendo senatore, suo padre non era abbastanza influente da poter incidere sulle decisioni dell’imperatore; a quel punto allora era servito l’appoggio del senatore che, fra tutti, aveva più influenza sull’imperatore: quell’uomo era Titurio. Era un uomo di età avanzata, basso e dai capelli canuti, con una volontà ferrea e un modo di fare e parlare che avrebbe messo in soggezione anche lo stesso imperatore. Ma anche l’ Imperatore Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto non era facile da ammaestrare: “un filosofo non cambia idea facilmente, ed un imperatore filosofo non può essere diverso” diceva suo padre.  Titurio  era un amico di vecchia data dell’imperatore (conosciuto nell’esercito, quando Marco Aurelio era solo un giovane comandante figlio adottivo di Antonino Pio) ed ancor più di Lucio Vero, l’uomo che affiancava Marco Aurelio nelle decisioni di Stato. Al centro del foro c’era un oratore piuttosto convincente che teneva un discorso sulle ingiustizie compiute da un senatore, a quanto poteva capire, ma non se ne curò molto. Arrivò sotto il portico e cominciò a passarlo in rassegna alla ricerca del suo uomo. Le statue marmoree dipinte con quei vividi colori sembravano prendere vita. Erano molte le persone che, fermandosi ad ammirarle, cominciavano a discutere fra loro delle imprese o dei prodigi dell’eroe, del dio o dell’importante personaggio a cui era dedicata la statua. In uno di quei gruppi intravide Iolanda Quintilia, la bella figlia del senatore Quintilio. Annoiata aveva portato la candida mano sulla guancia morbida, appoggiandosi. Annuiva sorridente all’uomo che le parlava, ma sembrava pensare ad altro. Marco ci aveva parlato diverse volte, visto che suo padre era un senatore della stessa compagine del suo. Lei, probabilmente notandolo, assunse un sorrisetto malizioso e irriverente, scostò la mano e mostrò le labbra socchiuse e tinte di rosso. Sugli occhi aveva una polverella colorata, ma Marco non ricordava il nome; ricordava solo che lo metteva anche sua madre. Aveva una veste ricca, come si addiceva ad una giovane donna in età da marito. Marco, di tanto in tanto, la osservava mentre giocava a palla con le sue amiche, alle terme. Era sensuale e vederla sudata e con la pelle madida gli faceva venire in mente altre idee, poco carine da esprimere con una nobildonna. Le rivolse un cenno della mano e lei rispose con un leggero inchino della testa, per poi continuare a sorridere maliziosa, con la mano sotto il mento, dando l’impressione di ascoltare l’uomo nella sua improvvisata e soporifera lezione sulla dea Demetra. Da lontano lo sentiva parlare: «Anche Cicerone parlò di Cerere, sapete? Fu al processo contro Verre, quando...» doveva essere “molto interessante”... Le sorrise e passò oltre. La gelosia non lo sfiorò neppure: quel babbeo non aveva la minima possibilità. Continuò a camminare, con lunghe falcate che suddividevano il lungo porticato. Ad un tratto intravide fra la gente che parlava il senatore Titurio. Armatosi di coraggio, lo raggiunse. Si asciugò le mani sudate sulla tunica leggera dell’estate. «Buon giorno, senatore.» gli si rivolse per primo, con un leggero cenno del capo.
«È un buon giorno davvero, Giulio Flaviano.» rispose ambiguo, con quell’espressione che a Marco non piaceva affatto. «Un uccellino, un po’ di tempo fa, mi disse che le truppe romane erano state massacrate ed eliminate in battaglia contro gli svevi. Ora voglio sperare che quell’uccellino non stesse parlando delle truppe che io ho convinto l’imperatore a concederti.»
«Senatore, nonostante la situazione del tutto critica, sono riuscito a salvare un ter...» il senatore lo interruppe con un cenno della mano. «Non ci sono scusanti. Tu mi avevi assicurato una grandiosa strategia di guerra, come mai se n’erano viste per eliminare il problema dei germani alla radice, ma a quanto pare sono stati gli svevi ad eliminare alla radice le nostre truppe! Marco Aurelio girava per la sua villa sbattendo la testa contro i muri, quando gliel’ho detto! Io sono da sempre stato un caro amico della tua famiglia, ma sono soprattutto un uomo influente, Giulio Flaviano, molto influente. E così come posso convincere l’imperatore a darvi le nostre migliori truppe, posso convincerlo a staccarvi la testa e ad infilzarla su una qualsiasi di quelle picche!» disse indicando i rostri, da dove, tante di quelle volte nella storia di Roma, erano state esposte le teste mozzate dei nemici della patria, ancora gocciolanti di sangue.
Lui sospirò. «Non gli svevi: i loro alleati.»
«Quali?» sembrava scettico.
«I sassoni.»
«Roma non teme né gli uni né gli altri.» proclamò, ma poi si corresse «Un buon generale, lui si che non temerebbe né gli uni né gli altri, ma a quanto pare il nostro generale non si è rivelato essere così buono. Vattene e trovati un altro modo per occupare il tempo, invece di perdere guerre. Puoi scordarti che io interceda per te ancora una volta con l’imperatore. Mi hai deluso enormemente Giulio Flaviano. Enormemente.  Hai gettato fango su Roma, e tutta Roma sa che io ho favorito te agli altri candidati per condurre la guerra. Se vorrai condurre di nuovo un’impresa, ti conviene cambiare nome, aspettando che io muoia.» detto questo se ne andò, senza aggiungere altro. “Roma non teme i barbari?” pensò Marco. “No, Roma ne ha un terrore immenso.”
 

 
 
Maximus giocava a rincorrere i suoi fratelli per la strada polverosa della periferia romana. Il fratello Menio non era molto veloce, e per Maximus fu facile raggiungerlo. Maximus era il più piccolo di cinque figli. Menio aveva un anno in più. Ancora prima c’erano Gaio, Gneo e Lucius. Lucius era il più forte e Maximus avrebbe voluto essere come lui, più di qualsiasi altra cosa; ma Maximus aveva solo tre anni, ed era presto per lui per pensare al futuro. Per il momento correva lungo le strade della Suburra, cercando di acciuffare anche Gaio, che era il più veloce fra loro tre. Maximus aveva anche due sorelle: Aemilia e Livia, entrambe più grandi li lui, Livia stava per sposarsi, mentre Aemilia lo era già da due anni, e aveva due figli dell’età di Maximus. Inutile dire che Maximus era rimasto un po’ deluso, sapendo che non sarebbe stato chiamato “zio Maximus”. Era una frase che lo faceva sentire grande, e Maximus voleva diventare grande il più presto possibile. Correndo si scontrò contro un paio di ricconi... ma non si fermava mai a chiedere scusa a quegli stessi che se ne stavano ridendo e scherzando, vedendo uno dei tanti incendi quotidiani prendere piede, di palazzo in palazzo, in una zona periferica qualsiasi. Sapeva che nella Suburra era nato anche Giulio Cesare: “È  un quartiere promettente!” diceva suo padre. Quando gli chiedevano cosa volesse fare da grande lui rispondeva intrepido: «Voglio conquistare la Gallia!» poi gli avevano detto che i galli erano stati conquistati... e la sua attenzione si era spostata sui germani. “I barbari bellicosi del nord che uccidono uomini con la stessa facilità con cui i contadini raccolgono il grano” diceva sua madre, prima di farlo addormentare. Allora lui tutto preoccupato chiedeva se i germani venissero la notte. La mamma rideva dicendo “No, sono troppo lontani!” E Maximus allora prometteva che sarebbe andato contro  germani per salvare la sua famiglia, un giorno. Passò di corsa avanti a quello che sua madre chiamava “bordello”. Ogni tanto suo padre ci ronzava intorno, Maximus pensava che doveva una specie di locanda: si, era sicuramente così. Intravide i capelli castani di Gaio ondeggiare avanti a lui. C’era quasi. I sandali leggeri erano ben stretti intorno alle sue gambette esili di bambino, ma guai a farglielo notare. Aveva il viso paffutello e un’espressione che ispirava simpatia: ma nessuno dei due gli sarebbe servito per raggiungere Gaio.  «Maximus!» chiamava sua madre « Menio! Gaio!» continuava, distraendolo. «È  ora di mangiare!»
«Eccomi.» sentì arrendersi Menio. Ma Gaio era troppo vicino per lasciarlo andare. Muoveva le gambe sempre più veloci, ed ora non sarebbe riuscito a fermarsi neppure se avesse voluto. I crampi della fame gli attanagliavano lo stomaco, ma strinse i denti: voleva assolutamente dimostrare di essere più veloce di Gaio. Aveva quattro anni di differenza con lui, che ne aveva sette. Protese una mano in avanti, sfiorando la tunica ispida che vestiva quel giorno. Ad un tratto il sandalo sinistro si slacciò, Maximus pestò uno sei lacci e cadde rovinosamente a terra, sbucciandosi le ginocchia. Gaio sentendo il tonfo si voltò e corse da lui.  «Ti sei fatto male Maximus?» chiese preoccupato, incurante della gente che rischiava di schiacciare i due bambini.  Maximus, dolorante e con il sangue che sembrava non voler più smettere di fluire, strinse forte i denti e annuì.  «Fa’ vedere.» disse, scostando delicatamente la mano di Maximus. Arricciò le labbra, poi lo aiutò ad alzarsi «Andiamo alla fonte a lavare la ferita.» lo esortò. Passarono il quartiere, muovendosi fra le matrone dell’alta società, truccate e con i capelli biondi finti, acquistati al Nord. Maximus la trovava una cosa ridicola, erano buffe con i ciuffi scuri sotto e i capelli biondissimi sopra. La ferita gli bruciò e lui fece affidamento su Gaio per non cadere. Sentì un uomo toccargli la spalla. Si voltò e lo riconobbe subito. Lucius gli sorrise, poi gli fece cenno di muoversi contro di lui. Maximus di appoggiò e Lucius lo tirò su. Era così fiero del fratello maggiore che era entrato nell’esercito!  «Cos’ha fatto?» chiese a Gaio.
«È  caduto mentre stavamo giocando.» rispose lui. Lucius lo portò alla fontanella dell’acqua, e si misero in fila. C’erano tre donne che stavano prendendo l’acqua con delle brocche grandi e capenti. Lucius aveva diciotto anni, ed ora sarebbe partito per essere un cavaliere nell’esercito. L’avevano scelto come cavaliere perché era più alto della media, ed era facile per lui tenersi sopra il cavallo. Andava in palestra da quando aveva dodici anni ed era diventato veramente forte. Lo issò sul bordo, mettendolo con le gambe sotto il getto d’acqua. Il dolore che sentiva era un dolore buono, come quando si toglieva una scheggia di legno dal dito. Lucius passò un pezzo della sua tunica sulla sua gamba, tamponando, per asciugare.
«Dovevi tornare a casa subito!»
«Volevo prendere Gaio.» rispose sincero, con le guance imporporate.
Lucius sorrise benevolo e gli arruffò i capelli. «Sei il mio fratellino forte Maximus. Un giorno prenderai anche me.» scherzò. Maximus sorrise di rimando e balzò giù dalla fontana. Gaio lo riprese «Se cadi di nuovo ti meno!» disse severo. Maximus sentì Lucius ridere, ma non sapeva bene perché. Prese Lucius per la mano, mentre Gaio li fiancheggiava. «Tu non mi prendi la mano, Gaio?» chiese Lucius divertito.
«Non sono mica un moccioso io.» rispose lui, seccato: chissà perché era seccato? Per Lucius? Maximus stravedeva per lui: e un giorno sapeva che sarebbe stato come lui; alto, forte e, soprattutto, soldato. Muovendosi fra le strade affollate Lucius li condusse a casa. Vivevano al piano terra di uno dei palazzi migliori, costruito per la maggior parte in pietra. Nei caldi giorni d’estate, il padre portava fuori la tavola e mangiavano lì. Erano tutti fuori, aspettandoli.
«Lucius!» chiamò sua madre.
«Tutto bene, madre.» rispose prontamente il fratello. «Maximus è solo caduto.»
Vide l’ansia sul suo viso. Corse verso di lui, lo prese per i polsi e, abbassandosi per guardarlo negli occhi, scandì. «Quando ti chiamo devi venire subito qui, intesi?» sua madre era una donna minuta che aveva quasi trentotto anni, con la pelle chiara occhi marroni e capelli castani e di media lunghezza, raccolti sulla testa.
«Perdonatemi, madre.» si scusò. Vide suo padre seduto al tavolo. Era un uomo alto e dalla pelle scura e macchiata dal sole. Era un artigiano e produceva vasellame e tinture per le case dei patrizi.
«Ora sedetevi e mangiamo.» concluse il padre, facendo cenno alla moglie di andare a prendere il cibo scaldato. Maximus annusò il buon odore proveniente della cucina. Si sedette accanto a Lucius e alla madre. Sorrise al fratello mentre la madre gli faceva il piatto, infine prese un pezzo di pane nero e lo mise il bocca affamato.
 
 


 
TERRE DEI SASSONI
 
 
Vaughan pose fine all’assemblea dei guerrieri quando il sole stava calando. Uscì dalla grande capanna dove l’avevano tenuto. Tornando a Nord avevano fatto razzie in un paio di villaggi nemici: ricco bottino e poca resistenza, ottime cose. Passò davanti al grande falò, sempre acceso negli ultimi giorni, per andare verso la sua capanna. «Mio signore Vaughan!» lo richiamò Fearchar «Avete scordato la lancia appoggiata alla parete.» disse porgendogliela con riverenza.
Vaughan sorrise: «Ti ringrazio, Fearchar. La vecchiaia, eh!» Fearchar rise.
«Mio signore.» lo chiamò Helga, la levatrice.
«Sì?»
«La romana, è all’ottavo mese. Qualcuno deve spiegarle che deve mangiare la carne. Non posso più lavorare così: non mangia carne, non mangia questo, non mangia quello; deve accontentarsi o qui non sopravvivono né madre né figlio.» aveva l’aria arrabbiata. Non andava d’accordo con Cicilia, diceva che era spocchiosa, anche se in realtà era solo spaesata.  A lui invece la romana piaceva, e non poco... Durante il viaggio avevano parlato un po’. Era l’unico con cui riuscisse a farsi capire. Parlando aveva notato che era sagace e divertente; interessante, intrigante... poi era venuto fuori che era un prostituta. Appena lo aveva intuito le sue guance erano andate in fiamme e si era sentito a disagio. “No mio affare” aveva detto in latino alzando le mani e astenendosi dal giudicarla. «Ci penso io.»
Vaughan sapeva che a Roma molti mangiavano solo verdure o pesce. Ma nelle loro vicinanze c’erano solo fiumiciattoli senza pesci e scarse possibilità di coltivazione. «È  a scaldarsi vicino al falò. Questa poi: sembra che muoia per un po’ di freddo, la stagione non è poi così rigida! Potrebbe anche andare a letto vista la sua condizione. Le è stata assegnata una piccola capanna ed è bene che la sfrutti.»
«Ha freddo, Helga, non è abituata.»
Quella schioccò le labbra e si allontanò. «Le vado a prendere delle erbe per un infuso. Ha la nausea da mezzodì.»
Lui raggiunse il falò a passo svelto. «Cicilia.» la chiamò «Dovresti andare a letto.»
Lei si sforzò di parlare sassone. «Freddo.»
«Lo so, ma dovresti stenderti.»
Scosse la testa. «Non capisco.»
«Tu dovere stare a letto.» balbettò in latino.
«Troppo fretto.» rispose tornando alla lingua barbara.
«Ti porto delle coperte, va bene? Va’, dai». Le porse la sua mano libera, essendo l’altra occupata dalla lancia.
«Io non riesco alzarmi. Io... sono male.» mormorò. Impiegò un po’ per capire che voleva dire di sentirsi male.
«Ti aiuto io, non c’è problema». Le prese una mano. «Perché ti senti male?»
«Io... testa fa male».
«Ti gira la testa?» chiese per chiarire. Lei annuì.
«Ti devi nutrire di più. Con la carne.»
«Io non piaccio carne.»
«Lo so, ma qui non abbiamo quello che puoi mangiare a Roma. O la carne o tu e tuo figlio morite.»
Abbassò lo sguardo, cominciando a piangere. «Cicilia, non fare così» le sussurrò carezzevole, inginocchiandosi davanti a lei, ancora seduta. «Cos’hai?» appoggiò la lancia a terra per prenderle le spalle fra le mani.
«Io so che sono schiava, ma perché tu uccide se io non mangia carne...»
«Io non...» sorrise «Non lo farei mai. Tu ti senti male perché non mangi abbastanza. Non hai abbastanza energie per entrambi. Ed è pericoloso sia per te che per il tuo bambino. La carne ti serve, ti dà più nutrimento.»
Lei si sorprese, poi si mise a ridere mentre asciugava le lacrime con la manica pesante. «Stupida io!» rise.
Gli uomini dicevano che le donne in gravidanza erano soggette a frequenti sbalzi d’umore... doveva essere così, pensò. Vaughan le sorrise: «Dai, andiamo.»
Cicilia si alzò aggrappandosi a lui. Gli piaceva la sensazione di una donna che si affidava a lui. Erano anni che proteggeva il villaggio per le mogli e le famiglie altrui. E la sua famiglia? Sua moglie? Per un attimo fantasticò su Cicilia come sua moglie, se la immaginò nuda a fare l’amore con lui... Che cretino; fantasticare su una donna incinta di un altro! La portò fino alla piccola capanna che le aveva fatto assegnare. La accompagnò all’interno. «Siedi sul letto.» Era un letto fatto con la lana delle pecore che allevavano nella tribù. Era tutti fatti così, in modo da essere caldi.  La accompagnò a sedersi e, quando lei fu ben salda nella sua posizione, andò ad accenderle il fuoco nel piccolo focolare di pietra, come il resto della capanna. Erano poche le capanne effettivamente fatte di paglia. Quando non era ancora capotribù aveva visto fin troppo villaggi rasi al suolo da un fuoco spento male o da una scintilla andata nel posto sbagliato. Così le case del villaggio le aveva fatte costruire in pietra. Non erano certo le pietre che usavano i romani per le loro mura e città; erano pietre irregolari, tenute insieme da vari materiali fusi, un po’ di paglia e terra.
«Sei stanca?»
«Sempre più.» rise.
Vaughan, una volta acceso il fuoco grazie alla pietra focaia, si alzò, riprese la lancia che aveva appoggiato alla parete: «Mio signore?»
«Chiamami Vaughan.»
«Muove...» sussurrò. Vaughan le sorrise e si avvicinò, stese la mano sopra il suo pancione e la guardò, le annuì e solo allora Vaughan appoggiò la sua rude mano barbara sopra un piccolo esserino romano. Lo sentiva muoversi... Doveva essere magnifico diventare genitori.
«Suo padre, come si chiamava?»
Lei esitò. «Capo romano: Marco.» rispose alla fine.
Helga entrò: «Mio signore Vaughan: ecco le erbe e l’acqua per l’infuso.» Vaughan tolse la mano dal ventre di Cicilia, imbarazzato. «Grazie, Helga. Potresti andare nella mia capanna e prendere le coperte di lana?»
La donna si guardò intorno, appoggiò a terra il cestino con le erbe e la ciotola ferrea con l’acqua. «Subito». Uscì con un aria seccata. Vaughan si alzò e portò il tutto vicino al fuoco. Si strappò un lembo della tunica lunga e vi avvolse le erbe, annodandolo alla fine. Immerse il fagottino nell’acqua e l’avvicinò al fuoco.
«Sei gentile.»
Vaughan sorrise. «No... o perlomeno nessuno me lo ha mai fatto notare.»
«Tu gentile a prepara... erbe per me.» scivolò con la schiena fino ad arrivare a sdraiarsi completamente.
Vaughan le si sedette vicino di nuovo. «Ti manca Roma?»
«Io fa puttana a Roma... non manca, no.»
«Non ti mancano neppure le persone? Hai fratelli o sorelle?»
«No.  A me non sono fratelli o sorelle ancora vivi. A me era un fratello più grande, però lui morto perché... fuoco...» gesticolò con le mani, facendogli capire che era morto in un incendio. «Tu?»
«Io ho un fratello, poi molte sorelle. Le mie sorelle però sono tutte sposate con uomini di altre tribù e non sono qui. Mio fratello invece vive qui. È  Olaf.»
Lei annuì. «Tu... simile... poco poco. Lui però sempre...Sssh.» portò l’indice alle labbra.
«Sì, è vero. Lui non parla molto;» rise  «come te.»
«Io parla tanto in Roma, ma qui io non parla tua linguaggio!» rise.
Vaughan rise, alzandosi. Tolse la ciotola dal fuoco, afferrandola con il mantello,  e con le dita tolse il fagottino di erbe. «Ahi! Maledizione!» imprecò, scottandosi con l’acqua bollente. Appoggiò l’infuso sulla pietra dal focolare, si tolse il mantello e ve lo avvolse, portandolo a Cicilia.
«Tu bene?»
«Sì. Ma fai attenzione, aspetta prima di bere: scotta.»
Storse la testa.
«Brucia... è troppo caldo.»
«Oh!» esclamò comprendendo. Prese il mantello che avvolgeva l’infuso. Vaughan glielo passò delicatamente, arrivando a sfiorarle le mani. Quando le lambì le dita le sorrise, fissandole intensamente gli occhi scurissimi. Lei gli accarezzò una mano. «Grazie...»
Helga entrò di nuovo, lanciando un occhiata di ammonizione a Vaughan. Lui si alzò all’istante. Riprese la lancia ed il mantello, non appena Cicilia lo ebbe sostituito con una coperta. Una volta che Helga stese le coperte, la salutò. «Per cena ti farò portare della carne: tu mangiala, sforzati.»
Lei annuì, sorridendogli. «Grazie, mio signore Vaughan.»
«Non ringraziarmi». Le sorrise.
Uscì dalla capanna con Helga. «Siete molto sensibile al fascino romano, non è vero mio signore?» rise di lui la vecchia.
Vaughan sorrise sotto i baffi.
 
Realizzò che non gli importava se era incinta di un altro.






NOTE DELL'AUTRICE:
ultima revisione:12/02/2015
  
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